Vita di san Carlo -4
DAL 1573 AL 1575
TERZO CONCILIO PROVINCIALE - NUOVE TRIBOLAZIONI
Nell'aprile del 1573 celebrò il terzo Concilio Provinciale, rimandato prima per la sua malattia e poi per l'elezione del Papa. L'utilità di questo Concilio interessò la stessa Chiesa universale. Infatti, mentre Carlo faceva pervenire a Roma i decreti per ottenere l'approvazione papale, il Papa poteva ricevere utilissime proposte soprattutto riguardo alla celebrazione dei Concili in ciascuna Metropoli, perché in parecchie Provincie veniva tralasciata.
Purtroppo, in quel periodo si riaccese la contesa giuridica che contrapponeva tra di loro Governatore e Arcivescovo. Il contenzioso aveva come oggetto la difesa dei diritti propri delle due autorità nei casi nei quali una di esse finiva per affiancarsi all'altra e, poi, rischiava di sovrapporsi a essa. In concreto questo conflitto di interessi si realizzava ogni qual volta l'Arcivescovo interveniva di persona nel contrastare fattivamente comportamenti gravemente immorali e, quindi, non solo illeciti ma, più a fondo, dannosi per la vita ecclesiale e, insieme, per quella di tutta la società civile. Nei casi più gravi, mentre le persone persistevano nel compiere illeciti, esse incrinavano pericolosamente l'ordine della vita comune. Insieme, però, mettevano ancor più pericolosamente in crisi la credibilità del Vescovo che li richiamava con forza al ravvedimento. In questi casi, Carlo diventava inflessibile e reagiva in modo molto fermo. Giungeva persino a fare arrestare dalle sue guardie chi pubblicamente contrastava la morale in modo grave e sistematico, soprattutto provocatorio. Arrestati, costoro si appellavano alla Magistratura e, talvolta, al Governatore chiedendo che il potere civile bloccasse quello religioso. Protestavano e reclamavano che il Re e lo Stato non rinunciassero a fare valere la propria autorità. Ma, in tal modo, la loro accusa attaccava direttamente l'autorità spirituale del Vescovo e di fatto giungeva a sua volta a mettere il Vescovo in stato di accusa, in modo grave. Bloccava la sua azione di pastore del proprio gregge e, in tal modo, riduceva di molto l'autorità della Chiesa quasi fino ad annullarla.
Di solito i Vescovi in casi di questo genere non intervenivano. E, se lo facevano, senz'altro non agivano con la chiarezza e con la forza con le quali invece si muoveva Carlo. Lasciavano "correre", forse più preoccupati del loro quieto vivere che non della difesa della santità della Chiesa. Purtroppo, un simile atteggiamento remissivo consentiva al malaffare di insinuarsi di soppiatto nelle pieghe della vita della Chiesa. Quasi indisturbato, poteva crescere e svilupparsi fino a corrompere e a snaturare le stesse radici della vita della Chiesa.
Proprio questo era il problema pastorale visto da Carlo con lucidità in tutta la sua concretezza e in tutta la sua vastità. La domanda che Carlo di continuo poneva a se stesso era molto semplice e precisa: come doveva difendere dal potere del male la Chiesa di cui lui era Vescovo? Come ristabilire il diritto di Dio là dove questo era addirittura ridicolizzato beffardamente ed era insieme volutamente calpestato? Come rimanere fedele agli impegni di difesa della Chiesa assunti con Dio nel momento della sua consacrazione episcopale?
Il Re di Spagna, in quei tempi autorità suprema sul Ducato di Milano, comprese perfettamente l'onesta intellettuale e morale di Carlo. Per questo, più e più volte difese l'operato di Carlo. Lo stesso fecero i Papi, quando venivano interpellati, anche se non sempre rispondevano in modo sollecito.
Un ultimo punto va precisato. Carlo chiedeva molto alla sua Chiesa e alla sua società. Ma a se stesso chiedeva moltissimo. Non vedeva mai in questione la sua persona, ma la funzione sacra che Dio gli aveva dato. Quindi, per lui, in gioco era la Chiesa, non già la sua persona. Perciò, non difese mai i propri diritti umani. Ma sempre cercava con tutte le sue forze di rispettare scrupolosamente tutti i propri doveri.
Queste considerazioni fanno comprendere i motivi per i quali Carlo arrivò a scomunicare cittadini che, talvolta, faceva anche arrestare dalle sue guardie. I casi più spinosi e contestati riguardavano la proibizione dei pubblici balli nei giorni festivi, in cui il buon costume cristiano doveva dedicarsi alle opere di Dio, come era stato stabilito nel primo Concilio Provinciale. Comminò la scomunica anche ai Governatori di Milano, quando questi giungevano a disconoscere e a neutralizzare la sua autorità di Vescovo difendendo pubblicamente i trasgressori che si appellavano a loro.
Va detto che Carlo, temendo che la situazione degenerasse al punto da sfuggire a qualsiasi possibilità di controllo, rimandava il più possibile i provvedimenti. Tentava approcci personali riservati per convincere le persone al rispetto dei comuni valori cristiani. Era, però, fermissimo nel contrastare ogni calcolo umano sollevato dalla paura e, quindi, nel superare, prima di tutto in se stesso, l'incertezza. Era infatti decisamente convinto che nella vita sopraggiungono momenti nei quali il rimettersi a Dio può generare momenti anche drammatici. Ciò lo rendeva un uomo e un Vescovo quanto mai inflessibile impedendogli, però, di assumere comportamenti superficiali e temerari.
Qui può essere utile ricordare due comportamenti tenuti da chi visse quei drammatici frangenti. Proprio nel periodo di più acuta tensione, mentre tutti pensavano che Carlo sarebbe rimasto chiuso nel suo palazzo, egli usciva con un piccolo seguito, come soleva sempre fare per umiltà, per raggiungere i corpi dei Santi patroni, pregare e fare penitenze come aveva letto che aveva fatto Sant'Ambrogio nelle sue tribolazioni.
Inoltre, in quei momenti, tutti esaltavano a parole la rettitudine delle sue intenzioni e la fermezza della sua costanza. Erano però davvero pochi quelli che prendevano apertamente la difesa dei suoi atti. E così rendevano molto estesi i confini della sua solitudine e delle sue preoccupazioni.
VARIE DISPOSIZIONI
In quel 1573, pur così tribolato, il suo slancio pastorale rimase fortissimo. Si ripropose di portare la sua Chiesa a preparare il Natale con preghiere e atti forti di devozione. Notava che la santità di quel periodo era pressoché sconosciuta ai laici e che per il suo clero essa si riduceva quasi al solo cambiamento dei paramenti e delle cerimonie liturgiche.
Allora decise di invitare tutti con l'esempio personale e con una pubblica esortazione a vivere quel periodo nel digiuno quotidiano. Con tale intervento ottenne finalmente che non solo la sua famiglia e molte comunità soggette alla sua vigilanza, ma anche moltissimi altri del clero e del laicato, chi con maggiore chi con minore austerità, come avviene nelle cose lasciate alla libera decisione di ciascuno, onorassero e trascorressero con molta devozione quel tempo liturgico.
All'inizio del 1574 prese un'iniziativa analoga per proteggere i giorni che precedono la Quaresima dall'assalto della corruzione che tutti gli anni arrivava puntuale. In quei giorni, poi, era preoccupato anche dal fatto che, mentre aveva ottenuto per la sua Diocesi l'istituzione delle Stazioni secondo l'uso romano, uomini e donne vivevano in modo superficiale quella pratica. Le donne raggiungevano le chiese in abiti ricercati ed immodesti e provocavano sguardi disonesti. Pur avendo tentato di eliminare quell'inconveniente, non poté riuscirvi del tutto.
Tenne in quell'anno per la quarta volta il Sinodo Diocesano. In esso, per la prima volta, diede norme precise sull'abito clericale, distinguendolo secondo la diversità del luogo e della dignità, e su tante altre cose molto utili per i chierici e per il popolo. Inoltre per la prima volta aggiunse ai decreti del Sinodo alcune esortazioni scritte già di vecchia tradizione, in cui i Sacerdoti venivano esortati da dettagliate indicazioni pratiche a compiere senza imprecisioni o errori ciascuno il proprio ufficio.
A ROMA, PER IL GIUBILEO
Il 1575 era l'anno del Giubileo. Carlo aveva deciso di recarsi a Roma in autunno perché giudicava che, fra tutte, quella era la stagione meno dannosa per la sua Diocesi qualora avesse bisogno di starne lontano. Ma il Papa lo prevenne e non una sola volta gli fece sapere che vi si recasse prima dell'inizio dell'anno per ottenere da lui preziosi consigli. In realtà Carlo aveva già dato parecchi suggerimenti attraverso il Carniglia, ad esempio per la costituzione di un ospedale dei poveri e la segregazione delle meretrici.
Importante risultò la lettera scritta da Carlo alla Diocesi. Per sete di guadagno, i librai la diffusero non solo nelle altre città, ma anche negli altri Stati. Di fatto, servì a fare vivere efficacemente il pellegrinaggio a Roma.
Inoltre, sul punto di partire secondo la volontà del Papa, ne chiese prima la licenza scritta, solo per il desiderio di osservare quella prescrizione che ordina che un Vescovo non si allontani dalla sua Diocesi senza la legittima facoltà, secondo la norma dei sacri canoni. Con tale gesto consigliò a tempo al Pontefice che non permettesse a nessun Vescovo di recarsi a Roma senza la sua licenza scritta con aggiunta la prescrizione dei limiti di tempo, perché nessuno, con la scusa del Giubileo, cercasse un pretesto per abbandonare troppo a lungo la sua sede. Egli stesso impose al suo clero di partire con una sua lettera da consegnare subito a Roma a Cesare Speciano ed al ritorno, dopo il tempo prescritto, di ritirare da lui la testimonianza di buona condotta e di onesta abitazione.
Carlo dunque partì nel mese di dicembre ed iniziò un pellegrinaggio veramente difficile. Misurava le tappe giornaliere non secondo la comodità degli alberghi, ma secondo la condizione del tempo. Era sempre notte sia quando usciva da un albergo sia quando giungeva al successivo. Per questo aveva ottenuto per sé e per i suoi accompagnatori la facoltà di celebrare la Messa anche due ore prima dell'alba.
Giungeva a certi alberghi molto rozzi e lì, siccome non voleva mandare nessun preavviso, anche per osservare l'astinenza dell'Avvento, che era per tutti quasi inusitata e per lui invece una pratica da osservarsi con gran perfezione, si riduceva a cibarsi spesso insieme con il seguito, di erbe, noci o mele. Talvolta giunse in località dove doveva pernottare in tuguri inospitali ma dove godeva pienamente della tanto desiderata scomodità. Del resto, tutto il tempo veniva trascorso in preghiera e in meditazione.
Volle passare per Camaldoli, la Verna, Assisi e negli altri luoghi legati a S. Francesco.
A Roma visse devotamente il pellegrinaggio. Ripeté la confessione dei suoi peccati passati e si immerse nel programma di preghiere stabilito. Si recò a piedi processionalmente col suo seguito alle Basiliche. Lungo la strada si recitavano senza alcuna interruzione le litanie e molte altre preghiere e al suo breve corteo si aggregavano moltissime persone anche di grande nobiltà.
All'inizio del mese di febbraio 1575 partì da Roma e mentre si dirigeva a Guastalla, perché invitato da Cesare Gonzaga, Duca della città, e da Camilla Borromeo, che era sua sorella e sposa di Cesare, a consacrare una chiesa che essi avevano fatto costruire, venne a sapere della gravissima malattia del cognato, che era in pericolo di morte. Viaggiando anche di notte, raggiunse la casa del cognato il mattino seguente. Alle preghiere pubbliche, fece seguire una preghiera privata che senza intervallo veniva a turno compiuta dai suoi familiari e da altri religiosi. Egli stesso la iniziò, recitando tutto il salterio.
Cesare, sostenuto dai Sacramenti, affrontò la morte con fede. Carlo portò alla sepoltura la salma di Cesare, consacrò la chiesa nella città e, dati alla sorella vedova quei consigli che riguardavano il bene e l'ordine della casa e dello Stato, tornò in fretta a Milano.
A questo punto mi si affaccia il ricordo, dico, di quel giorno in cui, abbandonata la vita secolare, mi diedi tutto intero a Carlo pensando che con un tale capo e patrono non sarei potuto deviare dalla strada della salvezza. È fisso nel mio animo il soavissimo ricordo di quella cerimonia con la quale, togliendomi con le sue mani l'abito profano e rivestendomi di quello sacro, quell'Uomo apostolico mi esortò con una frase dell'Apostolo a spogliarmi dell'uomo vecchio ed a rivestirmi di quello nuovo. Poi, in breve tempo, con la mistica imposizione delle sue mani, mi elevò per tutti i gradi dell'Ordine sacro. Voglia la Divina clemenza che la mia vita possa in qualche modo essere conforme alla dignità delle cose sacre ed alla santità sacerdotale!