Dibattiti 2 - Archivio

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IL MONDO A PEZZI E LA DIPLOMAZIA DELLA SANTA SEDE

In alcuni articoli recenti si è trattato della scarsa fiducia che gode oggi la diplomazia, quell’arte della politica capace di costruire trattati che consentono alla politica di dialogare, di tessere rapporti e trattati.
Qualcuno parla addirittura di fine della diplomazia proprio perché sembra oggi scomparsa a  causa della complessità della situazione geopolitica attuale, una complessità che incide molto anche sulla stessa diplomazia vaticana cha fatica a costruire dialoghi e trattative in un mondo sempre più diviso e a pezzi.  

(foto: Papa Benedetto XV)

I Vecchi schemi non bastano più

di Matteo Matzuzzi, dal quotidiano Il Foglio, genn. 2025

Quando le truppe tedesche entrarono a Bruxelles, nell'estate del 1914, la Chiesa cattolica si preparava al Conclave che avrebbe eletto il successore di Pio X. Il Papa era ancora «prigioniero in Vaticano» e i cardinali si trovarono subito a risolvere un bel dilemma: chi eleggere? Intanto, bisognava scartare i porporati provenienti dai Paesi in guerra, poi quelli che avevano la nazionalità di un Paese alleato di quello in conflitto, infine i nunzi apostolici accreditati nei Paesi belligeranti. Calcolando che in Cappella Sistina, allora, entrarono solo 57 cardinali, la scelta era limitata e difficile. Il consenso ricadde non a caso su un diplomatico, il cardinale Giacomo della Chiesa, arcivescovo di Bologna con lunga esperienza in Segreteria di Stato. Mite, taciturno, erede della scuola del cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, pareva l'uomo adatto per tenere il timone della Chiesa in tempi così oscuri come quelli che si presentavano per l'Europa. Benedetto XV è passato alla storia per la Nota alle potenze belligeranti del 1° agosto 1917, con quell'appello a porre fine alla «inutile strage», che fu accolto malissimo da quanti s'affrontavano nel fango putrido delle trincee. I tedeschi lo accusarono d'essere filo-francese, i francesi d'essere «le Pape boche», il Papa crucco. Eppure lui, Benedetto, non si stancò di operare per la pace: diede mandato di lavorare per i feriti e i dispersi, di aiutare le popolazioni rimaste senza casa, diede fondo alle casse vaticane, cercò di aprire un pertugio che potesse favorire un canale di dialogo – anche minimo – fra le Parti in causa. Il tutto, è bene ricordarlo, in una situazione ancora precaria per la Chiesa cattolica, privata da mezzo secolo dei suoi territori e ancora lontana dal risolvere i problemi con lo Stato italiano. L'azione di Benedetto XV fu un insuccesso, se guardato con gli occhi dell'osservatore contemporaneo. Ma, in realtà, fu il primo passo verso l'implementazione di quella diplomazia del Papa che nel Novecento avrebbe lasciato traccia su tutti i principali stravolgimenti storici e sociali visti e vissuti sul pianeta. Uno per tutti, il crollo del Muro di Berlino, con l'azione determinante del polacco Giovanni Paolo II.

Più d'un secolo dopo, con quella che Papa Francesco ha definito la «Terza guerra mondiale a pezzi», il quadro appare assai complicato e anche la diplomazia della Santa Sede si trova alle prese con un mondo cambiato e non sempre facilmente inquadrabile nei consueti schemi adottati per lungo tempo. Tradizionalmente, la diplomazia della Chiesa si è sempre vantata di essere terza, al di sopra delle parti: quasi «moralmente superiore», verrebbe da dire, dotata cioè di caratteristiche proprie e non riscontrabili in altri attori. Talmente terza che, e lo si è visto nel presente pontificato, ha sempre ripetuto di non voler mediare fra le Parti in causa, bensì di limitarsi a facilitare una mediazione. In sostanza, un attore terzo che mette a disposizione tutto il proprio know-how affinché si giunga a una composizione pacifica e positiva delle controversie. Lo si è visto bene nel negoziato che ha portato gli Stati Uniti e Cuba a porre fine a decenni di scontri a tutti i livelli, con Barack Obama e Raúl Castro che – di concerto – ringraziavano Papa Francesco per il suo lavorio discreto ma efficace. E il Papa «santificava» tale ricongiungimento premettendo una visita a Cuba alla già programmata tappa statunitense, nel settembre del 2015.

Qualcosa poi si è rotto, nelle consuetudini diplomatiche. L'attacco della Russia all'Ucraina ha determinato anche per la Santa Sede una svolta e un disorientamento dal quale ha fatto fatica a riprendersi. Appena Vladimir Putin iniziava i bombardamenti su Kiev, la Santa Sede si limitava – come sempre fatto – a deplorare l'atto ostile, senza nominare l'aggressore, ché facendolo si sarebbe preclusa ogni spazio d'azione. Lo stesso comportamento era adottato dal Pontefice, che però nel frattempo si faceva fotografare mentre entrava all'ambasciata della Federazione russa presso la Santa Sede: un tentativo di arginare sul nascere l'azione del Cremlino. Progressivamente, la diplomazia vaticana si è trovata in una situazione con scarsa possibilità di manovra: pressata dall'Ucraina che chiedeva un'esplicita condanna dell'aggressore e impossibilitata ad agire come agente facilitatore in quanto i settori più conservatori e nazionalisti del Patriarcato moscovita mai avrebbero accettato un ruolo attivo del «Papa di Roma». Le interviste abituali di Francesco, poi, hanno contribuito a creare un clima di diffidenza da parte ucraina: gli accenni alla «Nato che abbaia ai confini della Russia», la scelta di parlare di «bandiera bianca» da sventolare «quando vedi che sei sconfitto» e, da ultimo, la presa di posizione pubblica dello scorso agosto contro la legge ucraina che ha messo al bando la Chiesa ortodossa legata al Patriarcato moscovita. Nonostante le successive precisazioni, è rimasta evidente la freddezza nei rapporti. D'altro canto, anche l'aver bollato il Patriarca Kirill come «chierichetto di Putin» ha alienato almeno parte dell'amicizia delle gerarchie ortodosse.

Non meglio è andata sull'altro fronte della «Terza guerra mondiale a pezzi», quello del Vicino oriente. Dopo il pogrom perpetrato da Hamas il 7 ottobre del 2023, la posizione della Santa Sede – e del Pontefice in particolare – è stata messa all'indice sia dalle autorità governative israeliane sia dalle Comunità ebraiche presenti in ogni parte del globo. Inizialmente, al governo di Benjamin Netanyahu non è piaciuta l'equidistanza manifestata dal Vaticano fra le vittime israeliane dei kibbutz e quelle palestinesi a Gaza. Successivamente, dopo la reazione armata d'Israele, la tensione si è acuita e a finire nel mirino sono stati anche i Patriarchi cristiani di stanza a Gerusalemme. Il piano politico si è confuso con quello religioso e gli appelli del Papa per la fine dei raid sulla Striscia hanno portato intellettuali e autorità ebraiche a sostenere che ciò comportava un rallentamento del dialogo interreligioso faticosamente messo in piedi dal Concilio Vaticano II. Si parlava addirittura di un recupero dei vecchi schemi sulla violenza vendicativa veterotestamentaria e dei cliché antisemiti. Da ultimo, l'auspicio di Francesco che si indaghi su un possibile genocidio a Gaza ha ulteriormente aggravato il quadro.

Il mutamento globale, con i conflitti che intersecano piani diversi fra loro (siano essi etnici, spirituali o meramente politici), e l'abuso della comunicazione sui social network – ove sovente lo spazio riservato alle fake news è preponderante – ha reso arduo per la diplomazia vaticana esercitare il suo consueto ruolo calmierante fra le Parti in causa. L'avanzare della demagogia populista corroborata da chiari accenti nazionalistici ha reso di fatto impossibile per la Santa Sede proseguire lungo gli antichi tracciati: il low profile è scomparso, se non laddove è anche la controparte a esigerlo (vedasi il caso dei positivi negoziati con la Repubblica popolare cinese in relazione all'Accordo sulla nomina dei vescovi). L'interventismo della Santa Sade è richiesto, il silenzio non è più contemplato. Il problema è che quando parla, il Papa è immediatamente trascinato nella mischia, issato a baluardo dell'uno o dell'altro campo, rendendone vana l'opera diplomatica. Un bel problema che richiede un aggiornamento a schemi e modelli del presente contesto internazionale, mai come ora fluido e imperscrutabile.

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CHE IL 2025 SIA L'ANNO DELLA PACE

Continuiamo ostinatamente a credere che ci siano ancora delle vie di uscita che consentano di fermare la guerra tra Russia e Ucraina e una di queste vie è quella di ridare alla politica e alla diplomazia il loro ruolo fondamentale nella soluzione dei problemi. Certo, lo si ripete ad ogni articolo che pubblichiamo: la guerra non risolve alcun problema.  
Ci ostiniamo a credere che possa esistere ancora una diplomazia capace di tessere accordi anche se la storia insegna che troppo spesso la diplomazia è solo al servizio del potere.
Nel frattempo sale sempre di più il numero dei morti sia tra le linee russe che ucraine al punto che ora per entrambi i contendenti l’urgenza è quella della denatalità: ‘occorre fare più figli’ è l’appello sia di Zelensky che di e Putin mentre, oltre ai morti, cresce sempre di più il numero di giovani che disertano  dal fronte e fuggono dalla guerra.

UCRAINA
La pace ha bisogno di una vera “terra di confine”, non delle truppe Nato

di Dario Chiesa, Collabora con il Centro Studi Europa Orientale (Cseo),  ha viaggiato per tutti gli anni 60 nell’Europa dell’Est, incontrando numerose comunità cattoliche di quei Paesi. Negli anni 70 si è occupato di politica nella Democrazia Cristiana. Negli ultimi anni ha collaborato con il quotidiano Il Sussidiario, Gennaio 2025

L’anno che ci siamo da poco lasciati alle spalle si è contraddistinto per un elevato numero di guerre in corso, come denunciato da Papa Francesco nelle sue invocazioni per la pace. Si aggiungono poi molteplici pericolose crisi a livello geopolitico e nelle situazioni interne di vari Stati: si pensi alle crisi in Georgia, Corea del Sud o Romania, solo per fare alcuni esempi. Il 2025 non si presenta quindi bene, a meno di sperare che anche i vari governanti e detentori di potere si impegnino in buoni propositi per l’anno nuovo, come veniva richiesto un tempo a noi bambini. Buoni propositi perché non solo si ponga fine alle guerre in corso, ma si raggiunga una vera pace e si risolvano i problemi che potrebbero produrre nuovi conflitti. Tanto più che il 2025 sarà l’anno del Giubileo, un Anno Santo che speriamo possa essere tale non solo per il mondo cattolico.

Insieme alla speranza, occorre rendersi conto che le guerre non risolvono i problemi, solitamente ne creano di nuovi; esse sono estremamente costose e dolorose, anche per chi apparentemente le vince, e in moltissimi casi potrebbero essere evitate, se lo si volesse. La guerra non è una continuazione della politica con altri mezzi, come affermava von Clausewitz, ne è la negazione e bisogna ridare alla politica e alla diplomazia il loro ruolo fondamentale nella soluzione dei problemi.

Quanto precede può essere probabilmente definito un bel discorso, ma del tutto teorico, wishful thinking direbbero gli inglesi. Eppure, se non ci si vuole arrendere alla inevitabilità della guerra, questa è l’unica strada. Un esempio è l’attuale guerra in Ucraina. Buona parte dei commenti condivisi dall’opinione pubblica occidentale partono da una constatazione di fatto: la Russia, governata da un regime non democratico, ha invaso l’Ucraina violando il diritto internazionale. Gli ucraini non potevano che legittimamente difendersi e le democrazie occidentali non potevano esimersi dal sostenerli finanziariamente e militarmente.

Una posizione, questa, realistica e aderente a quanto successo dal 2022, ma la storia inizia qualche decennio prima con il crollo dell’Unione Sovietica. Non vi è dubbio sulla volontà della maggioranza degli ucraini di far parte dell’Europa occidentale e che sia da rigettare la tesi nazionalista russa di un’Ucraina indissolubilmente legata alla Russia, ripresa ultimamente anche dal Patriarca Kirill, patriarca ortodosso di Mosca. Tuttavia, si è rivelata irrealistica l’ipotesi di troncare ogni rapporto con la Russia, cui l’Ucraina è legata da secoli di storia. Il suo stesso nome, “Terra di confine”, indica l’importante ruolo che può svolgere di ponte tra la Russia e il resto dell’Europa.

È pensabile che questo ruolo dell’Ucraina possa essere di scarso interesse per il regime moscovita, che preferirebbe averla come Stato satellite tipo Bielorussia. Tuttavia, avrebbe dovuto essere l’obiettivo primario delle democrazie occidentali, in primo luogo degli Stati Uniti. L’analisi della politica di Washington in tutti questi anni consente l’ipotesi che si sia cercato volutamente lo scontro con la Russia. Si sperava, probabilmente, in un indebolimento dell’attuale sistema, riportando così la Russia in una situazione meno antagonista e più dipendente dagli Stati Uniti.

Un obiettivo che non sembrerebbe essere stato raggiunto. Nonostante l’errore iniziale di Putin, con il suo tentativo di regime change a Kyiv e la conseguente umiliante ritirata, attualmente Mosca sta vincendo sul campo, pur con rilevantissimi costi. Né è stato raggiunto l’altro obiettivo, mirante a un sostanziale isolamento di Mosca, che si trova invece sostenuta da una serie di Paesi che, sia pure con interessi divergenti, si trovano uniti nel contrapporsi alle pretese egemoniche degli Stati Uniti.

Riconsiderando oggettivamente i fatti di una decina di anni fa, emerge netta la sensazione di una spregiudicata strumentalizzazione delle manifestazioni spontanee nella piazza Maidan a Kyiv. Così come emerge la pesante intromissione di Washington nelle scelte di governo dell’Ucraina, con emarginazione dell’Unione Europea, evidenziata dalla famosa esclamazione di Virginia Nuland, allora vicesegretario di Stato, durante una telefonata con l’ambasciatore statunitense in Ucraina: “Fuck Eu”.

La progressiva chiusura verso la forte minoranza russa in Ucraina ha portato al separatismo delle due repubbliche del Donbass, senza dubbio sobillata da Mosca, e alla guerra iniziata nel 2014. Gli accordi cosiddetti Minsk 2, del 2015, che prevedevano l’attribuzione di un autogoverno del Donbass all’interno dell’Ucraina, non sono mai stati attuati. Si è ricominciato a parlare di una possibile, sebbene futura, adesione dell’Ucraina alla Nato, mossa che non poteva non essere considerata ostile da Mosca.

La situazione sul campo sta diventando sempre più difficile per l’Ucraina e i russi continuano ad avanzare. Lo stesso Zelensky è passato dal proclamare la continuazione della guerra fino alla cacciata dell’invasore al sostenere la soluzione diplomatica per il Donbass e la Crimea. Da Washington, tuttavia, nessun segnale in questa direzione. Dopo la fuga dall’Afghanistan, probabilmente Biden non se la sente di rinunciare alla “faccia feroce” finora tenuta verso il Cremlino. Il tutto viene demandato al presidente eletto, Donald Trump, che avrebbe sistemato la questione in poco tempo. Intanto in Ucraina si continua a morire.

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NATALE DI GUERRA E SPERANZA DI PACE

Romanzi, memorie, lettere dal fronte: Rigoni Stern, Remarque, Lussu e quella notte di Natale del 1914. Quando il nemico non è più visto come un bersaglio da abbattere, ma come un fratello.

(Foto: Una scena del film "Joyeux Noël - Una verità dimenticata dalla storia" - 2005)

Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa

di Stefano Picciano

«Fuori c’è la steppa desolata e le stelle che splendono di sopra a questa isba sono le stesse che splendono di sopra alle nostre case».
In un istante la vasta distanza che separa gli affetti più cari dalla grevità del presente è spazzata via e la memoria ritorna alla patria, che appare d’un tratto vicina e sembra persino vincere il freddo dell’ennesima notte di veglia. Nelle parole di Mario Rigoni Stern emerge un’umanità che meraviglia e commuove, specie nel ricorrente tornare alla casa, agli affetti, alle memorie più familiari:
«I russi ripresero a sparare (…). Incominciava ad essere buio e tra poco sarebbe sorta la luna. Nelle nostre case, in quel momento, erano attorno alla tavola».

Sarebbe bene rileggere le pagine dei grandi racconti di guerra ai nostri studenti che, pur lontani dagli avvenimenti narrati, ascoltano quotidiane notizie drammatiche con il rischio di abituarsene: pagine capaci di mostrare che anche i fronti più cruenti divennero talvolta occasione di un’umanità che emerge tanto di più perché si trova nel buio. Episodi di condivisione improvvisa, di compassione inaspettata, di un imprevisto mutamento dello sguardo. Che l’altro sia un nemico da abbattere è, in guerra, la norma; ma che il nemico sia improvvisamente guardato al di fuori della mentalità divenuta normale, al di là dell’ideologia che impedisce il pensiero, come un semplice uomo – con desideri e paure e nostalgie – è un fatto che rimane possibile.

Compagno, io non ti volevo uccidere
Assai noto è il racconto di Erich Maria Remarque (Niente di nuovo sul fronte occidentale) in cui il soldato tedesco Paul, caduto durante un assalto in una buca, sente d’un tratto, nell’oscurità, cadervi un soldato avversario: senza pensare lo colpisce ripetutamente col pugnale, dando inizio a una logorante nottata in compagnia del nemico che, troppo lentamente, muore. Nelle interminabili ore di questa indesiderata vicinanza egli è costretto ad assistere con strazio lancinante alla conseguenza di un gesto che lui stesso ha compiuto e che ora vorrebbe cancellare:
«Prenditi venti anni della mia vita, compagno, e alzati; prendine di più perché io non so che cosa ne potrò mai fare».

Lo affianca, gli porta da bere, lo adagia con ogni delicatezza sul terreno:
«Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un’altra volta qua dentro, io non ti ucciderei (…). Ma prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti nel mio cervello (…). Soltanto ora vedo che sei un uomo come me».

Avevo di fronte un uomo
Nel contesto più buio è possibile che si intraveda talvolta qualche raggio di luce che, per contrasto, rifulge ancora di più. È un’esperienza analoga a quella che Emilio Lussu descrive in Un anno sull’altipiano, quando alcuni soldati di un battaglione italiano individuano, tra le sterpaglie adiacenti la trincea, la possibilità di estendere la loro zona d’osservazione fino a un’area in prossimità della trincea austriaca, potendo da lì osservare, non visti, il nemico da distanza ravvicinata e, eventualmente, colpirlo. L’occasione è unica, il lavoro degli zappatori è ben presto portato a termine e il nemico appare là, ignaro bersaglio di un colpo fin troppo facile:
«Ecco il nemico ed ecco gli austriaci! (…) Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma così, solo per istinto, afferrai il fucile».

È il momento di premere il grilletto, quando alcuni semplicissimi gesti compiuti dai soldati austriaci mettono in primo piano l’umanità del nemico, che viene d’un tratto guardato non più come un bersaglio da abbattere, bensì come uomo:
«Che io tirassi contro un ufficiale nemico era (…) un fatto logico. (…) Perché non avrei, ora, tirato io su quell’ufficiale? (…) Non v’era dubbio, io avevo il dovere di tirare. E, intanto, non tiravo».

Lussu porta magistralmente il lettore nel concitato agitarsi dei suoi pensieri, nel turbinìo delle sensazioni inattese, fino all’emergere della consapevolezza più chiara:
«Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! (…) Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. (…) Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa».

Indomita possibilità
È noto che, nella notte del 25 dicembre 1914, mentre i soldati sul fronte belga si trovavano nelle trincee, rompendo il silenzio che avvolgeva tutte le cose qualcuno, dalla trincea tedesca, intonò la melodia di un canto natalizio. Un istante di stupore, poi, documentato dalle lettere scritte dai soldati, l’evento inatteso: gli inglesi rispondono al canto. Al tedesco Stille Nacht fa eco, dalla trincea britannica, Silent Night: identica melodia, diverse parole.

Il miracolo è compiuto. Al mattino, qualcuno esce allo scoperto e va incontro al nemico. Nessuno spara. Senza che nulla fosse stato concordato, inglesi e tedeschi si avvicinano, si stringono la mano, si scambiano cibo e tabacco. Una partita a calcio, improvvisata sul campo tra le trincee e vinta dai tedeschi per 3 a 2, è forse la pagina più commovente della grande guerra e rimane come la flebile fiamma di una candela sempre accesa, anche nel contesto più buio. La parola tremante nella notte – pronunciata da Ungaretti nel 1916 – continua a risuonare come una indomita possibilità in tutti i teatri di guerra: «fratelli».

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L'INFERNO DEL MEDIO ORIENTE

Il giornalista Domenico Quirico conosce bene i fondamentalisti islamici da cui fu catturato e mostrato al mondo come trofeo in attesa di esecuzione.
Dopo la caduta del dittatore Assad, la Siria è divenuta uno stato dell’ISIS: cosa aspettarsi da questa nuova e pericolosa situazione? Chi manovra, dietro le quinte, la politica mediorientale?
Quirico, da esperto osservatore di quelle guerre e di quelle terre, descrive le intricate trame di una politica che non sa più cosa sia l’arte della  diplomazia.


Medio Oriente. Quegli Stati burattinai e incendiari nell’inferno di jihadisti senza padroni

Domenico Quirico, giornalista e saggista, La Stampa - dicembre 2024

Scrivere della Siria, decifrarla, impone una disciplina prudente, una specie di permanente modalità di “stand by”. La realtà delle alleanze e dei tradimenti costringe a una vigilanza che impari a sviluppare a poco a poco, bisogna scrivere e riscrivere molte volte prima che i fatti sfocino nel senso. Qui la Storia non è vissuta come un libro, ma come un corpo, passioni ferite odio memorie torture arcaismi in nome di Allah… ti sembra di avere bene in pugno il filo giusto, islamisti, Erdogan, Stati Uniti, Iran il regime di Bashar, Israele, e ti accorgi che devi invece fiutare i dintorni, i margini di interessi e sottigliezze invisibili, un permanente mito di Sisifo.
Non c’è niente che ti faccia cadere in errore quanto un luogo in cui sono state massacrate cinquecentomila persone, un Paese incastrato tra un regime morto-vivente e islamisti in armi, terra incognita diventata lo schermo su cui le grandi e le micro potenze proiettano le loro ansie e i loro interessi, dove si cristallizzano con una brutale accelerazione le opposizioni globali e locali innescate da due date fatidiche, il 24 febbraio 2022 (inizio della guerra tra Russia e Ucraina) e il 7 ottobre di un anno fa (strage di ebrei ad opera di Hamas).
Alla fine viene il dubbio: e se la spiegazione fosse in una situazione hobbesiana di ognuno per sé e tutti contro tutti? Spunti di risposta, le alleanze e le complicità dipendono sempre da cosa si vuole.

Allora da chi si deve partire se non da Erdogan il turco? Uno che si dichiara e poi si ritrae, si avvicina e poi fa un passo indietro, urla o si eclissa, vago o categorico. Tutti lo indicano da tre giorni come il burattinaio, l’incendiario che si spera diventi, quando gli converrà, pompiere. L’inferno siriano ribollente di odi miopi e in perenne subbuglio gli si addice da tempo. Le legioni islamiste che in tre giorni hanno preso Aleppo, e tra poco Homs e Hama vecchi bastioni del fondamentalismo ribelle agli Assad (e forse anche Damasco e il Palazzo), non sono forse una sua creatura? Non le ha, con volpina preveggenza, costruite lui prelevando dal caos siriano al-Qaida, scaglie esplose di guerra civile, sigle finte, mercenari arruolati nella pentola bollente e indecifrabile del Caucaso, spingendole a camuffarsi da moderati, da fondamentalisti ragionevoli? Ha garantito la riproduzione in piccolo della futura Siria modello sharia a Idlib, una tortuga islamista di tremila chilometri quadrati e quattro milioni di abitanti con comodo posto di frontiera a Baba-al-Hawa che produce opportune tangenti sugli aiuti internazionali. Una legione straniera per i vecchi sogni di Erdogan: eliminare con un po’ di ritardo il detestato Assad, e come al tempo delle primavere arabe diventare il padrone per un secondo dominio ottomano. O Aleppo potrebbe essere il vero bottino, capitale di una énclave turca, un Donbass siriano da cui tenere a bada l’antico problema dei curdi.

Verosimile, realistico? Erdogan è un inesauribile creatore di trame, alla fine diventano così intricate che lui stesso non riesce più a svincolarsene, ne diventa passivo prigioniero. Un piccolo dubbio per il sultano: e se i suoi legionari di “al-Sham”giocassero con lui una doppia trama di inganni, e non avessero certo rinunciato al rigoroso “Lebensraum” (spazio vitale) islamista per far da strofinacci alla grandeur turca? In fondo obbediscono solo a dio, cioè a se stessi, visto che si considerano dio. E poi qualcuno dimentica nella confusione dell’oggi lo Stato islamico: non è scomparso, è acquattato nel deserto di Badiya, il caos è come sempre una perfetta occasione.

La Russia ha aiutato Assad a sopravvivere, non per simpatia autarchica verso l’ex oculista londinese. Per la guerra lunga in Ucraina ha ridotto i suoi contingenti, ma non può rinunciare al pulviscolo di basi aeree e navali con cui minaccia e controlla il fianco sud est della Nato. È troppo importante per la sua pretesa potenza globale per barattarla con Erdogan. Deve, se è ancora possibile, salvare per l’ennesima volta Bashar al-Assad con l’aiuto dell’indebolito Iran.

Già, gli ayatollah di Teheran: possono rinunciare davvero alla Siria alauita, perdere il controllo dell’autostrada che è la vena che pulsa ossigeno e armi per i fedelissimi di Hezbollah che cercano di sopravvivere ai castighi israeliani e sfruttare il cessate il fuoco per riorganizzarsi? Mosca e Teheran, due alleati che non hanno complici di riserva, che non possono lasciar fare, non mischiarsi di nulla, dottrinari obbligati a un fatalismo violento, meticoloso. E incerto.

Perfino l’onnipotente Israele ha difficoltà ad adattare le sue dottrine alla realtà siriana di oggi. C’è la tentazione a rinunciare alla coesistenza, in fondo consolidata routine con gli Assad e assistere soddisfatti al crollo di un altro pezzo del maledetto impero sciita, perfino agevolarla, nello spirito del nuovo Medio Oriente del dopo Hamas. Israele dal ’67 occupa un pezzo di Siria, il Golan, annesso come zona di sicurezza contro le tentazioni iraniane. Se i jiadisti conquistano la Siria non sono forse un vicino più pericoloso di Bashar al-Assad? Dopo Gaza chi garantisce che Erdogan ne terrà a bada i furori?

Gli americani che hanno truppe in Siria nelle zone curde nominalmente per tener d’occhio lo stato islamico, ai tempi di Obama lasciarono morire per omissione la prima rivoluzione siriana, quella laica e civile, del 2011. Che errore commetteranno questa volta nella pigrizia dell’interminabile interregno tra Biden e Trump?

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UOMO DEL MIO TEMPO

Nel romanzo "I Fratelli Karamazov" Dostoevskji raggiunge una potenza narrativa e drammatica titanica là dove fa incontrare i due fratelli Ivan ed Alësa  in una bettola dove poi i due cominciano a discorrere.
Nelle parole dell’ateo Ivan vi è tutto lo scandalo del male, uno scandalo che toglie ogni giustificazione all’esistenza di Dio:


Sono convinto come un bambino che le sofferenze si rimargineranno e si cancelleranno … che tutto l’abominio umano scomparirà … nel momento dell’armonia universale … che tutto si redimerà, tutte le infamie umane, tutto il sangue versato, basterà a far sì che diventi possibile non solo perdonare ma giustificare tutto ciò che è accaduto fra gli uomini. Sì, tutti gli uomini sono colpevoli, gli è stato offerto il paradiso e loro hanno voluto la libertà, hanno rapito il fuoco dal cielo pur sapendo che sarebbero stati infelici, bisogna compatirli”.
[… ] Ma i bambini che colpa ne hanno? È inconcepibile che questi piccini debbano soffrire, e perché occorre comprare l’armonia al prezzo della loro sofferenza? ...  Perché devono servire da concime per qualche futura armonia?”.
“[…] Com'è possibile che l’abominio, o semplicemente il capriccio, la sete di potere e non ultima l’idea, possa tradursi in atti di violenza sui bambini gratuitamente? … Dove sta Dio? Perché lo permette?”
“…gli uomini hanno mangiato del frutto proibito, conosciuto il bene e il male, ma i bambini, i bambini no e dunque di cosa sono colpevoli per soffrire a volte terribilmente qui sulla terra? Sono forse castigati per la colpa dei loro padri?”
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Attraverso le parole di Ivan si coglie il dramma dell’ateismo: è un processo a Dio che Ivan mette in atto, a Dio e al suo regno armonioso che fa pagare “ai figli dei figli, per sette generazioni, la colpa dei padri”.
E tutto questo Ivan non lo accetta:


La solidarietà tra gli uomini nel peccato, io la comprendo, come comprendo la solidarietà nell’espiazione, ma la solidarietà nel peccato non riguarda i bambini. E che anch’essi sono solidali con tutti i delitti commessi dai padri, io, una tale verità, non la comprendo e non l’accetto … Ecco perché io non posso credere nel tuo Dio. Io non credo in lui, né nell’immortalità dell’anima”.
“Io affermo fin d’ora che tutta la verità non vale un tale prezzo e a Dio restituisco con tutto rispetto il biglietto
”.

Questo è lo scandalo per Ivan Karamazov: perfino di fronte al dolore innocente Dio tace. Dio tace alla miseria, all’urlo di bisogno, alla preghiera che sale dal cuore dell’uomo.

La potenza narrativa di Dostoevskij ci racconta di un tempo che sembra non cambiare mai:

“Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre….”
(
S. QuasimodoUomo del mio tempo)

E ancora sono i bambini le prime vittime innocenti.
E il Natale a narrarci il mistero di un Dio che si fa bambino come loro.
 


Le disumane guerre di oggi. Quando bersagli sono anche i bambini, le donne, i vecchi

Domenico Quirico, giornalista, La Stampa, dicembre 2024

Qual è il limite? La domanda qualcuno la griderà davanti ai corpi dei bambini palestinesi del campo di Nuseirat uccisi da un bombardamento israeliano mentre erano con le madri in coda davanti a un fornaio. Quattro tombe di polvere e calcinacci. Lo schiaffo gigantesco della bomba ha spazzato tutto, le povere case le ha piegate su se stesse; e poi i tremendi atti del dopo, come li ho visti ad Aleppo e in mille altri luoghi: si scava con le mani mentre si diffonde un acuto odore di morte. Un urlo richiama verso una maceria più grande. Sono qui, i morti. C’è chi bacia il cemento macchiato di sangue. Altri bambini guardano, spiano l’orrore. Adesso anche loro sanno.

Allora dove è il confine? Urlate chiedete esigete. La risposta ve la do prima che gli uni e gli altri trasformino quei bambini assassinati in simboli, come gli altri tremila che sono morti in un anno di guerra a Gaza, trasfigurando in numeri le barelle di disperazione, la carne sfigurata, stracci, occhi chiusi sul buio. E li opponga a quelli uccisi il sette ottobre. Siamo pari, che volete?

Ho la risposta. Il limite non c’è. Queste sono le guerre di oggi. Dove la morte dei bambini non è più un insopportabile punto di arrivo, è soltanto un punto di partenza , un punto di orrore da cui prendere la rincorsa verso altri limiti di accettata inumanità. Non so che farmene dei legulei del diritto internazionale, della classifica dei crimini di guerra. Chiacchiere, perdite di tempo. Nessuno pagherà per i piccoli assassinati di Nuseirat e degli altri luoghi. E lo sappiamo benissimo.

Questo naufragio moderno della Storia è un mondo di figli senza più madri e di madri senza più figli, di viandanti sperduti tra ordini brutali che arrivano sui telefonini, uomini senza più casa né pane né dio, dall’Ucraina alla Palestina dal Sahel alla Siria. Una strage quotidiana di innocenti, peggio che ostaggi, bersagli anonimi. Il ventunesimo secolo come lo abbiamo voluto nella consumazione di tutte le possibilità, il gran bazar delle identità, delle purezze, delle ragioni e dei torti, del bene e del male ovviamente sempre assoluti. Umanità residua, vendette, uno sconcio finale di partita.

Ma come osate, i bambini sono innocenti! Scordatevi questa bugia poiché vivete in un mondo in cui tutti sono costantemente minacciati da qualcosa. I bambini , la loro vita, sono un’arma, uno strumento di propaganda, un dettaglio, un peso, un altro segmento da “ripulire”, il verbo del nuovo secolo. Nelle mille guerre piccole e grandi, vissute in diretta tv o ignorate come una irrilevante vergogna, li hanno già derubati senza batter ciglio della ebrezza della infanzia in nome delle bugiarde sicurezze dei nostri conti da regolare.

Gaza certo, e Sarajevo Aleppo Mariupol Grozny, e poi poi… città peste rotte sbaragliate che agonizzano sotto un mantello di bombe dove la Storia più che un tentativo di registrare eventi e capire, è la consuetudine di riordinare fatti atroci , è un processo di oblio. I bambini… che volete importino i bambini?

Ad Aleppo nei cinque anni della battaglia tra ribelli e l’esercito di Assad colpivano con i mortai proprio dove sapevano che esistevano i pochi forni che ancora, a singhiozzo, gettavano alla gente attraverso uno sportello, cialde di pane. Ore di attesa tra le macerie allungavano file dolenti, soprattutto di donne e bambini. Servivano i bambini, eccome: piccoli e agili guizzavano, nella polvere, nella rissa degli adulti, per portar via i frammenti sudici del pane. È lì gli artiglieri regolavano sapientemente la forcella delle loro traiettorie omicide. Suvvia, dove si poteva ammazzare così facilmente tanta gente? E a Sarajevo, l’avete dimenticato il bombardamento serbo del mercato? Il cibo, il pane, la fame e la morte…un perfetto sargasso di crimine e miseria.

Per favore non parlatemi per l’ennesima volta anche per ieri di errore tecnico, di bersaglio sbagliato… Non ci credo. L’industria democida funziona con meccanismo perfetto, scientifico, industriale. Perché abbiamo inventato armi come droni, bombardieri, missili che possono essere usate anche da vigliacchi? Sono al riparo da qualsiasi rischio e sono assicurati contro eventuali rimorsi: non si vede chi hai ucciso, sta laggiù a chilometri, in fondo a un mirino, nel quadrante di un pannello elettronico sapientemente programmato… longitudine … latitudine… minuti necessari all’impatto… Dove sono i bambini? Quali bambini? Mi hanno dato delle coordinate, dei punti su una mappa: schiaccio zoom bersaglio colpito, spegnere il contatto. Operazione ultimata.

Sapete: uccidere è una faccenda impersonale, tiri il grilletto e non vedi cadere nessuno, solo dopo in tv, sui social puoi scoprire che hai annientato qualcuno, jihadisti terroristi di Hamas miliziani di Hezbollah profughi civili russi o ucraini… difficile dirlo, forse sono i generali e politici lo sanno . Perché i piloti e gli armigeri remoti dei droni non vengono a contemplare anche a Nuseirat i frutti della loro criminale commercio tecnologico?

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

DOMANDE E DUBBI SU ISRAELE E LA GUERRA

Non è facile oggi discutere serenamente della guerra in corso tra Israele e Hamas. Quando sembrava ch

e la millenaria «questione ebraica» fosse ormai un ricordo del passato da consegnare nei libri di storia, un passato segnato dall’ Olocausto e dal senso di colpa di un mondo che l’aveva provocato o comunque non aveva saputo impedirlo, l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e la successiva reazione di Israele, ancora in corso, l’hanno drammaticamente riaperta e riportata all’ attualità.
Oggi, quindi, la storia di Israele è inevitabilmente intrecciata con le sorti e la politica dello Stato di Israele, un intreccio che ha risvegliato in Occidente i fantasmi dell’antisemitismo ormai presente in molte manifestazioni di piazza e in molta ideologia politica.
Sono gli stessi ebrei, peraltro, a vivere dolorosamente questo intreccio. Diceva in un’intervista un rappresentante del movimento ebraico liberale in Francia, il rabbino David Meyer:
Per la stragrande maggioranza degli ebrei, siano essi israeliani o meno, penso che si abbia la sensazione che, dopo il 7 ottobre, il mondo sia cambiato. Credo che ciò che è cambiato è innanzittutto la percezione che la sicurezza che pensavamo che lo Stato di Israele offrisse a sé stesso e all’ebraismo, ebbene, quella sicurezza, è andata in frantumi. Per questo abbiamo parlato di pogrom, perché ha rimandato gli ebrei a una realtà del passato che pensavamo fosse abolita da qualche parte dalla storia e dalla creazione dello Stato di Israele (…). La realtà è che ci sentiamo estremamente soli ed estremamente odiati”.

Si spiega così l’incondizionata solidarietà data dalle organizzazioni ebraiche alla guerra condotta da Tel Aviv nella Striscia di Gaza, che tante dure critiche ha suscitato nell’opinione pubblica mondiale.
Certo, non tutti gli ebrei condividono la politica dello Stato israeliano ma, dice ancora il rabbino Meyer, “allo stesso tempo, non può esserci nemmeno una disconnessione tra ebraismo e Stato di Israele. Il popolo ebraico non è solo una religione, non è solo l’ebraismo, è anche una nazione, un’etnia, una storia. In qualche modo, non possiamo separare i due».
Ma si può, per rispetto agli ebrei, limitarsi a condannare la ferocia di Hamas, tacendo su ciò che gli israeliani stanno facendo a Gaza e in Cisgiordania? Non c’è il rischio che l’antisemitismo diventi, come ha detto qualcuno, «un’arma di guerra» per coprire e giustificare atteggiamenti e comportamenti inaccettabili da parte di Israele e dei suoi sostenitori?

La professoressa Anna Foa, che ha un prestigioso passato di insegnante universitaria di Storia alla “Sapienza” di Roma, in particolare di storia dell’ebraismo, ha pubblicato un libro che cerca di dare qualche risposta a queste domande, un libro dal titolo provocatorio ‘Il suicidio di Israele (Editori Laterza, Bari, 2024) che già nel titolo è destinato a suscitare contrasti e polemiche: ma un libro che poteva scrivere solo una donna ebrea profondamente unita al popolo di Israele e alla sua travagliata storia.

 
“IL SUICIDIO DI ISRAELE”

Intervista alla prof.ssa Anna Foa, di A. Tornielli e R. Cetera, L’Osservatore Romano, novembre 2024

Professoressa, perché lei crede che Israele corra il rischio del suicidio?
Quando parlo di suicidio penso innanzitutto a un suicidio anche fisico, territoriale. Cioè io non credo che Israele riuscirà a vincere contro tutti i nemici con cui si trova a combattere su più fronti, a cominciare dall’Iran che rimane sullo sfondo dei vari fronti. Certo, tireremmo un sospiro di sollievo se ci fosse un cambio di regime a Teheran, ma non penso proprio che sarà l’attuale primo ministro israeliano a realizzarlo. Senza contare che l’idea che lui ha in mente per Israele ha molti punti di contatto con certe teocrazie. Il secondo piano a cui mi riferisco è quello del suicidio politico: Israele è isolato da tutto il resto del mondo. L’antisemitismo cresce ovunque, anche se in Israele questo rileva poco perché riguarda gli ebrei della diaspora, anzi sollecita questa rappresentazione di essere soli contro tutto il mondo pervaso dall’antisemitismo. E poi c’è anche un suicidio morale, un suicidio etico. Vediamo con sgomento che quelli che nobilmente avevano manifestato ogni sabato contro Netanyahu e la sua riforma della giustizia ora tacciono, forse perché ancora sotto il trauma del 7 ottobre. Certo è che ora è in ballo il destino di Israele. E non va sottovalutato un clima di repressione interna, una tendenza verso l’autoritarismo, che si accompagna alla guerra. E a cui solo pochissimi gruppi sembrano opporsi.

Tra i vari aspetti del suo libro c’è preminente quello del rapporto tra sionismo e colonialismo che lei analizza sia dal punto di vista storico sia da quello dell’attualità. E si sofferma anche sul carattere antropologico del conflitto. La matrice europea del sionismo è vissuta dagli arabi come un’espressione di presunta e imposta superiorità culturale, civile e valoriale. Cioè appunto colonialista. A margine di un’intervista con il nostro giornale, l’anno scorso il presidente palestinese Mahmoud Abbas ci confidò che un futuro di pace sarebbe stato agevolato dalla prevalenza in Israele della componente ebraica sefardita.
Ci sono storici che parlano addirittura di un colonialismo interno a Israele, nei primi anni dell’arrivo degli ebrei sefarditi, dei mizrahim, dai paesi arabi o dal Vicino oriente. Le cose che vi ha detto Abu Mazen mettono in evidenza quello che scrive uno storico recente, Derek Penslar, sulla radice dell’idea di colonialismo. Il colonialismo di Israele non è simile al colonialismo classico europeo. Non ci sono Stati che lo guidino. Più che con le armi si è originato con l’acquisto delle terre. E Penslar infatti dice che i palestinesi parlano di colonialismo perché percepiscono che Israele è il portatore di un’idea di supremazia europea. E ciò in effetti è evidente, fin dai discorsi di Ben Gurion e, come dicevo, anche nel modo in cui sono stati trattati gli ebrei provenienti dai paesi arabi. Un po’ paradossalmente poi i palestinesi vengono considerati dagli altri arabi un popolo maggiormente acculturato, di studiosi, di scrittori, di poeti, di giovani che vanno a studiare nelle università europee. Forse l’idea di una supremazia nasce dal deficit di democrazia che ha sempre caratterizzato le istituzioni palestinesi. Non si vota in Palestina da quasi vent’anni. Ma se si pensa che probabilmente le elezioni avrebbero portato al potere Hamas potremmo dire che si può vivere anche con un deficit di democrazia. Io penso, in relazione alla vostra domanda, che sì, l’idea della supremazia europeista condizioni molto la percezione di un Israele colonialista. Poi nella storia reale elementi di iniziativa colonialista non sono mancati, a cominciare dalla prima guerra del 1948, “guerra di liberazione” per gli ebrei e “Nakba” (il disastro) per gli arabi. E nondimeno nel 1967 con la colonizzazione della Cisgiordania e di Gaza. Non ho dubbi comunque nel condividere l’idea che il carattere anche antropologico del conflitto sia molto importante, e troppo spesso sottaciuta in favore della dimensione solo politica o militare. Che il superamento di questo pregiudizio possa poi produrre un solo Stato in cui le due etnie convivano pacificamente mi sembra abbastanza improbabile oggi.

Nel libro si parla poi di un altro grande tema, che è la piaga secolare dell’antisemitismo. Un atteggiamento e una pratica che hanno attraversato la storia europea scrivendone pagine terribili e incancellabili alla memoria. Nel libro lei sostiene che si va sempre più verso un’identificazione tra antisemitismo e antisionismo. Questo costituisce un problema perché ogni volta che si critica la politica di Israele e del suo governo si rischia di essere tacciati di antisemitismo.
Sì, è vero. È un atteggiamento sempre più ricorrente, che si esprime in quella frase accusatoria «ti interessi solo degli ebrei morti e non di quelli ancora vivi», cioè pensa a Israele e non solo alla Shoah. In verità anche diversi intellettuali ebrei, sia israeliani che americani, hanno denunciato la facile e approssimativa identificazione corrente tra antisemitismo e antisionismo. Certo che vi sono rapporti tra antisionismo e antisemitismo ma il problema è cosa si intenda per sionismo, o forse per sionismi perché ne esistono diverse — a volte molto differenti — declinazioni. Oggi prevale l’equivalenza tra sionismo e politica del governo di Israele. In origine sionismo indicava l’aspirazione a uno Stato; dal momento in cui lo Stato si è creato esiste piuttosto la politica dello Stato, cioè la politica di Israele. È vero che molte espressioni di antisionismo hanno assunto le forme di un deprecabile antisemitismo, basti guardare a certi slogan delle manifestazioni dei giovani. E sicuramente l’antisemitismo è una brutta bestia che va sradicata sul nascere. Però io credo che, prima ancora che su questa pseudo-ideologia nefasta, l’enfasi andrebbe posta su Gaza, sui troppi morti di Gaza, e prima ancora sul 7 ottobre. Non a caso in Israele non si parla di antisemitismo, si parla della guerra. È un problema che riguarda essenzialmente la diaspora. E dico che — forse su questo alcuni non saranno d’accordo — se in Europa si parla molto di antisemitismo è per evitare di parlare della guerra a Gaza.

L’ex presidente israeliano Rivlin, in un discorso di qualche anno fa, ebbe a dire che in Israele sono tornate le tribù di origine biblica, cioè che la società israeliana è sempre più multiforme, se non proprio divisa. Lei nel libro scrive che le tribù, in fondo, ci sono sempre state; sono soltanto cambiate. Non più solo la divisione tra ashkenaziti e sefarditi ma ora anche i settlers nazionalisti religiosi e messianici, e poi la presenza sempre crescente degli haridim. Tutto il mondo è cambiato negli ultimi anni ma la società è cambiata più rapidamente. E forse questo è il motivo principale della sua crisi. Qual è la sua opinione su questo cambiamento? Perché la religione ha assunto un peso così forte, così determinante, anche sulla politica?
Bisogna intanto distinguere la religiosità degli haridim da quella dei nazionalisti religiosi, che dicono di agire sulla spinta di Dio, realizzando il volere del Signore. Come sosteneva Baruch Goldstein, un assassino seriale, colpevole della strage di Hebron nel 1994, o il suo ispiratore il rabbino Meir Kahane, o quel colono, Yigal Amir, che uccise Rabin nel 1995. È un’esacerbazione della religione ma strettamente connaturata al nazionalismo. In realtà la destra storica sia sionista sia israeliana, anche nelle sue componenti più radicali, non aveva questo tipo di caratteristiche religiose. Tale deriva religiosa, erede del sionismo revisionista di Yabotinsky, in realtà nasce solo dopo il 1967, cioè dopo l’ubriacatura seguita alla conquista di Gerusalemme e all’avvento dei coloni chiamati a insediarsi nei territori occupati. Tutti abbiamo visto nella Cisgiordania occupata questi coloni, con la kippà all’uncinetto e il mitra a tracolla, che spesso spalleggiati dai militari spadroneggiano e commettono violenze. Spaventa che dopo il 7 ottobre il governo abbia distribuito loro migliaia di armi automatiche. Sono ormai 700.000 e con i due ministri Smotrich e Ben-Gvir condizionano le decisioni del governo, perché senza i loro voti Netanyahu non avrebbe una maggioranza parlamentare. Sono destinati a crescere di numero e di peso perché, a differenza di quanto avviene a Tel Aviv, fanno molti figli.

Questo processo ha vissuto un punto di svolta nel 2018 con l’approvazione della legge costituzionale denominata “basic law” (Israele non ha una costituzione ma 14 leggi di rango costituzionale, ndr) con la quale è stata sancita l’ebraicità dello Stato d’ Israele. Una legge che in Occidente non ha meritato la giusta attenzione per i rischi e le implicazioni connesse.
Esatto. Intanto è diminuito il ruolo della lingua araba. Prima Israele aveva tre lingue ufficiali, ebraico, arabo e inglese: ora è stata data preminenza all’ebraico. In secondo luogo cambiano i caratteri della democrazia, nel senso che Israele diviene uno Stato solo parzialmente democratico per i cittadini non ebrei, quindi per i cittadini israeliani arabi e musulmani, o cristiani o drusi. Gli arabo-israeliani già nel periodo dal 1948 al 1967 avevano subito forti limitazioni alla loro cittadinanza. Certo non può definirsi un regime di apartheid. È ordinario che tu vada in un ospedale israeliano e possa trovare un primario palestinese. Ma questo in Israele. Se invece vai nella West Bank in effetti trovi un regime che si avvicina molto all’apartheid. Una cosa che trovo assurda, e che sembra emulata dal fascismo italiano, è l’istituzione del confino. Cioè quella “detenzione amministrativa” per cui si può essere arrestati per un tempo indeterminato, senza avere un processo, e senza aver commesso un reato, ma solo per l’eventualità che possa essere commesso in base alle tue convinzioni politiche. E non parliamo delle condizioni di detenzione, perché anche in Israele è andata affermandosi — come in altri paesi magari cristiani, musulmani o induisti — l’idea di una liceità della vendetta come surrogato della giustizia. L’idea originaria della guerra a Gaza era quella legittima dell’autodifesa e della neutralizzazione di Hamas. Ma è durata due settimane. Dopo di che è prevalsa la vendetta, che è ancora tragicamente in corso.

Lei parlava prima dell’inasprirsi delle violenze scatenate dal fenomeno dei settlers, dei coloni. Il governo sembra assecondarli al punto che nella nomenclatura ufficiale non si parla più di West Bank o Cisgiordania ma di Samaria e Giudea, i termini biblici che evocano l’aspirazione alla Eretz Israel, la Grande Israele. La presenza così massiccia dei coloni rende oggi difficile immaginare la creazione di due stati con i confini del ’67. Ma anche l’opzione dell’unico Stato in cui far convivere pacificamente i due popoli sembra, dopo il 7 ottobre, pura utopia.
La soluzione dell’unico Stato era venuta fuori solo recentemente, sostenuta dal mondo del sionismo umanista. Oggi è assolutamente improponibile per la marea di odio che si è scatenata da entrambe le parti. Io continuo a pensare che l’unica opzione sia quella dei due stati. Io non penso che possa esistere un Israele libero, ancora democratico, privo di paure e angosce, senza la presenza ai suoi confini di uno Stato palestinese. Certo, questo richiede un ricambio di leadership anche da parte palestinese. Prima del 7 ottobre se ne parlava, si facevano i nomi di Barghouti e di altri. Ora le ipotesi tacciono. Le sole parole che contano sono quelle della guerra.

Come media vaticani cerchiamo di sostenere le ragioni di chi soffre e di essere eco alle parole di Papa Francesco che continua a richiamare l’opportunità di «onorevoli compromessi e oneste trattative». Ma viviamo in un mondo che sembra sordo a questi appelli. Manca una proposta ideale e creativa delle diplomazie per la pace.
Senza la pace non si può ricostruire l’immensa distruzione che appare oggi ai nostri occhi. Che non è solo distruzione materiale ma lacerazione degli spiriti feriti dalla violenza e dalla morte. Ma non c’è altra via. E ci vorranno tanti anni per riparare questi animi feriti e violentati: generazioni.

Questo è un punto essenziale: quando cammini per le strade di Gerusalemme tale ostilità reciproca la respiri a ogni passo, a ogni sguardo. Se gli accordi di Oslo sono falliti lo si deve anche a ciò: sono rimasti accordi tra élite politiche, mai metabolizzati dalle due società. Quel 2 per cento di cristiani che vivono in Terra Santa si distinguono per essere gli unici che parlano di pace. Il presidente israeliano Herzog in un’intervista al nostro giornale ebbe a dire che le scuole cristiane sono un’eccellenza perché vi si insegna la pace ai giovani.
Sì, ricordo di aver visitato anni fa una scuola gestita da suore a Gerusalemme e ho avuto la medesima bella impressione di un luogo di dialogo, rispetto e pace

Un’ultima domanda: nel nostro lavoro in Israele registriamo una vivace dialettica tra posizioni diverse che non troviamo nel mondo ebraico della diaspora, salvo poche eccezioni. Così come le osservazioni libere e intelligenti che troviamo sulla stampa israeliana, su «Haaretz» o su «Times of Israel», si fa più fatica a ritrovarle sui media italiani.
«Haaretz» è un giornale prezioso per capire cosa succede veramente. Sì, la diaspora europea, e quella italiana in modo particolare, preferisce tacere e sostenere Israele nel bene e nel male. Insiste sul pericolo che corre Israele, e non su tutto il resto, cioè su una guerra assurda. E non recepisce minimamente le suggestioni che pure arrivano da Israele. Ciò che mi dispiace è che questo favorisce l’antisemitismo, perché non può essere che criticare il governo di Netanyahu, di Ben-Gvir e Smotrich sia considerato un’espressione di antisemitismo. Perché se tutto è antisemitismo alla fine niente è antisemitismo.

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Gli USA hanno votato il loro Presidente e tutto il mondo attende quali saranno le nuove linee politiche, soprattutto si attende qualche soluzione che ponga fine alle guerre in corso, quanto meno alle due grandi guerre in atto, quella tra Russia e Ucraina e quella tra Israele e Hamas. Non ci facciamo illusioni: gli interessi economici, le strategie geopolitiche, le lobby delle armi continueranno a far valere le loro ragioni. Ma, come scrive M. Impagliazzo dalle pagine di Avvenire, occorre fare memoria di cosa sono state le due guerre mondiale e quali stragi e carneficine hanno provocato. Quelle due guerre hanno mostrato il volto dell’inferno ma quel volto ce lo stiamo dimenticando.

La guerra e il dovere della memoria. 
È ancora tempo di immaginare la pace

Marco Impagliazzo, Avvenire

Si ha a volte l’impressione che la grande storia sia un succedersi di conflitti. Di alcuni la memoria è sbiadita; di altri, come la Seconda guerra mondiale, essa rimane ben viva. Più terribile di ogni altro, con più di sessanta milioni di morti e l’uso dell’atomica sulle città giapponesi, quello scontro ha segnato il recente passato e ha suscitato un moto collettivo di repulsione verso l’idea di un confronto armato globale, che nel nostro Paese si è tradotto nell’articolo 11 della nostra Costituzione – «L’Italia ripudia la guerra…» –, nella istituzione dell’Onu, nel processo d’integrazione europea, nello stabilirsi di una coesistenza più o meno pacifica tra potenze e sistemi ideologici ed economici differenti.

Il 1° settembre 1939, data di inizio della guerra, si pone allora come un momento paradigmatico. Di quel che può accadere quando si attraversa il fragile confine tra una difficile convivenza e lo scatenarsi del caos, quando si fa prevalere il rifiuto del compromesso, ovvero la tragica scommessa del tutto o niente.

Eppure, allora qualcuno aveva avvisato i futuri contendenti. Pio XII, nel radiomessaggio del 24 agosto 1939, rivolto agli «uomini della politica e delle armi, gli scrittori, gli oratori della radio e della tribuna, e quanti altri hanno autorità sul pensiero e l’azione dei fratelli, responsabilità delle loro sorti», aveva ricordato che «nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra. Ritornino gli uomini a comprendersi. Riprendano a trattare. Trattando con buona volontà e con rispetto dei reciproci diritti si accorgeranno che ai sinceri e fattivi negoziati non è mai precluso un onorevole successo».

Quell’appello rimase inascoltato. Ma quanto profetico appare alla luce di quel che sarebbe successo, delle decine di milioni di morti di quegli anni, della Shoah, dell’inabissarsi del Vecchio Continente e dell’Asia orientale nel baratro della barbarie e della distruzione.
Ricordare l’inizio dell’ultimo conflitto mondiale non è inutile, dunque. È un monito per l’oggi, è la scelta di non dimettere quella memoria grave, né la tensione unitiva che accompagnò, tra mille battute di arresto, gli anni successivi. Ricordare quel 1° settembre non può nemmeno essere un’operazione banale e interessata, non può essere piegata in maniera “furbetta” e antistorica per giustificare i conflitti dell’oggi. I paragoni nella storia non reggono mai. Tale propaganda finisce per obliterare l’orrore della guerra, e anzi per renderla digeribile alle opinioni pubbliche. Ricordare è un invito a impegnarsi oggi per non ripeterlo domani.

Ed ecco che la voce di Francesco resta inascoltata, così come quella di Pio XII. Ecco che ogni trattativa diventa un appeasement. La memoria storica non può essere distorta secondo le nostre convenienze e i nostri double standard. Essa rimane come un potente avvertimento di quel che di tragico potrebbe accadere.

Chi, quel 1° settembre, avrebbe potuto prevedere gli abissi di disumanità raggiunti nei cinque anni e mezzo successivi? O la distruzione totale di Varsavia, Berlino, Hiroshima? O l’inferno di Auschwitz? Ma tutto può essere perduto con la guerra. E non c’è alcuno statista, per quanto accorto, che può prevedere le cose, o controllarle del tutto, o impedire che un piccolo fuoco diventi un incendio indomabile.

«Chi ha detto che è morto il dottor Stranamore?», si è chiesto a fine luglio su La Stampa Massimo Cacciari. I nuovi Stranamore non hanno i baffetti, non sono cowboy impazziti ma piccoli uomini e piccole donne che giocano con il fuoco, prigionieri delle alleanze militari, del nazionalismo dei popoli che governano, delle stesse dichiarazioni consegnate ai media o ai social.
Cacciari continuava: «Se non avvertiamo la realtà del pericolo non potremo superarlo. Se lo comprendiamo, invece, può crescere la possibilità di salvezza». A questo serve ricordare una pagina tragica della storia del secolo scorso, a riconoscere che il pericolo è ancora dietro l’angolo, che nulla vieta che il presente ripercorra il cammino del passato. «Imminente è il pericolo, ma è ancora tempo», richiamava Pio XII.

È ancora tempo. È tempo di immaginare la pace, le sue vie, le sue prospettive.

LA GUERRA E NOI
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e di risposte difficili.”

Talvolta è semplice gestire i casi della vita. Talvolta lo è di meno. Talvolta non lo è affatto. Allora tutto diventa difficile. Lo stato delle cose turba e mette paura. Le ingiustizie ingigantiscono al punto che la coscienza, cui tocca il compito di gestirle, giunge a perdere il controllo di se stessa. Al tempo stesso la mente non sa più cosa pensare di positivo. In preda all'agitazione, si muove senza più sapere dove andare. E ciò comporta l'insorgere di eventi che, fino a poco prima, erano giudicati impossibili semplicemente perché inammissibili.
Ecco, quello che prima era ritenuto inammissibile, ora è ammesso.
Che significa tutto ciò? Evitando giri contorti di parole, la risposta è presto data. L'uomo cessa di essere umano. Non capisce più se stesso. Soprattutto, perde la percezione della sua origine. Perde infatti il collegamento con Dio. E ciò avviene al punto che l'uomo da Dio passa agli idoli. Sembrano Dio. Ma non lo sono affatto. Sono però esattamente come l'uomo è. Quindi, se l'uomo è dentro di sé colmo di confusione, anch'essi lo sono. E lo sono molto di più, proprio perché sono idoli. Per questo gli idoli costituiscono sempre realtà pericolose.
Una cosa è certa: non si diventa disumani dall'oggi al domani. Lo si diventa poco la volta, giorno dopo giorno. Cedimento dopo cedimento. Peccato dopo peccato. Ed è sempre questione di millimetri. Si passa pertanto per sovvertimenti impercettibili. E' la legge del tarlo. La trave non crolla, spezzandosi, in un minuto. Serve il lavorio magari di anni. Quando però la trave cade spezzata, allora il disastro scoppia fragoroso e devastante.
Questi pensieri gettano luce su di un fenomeno che sta ingigantendo in modo davvero preoccupante. L'uomo degenerato sta facendo degenerare la stessa reazione al male. Al tempo stesso, il male continua a fare degenerare l'uomo. Per questo l'uomo diventa sempre più incapace di capire, valutare. La sua coscienza perde progressivamente di sensibilità. Si dice che imbestialisce. In realtà, non segue le bestie che hanno regole di comportamento precise. Si pensi al leone o al coccodrillo. Non uccidono per uccidere, ma soltanto per mangiare. Una volta che hanno mangiato, la caccia finisce. Si dirà: però, uccidono. Certo. Tuttavia, rispettano un limite invalicabile. Diversamente da loro, l'uomo elimina limiti e infrange qualsiasi regola. Al punto che l'uomo giunge a uccidere per uccidere.
Bisognerebbe cominciare a riflettere con cura sul fatto che l'uomo precipita sempre più dentro i gorghi infernali della degenerazione della violenza. Ma, purtroppo, citare il diavolo è diventato per troppi uomini il principale dei tabù. Le conseguenze, infernali, spuntano da ogni parte. Sempre più preoccupanti. Ne sa qualcosa Domenico Quirico, cui è capitato di ritrovarsi prigioniero dell'Isis. 


IL MONDO E' ENTRATO NELL'ERA DEL CASTIGO

Domenico Quirico, La Stampa, ottobre 2024

Siamo entrati nell’era del Castigo. Chi non ha qualcuno da punire severamente, e soprattutto definitivamente e senza mezze misure: i palestinesi e i libanesi complici «oggettivamente» degli assassini di Hamas ed Hezbollah, i persiani burattinai in turbante e zimarra nera di ogni perversione anti-occidentale, gli israeliani ultimi zeloti di un colonialismo senza pudore da 75 anni, gli ucraini “nazisti”e traditori della Santa Russia, i russi ammalati antropologicamente di espansionismo criminale e di prevaricazione planetaria eccetera eccetera.

Imperialismi grandi e microscopici ma pestiferi, intolleranze neppur troppo selettive, fanatismi religiosi e sciovinismi nazionalistici sgretolano le vecchie ortodossie delle dispute internazionali, sotto gli assalti sovversivi di Liquidatori decisi a eliminare il problema senza far troppe indagini sulle vittime. “Brain trust” di prepotenti che credono fermamente nel potere inumano della menzogna fanno a gara nel trasformare il momento punitivo in una sorta di idealismo: diamine, lottiamo per la nostra sicurezza… come osate? siamo la Resistenza… giù le mani, difendiamo l’Occidente libero… ammirate! costruiamo il Nuovo ordine perfetto…

Si vede ogni cosa sotto una luce offuscata dove la domanda fondamentale e che dovrebbe essere inaggirabile (qual è la differenza tra punizione e vendetta?), sfuma in opacità omicide. Il populismo penale che ha guadagnato consenso politico con la inesorabile severità del castigo, tambureggiando opinioni pubbliche fragili e disposte a farsi convincere non solo nelle terre della sharia, si estende alla politica internazionale. I pachidermici ottimismi del debutto del nuovo millennio (… la nostra civiltà assomiglia a un giardino che si deve valutare dalla qualità dei suoi fiori… l’Occidente ha reso più bello e vivibile il mondo…) si squagliano come castelli di ghiaccio lasciando dietro di sé solo un ammasso di fango: quarantamila morti a Gaza, centinaia di migliaia nelle trincee dell’Ucraina, i danni collaterali di venti anni americani in Afghanistan, dei francesi nel Sahel, milioni di profughi che aspettano di sapere «fino a nuovo avviso» dove forse non li bombarderanno…

Il castigo presuppone l’infliggere una sofferenza ma richiede anche altre condizioni: quella perentoria è che a patire sia solo colui o coloro che hanno commesso il reato. Se manca questo elemento, se il colpevole è collettivo o semplicemente presunto, scivoliamo inesorabilmente dal diritto alla vendetta. Applicare questo concetto a Gaza o alla Palestina determina dei produttivi e dolorosi distinguo. Per capirci: il conte di Montecristo punisce coloro che gli hanno distrutto la vita o applica solo una arzigogolata vendetta? Netanyahu e Israele puniscono i killer del 7 ottobre o si vendicano di tutti i palestinesi che vivono a Gaza, e dei libanesi che non per scelta sono conterranei del partito di dio? Ci basta la constatazione che castighi collettivi sono diventati normalità punitiva nel vicino oriente? Hamas liquida i partecipanti a un pacifico raduno musicale o kibuzzin annoverabili tra gli israeliani meno attratti da sogni escatologici di ricostruire il Terzo Tempio. I terroristi da settanta anni scelgono le fermate degli autobus e non le caserme. i governi israeliani, non solo quello di Netanyahu, da anni distruggono per rappresaglia le case dei presunti colpevoli, fanno raid indiscriminati a cui danno nomi beffardi («Margine di protezione») che provocano la morte anche di molte donne e bambini. Di fronte a tutto questo sarebbe pretendere troppo citare san Tommaso d’Aquino. Per lui la distinzione tra punizione e vendetta era contenuta nell’intenzione di chi corregge la colpa. Se il male del colpevole serve a trarne «godimento», singolare parola! è illecita; se invece punta a un bene, proteggere la sicurezza o redimere, è lecita.
Con queste idee il povero Doctor Angelicus non sarebbe invitato in nessun talk show, accusato da destra e da manca di essere un collaborazionista.

L’era del Castigo spazza via il vecchio abbecedario della proporzione, dell’immaginare il giorno dopo, perfino i concetti di colpa e di rimorso. Tutti sono orgogliosi di quello che hanno commesso, la giustizia internazionale resta nelle scartoffie di paci provvisorie e sifilitiche. Bisogna castigare senza perder tempo nel distinguere popoli e jihadisti, povera gente e zar rosso bruni, innocenti e mestatori senza scrupoli.
«Tutti sono in fondo complici e quindi colpevoli, credete a noi…» così tempestano innumerevoli macchinisti della locomotiva della Storia a est e a ovest. Non a caso si preferiscono, per punire, i bombardamenti, aerei, droni, missili: le vittime son coperte da nubi di polvere, periscono in scenografiche e anonime esplosioni da notte dei fuochi.
Si mettono in conto punitivo anche carestie ed epidemie, altra modalità di castigo che lasciano sullo sfondo l’orma dell’assassino.
Già: una volta che le teste son tagliate non ci si lamenterà per la perdita dei capelli, parola di Koba il terribile, uno che non aveva paura del numero delle vittime collaterali. Non si ha tempo oggi per ciarle intorno alla santità della vita umana. In fondo una totale sicurezza si può raggiungere soltanto in un cimitero.
Ma la Giustizia?

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

LETTERA APERTA AI CATTOLICI DEL MEDIO ORIENTE

Il 7 ottobre di un anno fa l’organizzazione terroristica di Hamas trucidava vigliaccamente oltre 1200 civili ebrei dando inizio ad una guerra tra Israele e quei Paesi mediorientali che, più o meo apertamente, sostengono il terrorismo palestinese, una guerra che ha avuto conseguenze drammatiche per i civili palestinesi che abitano la Striscia di Gaza, una guerra che sta coinvolgendo tutto il Medio Oriente (Libano, Siria, Iran) e che si aggiunge alla guerra tra Ucraina e Russia e alle tante guerriglie che già in corso.
Su proposta del Card. Pizzaballa Patriarca della Chiesa di Gerusalemme, in  memoria di quella data, la Chiesa cattolica ha chiamato i cattolici ad un giorno di digiuno e preghiera e Papa Francesco ha scritto una ‘lettera aperta’ a tutti i Cattolici del Medio Oriente.


Lettera aperta ai cattolici del Medio Oriente

di Papa Francesco

Cari fratelli e sorelle,
penso a voi e prego per voi. Desidero raggiungervi in questo giorno triste. Un anno fa è divampata la miccia dell’odio; non si è spenta, ma è deflagrata in una spirale di violenza, nella vergognosa incapacità della comunità internazionale e dei Paesi più potenti di far tacere le armi e di mettere fine alla tragedia della guerra. Il sangue scorre, come le lacrime; la rabbia aumenta, insieme alla voglia di vendetta, mentre pare che a pochi interessi ciò che più serve e che la gente vuole: dialogo, pace. Non mi stanco di ripetere che la guerra è una sconfitta, che le armi non costruiscono il futuro ma lo distruggono, che la violenza non porta mai pace. La storia lo dimostra, eppure anni e anni di conflitti sembrano non aver insegnato nulla.

E voi, fratelli e sorelle in Cristo che dimorate nei Luoghi di cui più parlano le Scritture, siete un piccolo gregge inerme, assetato di pace. Grazie per quello che siete, grazie perché volete rimanere nelle vostre terre, grazie perché sapete pregare e amare nonostante tutto. Siete un seme amato da Dio. E come un seme, apparentemente soffocato dalla terra che lo ricopre, sa sempre trovare la strada verso l’alto, verso la luce, per portare frutto e dare vita, così voi non vi lasciate inghiottire dall’oscurità che vi circonda ma, piantati nelle vostre sacre terre, diventate germogli di speranza, perché la luce della fede vi porta a testimoniare l’amore mentre si parla d’odio, l’incontro mentre dilaga lo scontro, l’unità mentre tutto volge alla contrapposizione.

Con cuore di padre mi rivolgo a voi, popolo santo di Dio; a voi, figli delle vostre antiche Chiese, oggi “martiriali”; a voi, semi di pace nell’inverno della guerra; a voi che credete in Gesù «mite e umile di cuore» (Mt 11,29) e in Lui diventate testimoni della forza di una pace non armata.

Gli uomini oggi non sanno trovare la pace e noi cristiani non dobbiamo stancarci di chiederla a Dio. Perciò oggi ho invitato tutti a vivere una giornata di preghiera e digiuno. Preghiera e digiuno sono le armi dell’amore che cambiano la storia, le armi che sconfiggono il nostro unico vero nemico: lo spirito del male che fomenta la guerra, perché è «omicida fin da principio», «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44). Per favore, dedichiamo tempo alla preghiera e riscopriamo la potenza salvifica del digiuno!

Ho nel cuore una cosa che voglio dire a voi, fratelli e sorelle, ma anche a tutti gli uomini e le donne di ogni confessione e religione che in Medio Oriente soffrono per la follia della guerra: vi sono vicino, sono con voi.

Sono con voi, abitanti di Gaza, martoriati e allo stremo, che siete ogni giorno nei miei pensieri e nelle mie preghiere.

Sono con voi, forzati a lasciare le vostre case, ad abbandonare la scuola e il lavoro, a vagare in cerca di una meta per scappare dalle bombe.

Sono con voi, madri che versate lacrime guardando i vostri figli morti o feriti, come Maria vedendo Gesù; con voi, piccoli che abitate le grandi terre del Medio Oriente, dove le trame dei potenti vi tolgono il diritto di giocare.

Sono con voi, che avete paura ad alzare lo sguardo in alto, perché dal cielo piove fuoco.

Sono con voi, che non avete voce, perché si parla tanto di piani e strategie, ma poco della situazione concreta di chi patisce la guerra, che i potenti fanno fare agli altri; su di loro, però, incombe l’indagine inflessibile di Dio (cfr Sap 6,8).

Sono con voi, assetati di pace e di giustizia, che non vi arrendete alla logica del male e nel nome di Gesù «amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano» (Mt 5,44).

Grazie a voi, figli della pace, perché consolate il cuore di Dio, ferito dal male dell’uomo. E grazie a quanti, in tutto il mondo, vi aiutano; a loro, che curano in voi Cristo affamato, ammalato, forestiero, abbandonato, povero e bisognoso, chiedo di continuare a farlo con generosità. E grazie, fratelli vescovi e sacerdoti, che portate la consolazione di Dio nelle solitudini umane. Vi prego di guardare al popolo santo che siete chiamati a servire e a lasciarvi toccare il cuore, lasciando, per amore dei vostri fedeli, ogni divisione e ambizione.

Fratelli e sorelle in Gesù, vi benedico e vi abbraccio con affetto, di cuore. La Madonna, Regina della pace, vi custodisca. San Giuseppe, Patrono della Chiesa, vi protegga.

Fraternamente,

FRANCESCO

Roma, San Giovanni in Laterano, 7 ottobre 2024. 

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C'E' UN POPOLO CHE RECLAMA LA PACE

Mettendo insieme le notizie dell’ultima ora non si sa più cosa dire perché  lo scenario appare sempre più drammatico: le immagini scorrono sullo schermo della tv come un film da incubo. Mai come in questo frangente il mondo sembra del tutto impotente e la politica con la “P” maiuscola ha abdicato, non esiste più; il mondo appare ormai in preda alla furia della guerra.

Ed ecco qui l’ultimo bollettino di guerra che riprendiamo dalla cronaca dei quotidiani:

- Il bilancio di ieri è di 51 morti per un missile israeliano che ha colpito in Libano. Ma soprattutto angoscia il conto dei profughi: sono oltre 90mila gli sfollati.  Una dichiarazione del Capo di Stato maggiore Herzi Halevi è sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo. Ha detto: “Prepariamoci a entrare nei villaggi di Hezbollah”. Lo scenario è quello dell’invasione di terra “da Vietnam mediorientale” e i proclami dei miliziani del “partito di Dio” confermano questa prospettiva da incubo.

- Il Palazzo di vetro che ieri ha visto l’intervento di Volodymyr Zelensky, che ha accusato apertamente i russi di voler colpire le centrali nucleari. Da parte sua ieri Vladimir Putin ha presieduto al Cremlino una riunione specifica del Consiglio di Sicurezza russo sulla «deterrenza nucleare». Quasi a sottolineare quello che ha detto il leader, i media russi ieri hanno rilanciato un vecchio filmato con una simulazione di quello che significherebbe un attacco nucleare su Londra. C’è l’ombra di una “guerra totale” nucleare, evocata da Kiev, minacciata da Mosca.

- L’intellettuale e saggista Barbara Spinelli scrive stamattina: “La guerra di Israele in Medio Oriente e tra Nato e Russia in Ucraina, più quella che si prospetta con Pechino su Taiwan e sul Mar cinese meridionale, può sfociare in conflagrazione nucleare. Alla luce di questa possibilità, è dissennato svilire e denunciare la paura che pervade parte delle popolazioni”. 

- Il mondo rischia di bruciare e questa settimana di sessione generale dell’Assemblea Onu rischia di passare alla storia come fra le più drammatiche della storia recente.

- Papa Francesco, che oggi è in visita nel Lussemburgo, ieri è tornato a rivolgere un appello per la pace ai Grandi della Terra. Alla consueta udienza del mercoledì, Bergoglio ha auspicato «che la comunità internazionale faccia ogni sforzo per fermare questa terribile escalation». E poi ha esclamato: “È inaccettabile! ”, esprimendo la sua “vicinanza al popolo libanese, che già troppo ha sofferto nel recente passato”.

Continuiamo ostinatamente a ritenere assurda questa guerra pur se consapevoli di quanto sia complessa la situazione e di quanto siano molteplici le responsabilità, ma proprio qualche settimana fa abbiamo pubblicato un lungo intervento del filosofo M. Cacciari che esprimeva con lucida chiarezza un pensiero che ci pare del tutto pertinente; di quello scritto che potete trovare in Archivio (LA GUERRA MONDIALE A PEZZETTI: DOVE STIAMO ANDANDO?) ne riprendiamo una breve parte:
“ […] Credo però che da nessuna parte vi siano Napoleoni (né Hitler) redivivi. E tantomeno ‘scontri di civiltà’ tali da rendere necessaria la guerra, come fu in determinate epoche tra Islam e potenze europee o tra alcune di queste e Impero ottomano o ancora tra Russia e Tartari. Una cosa è la propaganda e l’ intellighentsia di complemento che strombetta in ogni conflitto, altra cosa, augurabilmente, l’azione politica delle leadership imperiali. Esse non possono non sapere che per incontestabili ragioni demografiche, economiche, sociali interne, nessuna di esse è nelle condizioni di rivendicare un primato globale.
Le guerre in atto non sono perciò necessarie; hanno cause determinate precisamente, non mettono a rischio “spazi imperiali”. Perciò è criminale non compiere ogni sforzo politico-diplomatico per farle cessare. Esse derivano da evidenti errori di valutazione, assenza di realismo, ignoranza dell’avversario, e soprattutto dal modo sciagurato in cui si è conclusa la “guerra fredda”, senza un autentico Trattato di pace che stabilisse i nuovi equilibri di potenza in base agli indiscutibili diritti del vincitore. Ciò ha creato infondate illusioni da una parte e nazionalismo revanscista, Illusionspolitik, dall’altra. Ma come non capire che qui ci troviamo di fronte al tragico lascito di un passato che l’Occidente tutto, orientale, atlantico, franco-carolingio e mediterraneo, non è riuscito appunto a risolvere, e comunque a un conflitto che non ha più in alcun modo i tratti di quel confronto globale che aveva caratterizzato il secondo dopoguerra?".


Queste guerre si stanno coagulando in un'unica guerra mondiale e nucleare che non era necessaria se solo l’insipienza politica e l'ideologia bellicista attuale non l'avesse cavalcata e riabilitata.


Hanno riabilitato la guerra, ma c’è un popolo che reclama la pace

Andrea Riccardi, intervistato da Giacomo Gambassi, Avvenire, 22 settembre 2024

«Oggi la guerra ha riacquisito una dignità che finora non aveva».
Andrea Riccardi la chiama «riabilitazione della guerra». E la imputa a un «cambio di mentalità» che ha fra le sue cause anche l’amnesia del passato. Lo racconta anzitutto da storico.
«Sono scomparsi i testimoni degli orrori dei grandi conflitti mondiali: da quanti hanno vissuto la Shoah alle donne e agli uomini, siano essi gente comune o con responsabilità istituzionali, che avevano sperimentato sulla propria pelle la guerra e ne conoscevano il male e la durezza», spiega l’ex ministro. Si respira un clima bellicistico che contagia anche l’Europa.
«Sicuramente lo constatiamo nei suoi vertici e ciò dimostra l’incapacità di avere visioni politiche che si traduce in fragilità e subalternità», aggiunge il fondatore della Comunità di Sant’Egidio.
C’è amarezza nelle parole di Riccardi. E preoccupazione. Ma non rassegnazione. Perché, avverte, «esiste un popolo della pace che non è soltanto quello delle manifestazioni, ma è il popolo di ogni giorno. Siamo noi. Gente che dice “no” alla guerra e che prega per la concordia della famiglia umana».

Un popolo che Sant’Egidio torna a radunare anche quest’anno. Stavolta a Parigi. Sempre nello spirito di Assisi, ossia alla scuola di Giovanni Paolo II che nel 1986 aveva chiamato nella città di san Francesco i capi religiosi e li aveva “uniti” in un’invocazione al mondo diventata grido di pace. “Immaginare la pace” è il tema dell’incontro internazionale promosso con l’arcidiocesi di Parigi che si apre domenica pomeriggio nella capitale francese e che si conclude martedì davanti al cantiere di Notre-Dame: quasi un’anticipazione dell’8 dicembre quando è in programma la riapertura della Cattedrale che sta rinascendo dalle ceneri dell’incendio del 2019. Le tre giornate targate Sant’Egidio metteranno a confronto esponenti religiosi e i rappresentanti del mondo della cultura e della politica (interviene anche il presidente Emmanuel Macron), ma avranno al centro anche i racconti di chi arriva dai Paesi in guerra.

Preghiera, poveri e riconciliazione sono i fondamenti della Comunità voluta nel 1968 da un giovane romano di 18 anni che da allora si spende per la pace. Pace che Riccardi ha contribuito anche a scrivere: in Mozambico, con le trattative che avevano portato agli accordi del 1992.
«Il dialogo non è una tela di Penelope che si tesse il giorno e si disfa di notte per tenere impegnato l’avversario – afferma l’ex docente di storia contemporanea alla Sapienza –. Il dialogo diplomatico fa vivere il mondo perché offre soluzioni alle controversie. Ecco perché va fatta riecheggiare un’espressione di papa Francesco durante la sua visita a Santa Maria in Trastevere: “Il mondo soffoca per mancanza di dialogo”».

Professore, la pace è uscita dall’orizzonte contemporaneo e quindi occorre immaginarla per non scivolare nell’accettazione remissiva della logica delle armi?
Siamo in un tempo segnato dalle guerre aperte che si vanno eternizzando, ossia non finiscono, come attesta ciò che sta accadendo in Ucraina o in Terra Santa; dalla minaccia di un conflitto globale; da una cultura pubblica che ha espulso ogni riferimento al tema della pace. Ormai si parla solo di armamenti e di attacchi. È un gravissimo problema che dice come la nostra sia una cultura pietrificata in cui l’immaginazione si è spenta. Invece è urgente tornare a sognare la pace e a pensarla.

Partendo dal cuore dell’Europa come avverrà da oggi a Parigi.
L’incontro francese arriva in un frangente molto difficile anche dal punto di vista religioso. È difficile per le divisioni nel mondo ortodosso legate alla guerra fra Ucraina e Russia. È difficile per le tensioni ebraico-islamiche con l’islam che in larghissima parte sostiene la causa palestinese. È difficile perché talvolta i leader religiosi non si sottraggono al fascino di identificarsi con una nazione in guerra.

Come evitare che le fedi vengano usate per fomentare o legittimare gli scontri?
Le religioni possono essere benzina sul fuoco della guerra oppure acqua che contribuisce a spegnerla. Nella storia non hanno mai avuto un ruolo univoco. Eppure, al fondo di ogni tradizione religiosa, c’è un messaggio di pace. E quando gli uomini di fede si incontrano, questo afflato riemerge. È ciò che aveva compreso Giovanni Paolo II nel 1986: uno accanto all’altro per pregare e chiedere la pace; non più uno contro l’altro. Da allora il cammino che Sant’Egidio ha percorso tenendo vivo lo spirito di Assisi mostra che i mondi religiosi possono avvicinarsi ed essere piattaforma di dialogo. Del resto, ogni religione ha il dialogo nel suo Dna perché, come ricordava Paolo VI nell’Ecclesiam suam, la preghiera stessa è dialogo. Tutto questo rappresenta anche una risposta alle paure del mondo globale a cui noi reagiamo alzando barricate o ritenendo che i muri ci proteggano.

Eppure, se guardiamo alle guerre in Ucraina e in Medio Oriente, chi chiede la pace viene accusato di essere putiniano o antisraeliano.
La nostra intelligenza, come la nostra fede, cerca risposte di pace anche quando non si scorgono prospettive. Si tratta di una ricchezza, non di un pericolo. Però tali posizioni vengono spesso irrise. È un grave errore. Tuttavia la storia ci dice che le cose cambiano. Chi parlava di pace per l’Iraq o l’Afghanistan è stato prima scomunicato e poi ha visto gli altri convergere sulla sua visione. Comunque credo che occorra far presto. Vale per la tragedia che si consuma in Ucraina; vale per la drammatica situazione a Gaza; vale per gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas. Non è più ammesso tergiversare.

Nel 2004 lei intitolava un suo libro “La pace preventiva”. Venti anni dopo, sono ancora teorizzati e impiegati gli attacchi preventivi.
Reputo che sia necessario preparare la pace per evitare la guerra, mentre oggi gli Stati pensano di risolvere i problemi con le armi. E la corsa agli armamenti che si fa più frenetica in questi ultimi anni ne è la conseguenza. Anzi, il riarmo è un incentivo a fare la guerra.

A Parigi si parlerà anche dei conflitti dimenticati. Cominciando dall’Africa.
Il quadro è tremendo. Cito il Sudan dove si combatte una guerra senza fine con milioni di immigrati e rifugiati. O il Sahel in cui i giovani vengono attratti dal jihadismo. O ancora il Nord del Mozambico dove il fondamentalismo semina morte.

Papa Francesco continua a ripetere che la terza guerra mondiale non è inevitabile. Ma viene etichettato come un idealista.
Sulla pace Francesco è considerato un sognatore o un ingenuo. Ma la sua azione è coerente con quella di tutti i Papi del Novecento che sono stati capaci di interpretare il bene comune mondiale ben al di là del contingente.

L’equivicinanza di Francesco ai popoli che soffrono è giudicata equidistanza.
Anche durante le guerre mondiali si era riproposta la stessa questione. La posizione del Papa è una posizione originale dentro la storia. Ad esempio, Francesco è sicuramente vicino all’Ucraina ma parla con la Russia: il che non ne fa un filorusso.

E il Pontefice ha voluto anche la missione di pace affidata al cardinale Matteo Zuppi per il conflitto in Ucraina.
Si tratta di una missione che non è stata capita del tutto. Perché qualcuno l’ha ridotta a una “bacchetta magica” o a un duplicato dei canali diplomatici vaticani. Invece Zuppi ha portato in Ucraina, in Russia, negli Stati Uniti e in Cina – e sottolineo questi quattro Paesi – la sensibilità del Papa per una soluzione pacifica e umanitaria della guerra. Significativamente il presidente della Cei ha incontrato Biden e i rappresentanti della Repubblica popolare cinese. La missione ha disegnato un quadro. Ed è simile a quelle promosse dai Papi nel recente passato: penso a Giovanni Paolo II che aveva inviato il cardinale Roger Etchegaray da Saddam Hussein e il cardinale Pio Laghi da Bush all’epoca della crisi in Iraq.

Come contribuire dal basso alla pace?
Pregando nelle nostre chiese; chiedendo ai governanti una politica di pace; seguendo le evoluzioni delle situazioni; non lasciandoci cullare dalle onde di informazioni senza avere coscienza di quanto succede; aiutando chi è colpito dalla guerra come, ad esempio, fa Sant’Egidio in Ucraina. Non dobbiamo ritenerci impotenti. E serve far sentire la nostra voce per creare un orizzonte di pace che è propedeutico a iniziative in grado di far tacere le armi.

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Le guerre e il senso del perdono.
C'è rimasta solo la preghiera

di Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto

Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei Latini, intervenendo lo scorso 20 agosto al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, ha parlato della drammatica situazione in Terra Santa, segnata dal conflitto scaturito dall’azione terroristica di Hamas lo scorso 7 ottobre, con la morte di oltre 1.200 fra civili e militari israeliani e il rapimento di circa 250 ostaggi, di cui la maggior parte ancora in mano ai rapitori, e la risposta dello Stato ebraico nella striscia di Gaza, che ha prodotto finora decine di migliaia di morti.

Testimoniando al tempo stesso l’amore al popolo in mezzo al quale è pastore e la fede nel Dio unico che unisce le religioni del Libro, con grande realismo il Patriarca ha affermato alla conclusione del Suo intervento: «La guerra finirà - certo - e spero che coi negoziati si arrivi a qualcosa, anche se ho un po’ di dubbi: ma sappiamo tutti che questo negoziato è l’ultimo treno e che se non arriva un cessate il fuoco sarà drammatico, si avrà una degenerazione. Ci è rimasta solo la preghiera».
 Agli occhi di chi non crede nel Dio destinatosi a noi con la Sua rivelazione e fedele nell’amore queste ultime parole possono sembrare una resa alla durezza della realtà, più forte di ogni volontà di pace e di giustizia da raggiungere. Per chi le valuta con fede, esse richiamano invece un duplice orizzonte, cui non rinunciare mai, neanche in un’ora così drammatica della storia. Il primo orizzonte è quello che fa guardare alla vicenda umana nella prospettiva dell’assoluto primato di Dio, cui nulla è impossibile. 

In una stagione non meno difficile della vicenda umana in cui la voce del corifeo del cosiddetto “protestantesimo liberale” Adolf von Harnack invitava alla fiducia incondizionata nel progresso umano e nella pace ad esso conseguente, il giovane teologo Karl Barth non esitò a definire il 4 agosto 1914 come il giorno oscuro (“dies ater”), perché quel giorno von Harnack rese pubblico un documento, firmato da 93 intellettuali, con cui l’“intellighenzia” tedesca appoggiava la politica di guerra del Kaiser. Questo testo suscitò in Barth la presa di coscienza della fine dell’universo liberale, dominato dall’idea del protagonismo assoluto del soggetto umano, celebrato in tutte le sue potenzialità.
Il “no” alle presunzioni ideologiche di poter costruire un mondo migliore con le sole forze umane si traduceva in lui nella forte affermazione della differenza e dell’alterità di Dio, che può e potrà intervenire nella storia a Suo piacimento, anche ribaltando le logiche delle letture umane, solo umane. 

Questa presa di posizione non intendeva certo esprimere un pessimismo irriducibile, quanto piuttosto manifestare la convinzione che la tappa negativa del cammino umano dovrà e potrà essere superata grazie all’azione divina a favore delle creature. Sarà lo stesso Barth a confessarlo in una sorta di rilettura della sua opera, consegnata alla conferenza del 1956 intitolata L’umanità di Dio:
«Ciò che all’incirca quarant’anni or sono cominciava impetuosamente ad imporsi a noi, era più la divinità che l’umanità di Dio: l’insormontabile altezza e la distanza, il totalmente altro con cui l’uomo ha a che fare quando pronuncia il nome di Dio, la maestà del Crocifisso... Il nostro compito oggi è questo: il riconoscimento dell’umanità di Dio, sulla base del riconoscimento della sua divinità e proprio a partire da esso».
Riconoscere l’umanità di Dio vuol dire oggi - in Israele, come a Gaza, in Libano come in Ucraina - restare aperti all’“impossibile possibilità” che l’Eterno può sempre riservarci, e a cui aprono appunto lo sguardo della fede e l’invocazione umile e accogliente della preghiera. 

Un secondo orizzonte cui guardare come fonte di un nuovo e urgente impegno, che deve assumere forma in Terra Santa e in ogni luogo di conflitto, è quello del perdono.
 Ha affermato il Patriarca Pizzaballa:
«La comunità cristiana deve portare dentro il dibattito pubblico la possibilità del perdono. Forse ora non si può fare. Bisogna attendere e lavorare a livello personale, comunitario e pubblico».
E ha aggiunto: «Parlare di perdono in Terra Santa non è un’astrazione. Giustizia, perdono, sono per noi parole importanti, difficili e che toccano concretamente la carne e la vita delle persone».
Se questo può apparire astrazione agli occhi di chi non crede, per la fede cristiana non è così: essa «non può essere separata dall’idea di perdono. La fede è l’incontro con Cristo che ti salva e perdona», e Lui «sulla croce non ha atteso che si facesse giustizia per perdonare. Ha perdonato.
Certo, perdonare senza che ci sia dignità e uguaglianza significa giustificare un male che si sta compiendo. Il perdono chiede dinamiche che vogliono tempo, un processo di guarigione e un tempo di riconoscimento del male e dell’ingiustizia commessa. Il perdono ha bisogno anche di una parola di verità... Non è semplice. Per un palestinese oggi perdonare significa giustificare quello che sta accadendo. Non può farlo. Deve attendere. Ma come pastore - ha concluso Pizzaballa - devo ricordare che la giustizia senza perdono diventa recriminazione. Può diventare vendetta. Lo scopo non è relegare l’altro in un angolo, ma superare questa situazione: e questo lo può fare solo il perdono». Credere nella forza del perdono è proprio di chi nella preghiera ha chiesto e ottenuto perdono da Dio: perciò la preghiera è e resta la grande scuola di umanità, dove imparare tutti ad accoglierci gli uni gli altri, a chiedere e offrire il perdono, a sentirci amati dal Padre di tutti per imparare a riconoscerci uniti dal Suo amore, più grande di ogni nostra misura.
 Anche così, “c’è rimasta solo la preghiera”, perché la fede sa che solo essa ci potrà salvare!

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LA GUERRA MONDIALE A PEZZETTI: DOVE STIAMO ANDANDO?

In queste pagine, giova ricordarlo, riteniamo prioritario interrogare la coscienza credente di fronte al dramma della guerra e quindi lasciare spazio a riflessioni e testimonianze cristiane che, di fronte ai conflitti in corso, offrano testimonianze di Vangelo.
Ma ogni tanto diviene necessario anche buttare uno sguardo alla cronaca e questa, purtroppo, non consente grandi speranze.
Le sorti delle principali guerre in corso saranno decise dal voto americano di novembre. E nel frattempo?
Nel frattempo l’Europa sta alla finestra e aspetta: cosa?
Come scrive Giulio Sapelli, uno dei più competenti analisti in circolazione, l’Europa ormai non si scuote nemmeno di fronte alle ripetute minacce nucleari che giungono dalla Russia.

Quell’Europa che sembra ormai giunta ad un bivio della sua storia, come scrive il filosofo M. Cacciari:
Vi sono momenti in cui la paura è virtù e suscitare orrore per ciò che accade e ancor peggio potrebbe accadere può aiutare a affrontarlo. Abolire la guerra è un astratto fine da anime belle?
Sarà – noi “buoni europei” dovremmo almeno ricordare che questo ‘fine’ ha nutrito le razionali speranze dei nostri spiriti migliori. Ma lasciamo perdere la “filosofia”, come dicono i nostri leader che con encomiabile concretezza ci chiamano alle armi. Se il nostro genere non può fare a meno della guerra, cerchiamo almeno che essa si dia soltanto quando necessaria. E quando è tale, e cioè assolutamente inevitabile, nel sistema-mondo contemporaneo? Soltanto quando uno “spazio imperiale” esplicitamente progetta la soppressione dello “spazio” nemico.
Uno Stato o staterello può venir fagocitato da uno “spazio imperiale” attraverso guerre locali, la lotta tra Imperi assume invece per forza un carattere globale. Ma un Impero che svolga una politica egemonica senza aver misurato le proprie forze si destina al suicidio. È ragionevolmente pensabile che uno dei “grandi spazi” oggi in conflitto possa davvero ritenere di annullare gli altri o ridurne drasticamente l’autonomia? La sua èlite politica sarebbe composta da folli e allora per la sua e nostra nave non vi sarebbe che ‘dulce naufragium’.
Credo però che da nessuna parte vi siano Napoleoni (né Hitler) redivivi. E tantomeno ‘scontri di civiltà’ tali da rendere necessaria la guerra, come fu in determinate epoche tra Islam e potenze europee o tra alcune di queste e Impero ottomano o ancora tra Russia e Tartari. Una cosa è la propaganda e l’ intellighentsia di complemento che strombetta in ogni conflitto, altra cosa, augurabilmente, l’azione politica delle leadership imperiali. Esse non possono non sapere che per incontestabili ragioni demografiche, economiche, sociali interne, nessuna di esse è nelle condizioni di rivendicare un primato globale.
Le guerre in atto non sono perciò necessarie; hanno cause determinate precisamente, non mettono a rischio “spazi imperiali”. Perciò è criminale non compiere ogni sforzo politico-diplomatico per farle cessare. Esse derivano da evidenti errori di valutazione, assenza di realismo, ignoranza dell’avversario, e soprattutto dal modo sciagurato in cui si è conclusa la “guerra fredda”, senza un autentico Trattato di pace che stabilisse i nuovi equilibri di potenza in base agli indiscutibili diritti del vincitore. Ciò ha creato infondate illusioni da una parte e nazionalismo revanscista, Illusionspolitik, dall’altra. Ma come non capire che qui ci troviamo di fronte al tragico lascito di un passato che l’Occidente tutto, orientale, atlantico, franco-carolingio e mediterraneo, non è riuscito appunto a risolvere, e comunque a un conflitto che non ha più in alcun modo i tratti di quel confronto globale che aveva caratterizzato il secondo dopoguerra?
C’è la grande Cina, ora, ci sono i Paesi del Brics – ci sono soprattutto i drammatici e inconfutabili dati economici e demografici. Qualsiasi idea di egemonia di un “grande spazio” sull’altro può portare soltanto all’orrore globale. È perciò necessario trattare, trattare e ancora trattare. L’Europa, gli Stati europei che ancora non comprendono di dover formare un’Unità politica per non cadere nell’assoluta impotenza, sono comunque chiamati a chiudere la loro ennesima “guerra civile”, se non vogliono che dal loro interno, ancora una volta, si scateni l’incendio. Di “guerra civile” si tratta, a tutti gli effetti – come quella nei Balcani trent’anni fa – ma con l’Europa, oggi, che assiste e basta peggio ancora di ieri, e con una drammatica “prossimità” nella guerra tra “spazi imperiali”.
Occorre avere fiducia che gli Stati europei siano coscienti di questa loro storica responsabilità, avvertano l’orrore che dal loro interno esploda per la terza volta la catastrofe globale e approntino un loro concreto piano per la risoluzione del conflitto”
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(M. Cacciari, Il futuro dell’Europa al bivio della Storia)

Cacciari sottolinea come queste guerre in atto non sono perciò necessarie; hanno cause determinate precisamente, non mettono a rischio spazi imperiali. Perciò è criminale non compiere ogni sforzo politico-diplomatico per farle cessare.
Purtroppo, invece, la guerra è necessaria perchè sta alla radice stessa del pensiero e della cultura che ha caratterizzato il XIX e XX secolo dell’Occidente: la guerra è un ‘male necessario’.
Lo ha ampiamento documentato il filosofo M. Borghesi in un suo recente libro che è percorso da un filo rosso che, tra l'altro, rende ragione del motivo per cui la Chiesa oggi appare incompresa e inascoltata sulla scena internazionale.
All’origine di tutto c’è:“[...] un terreno in larga misura inesplorato, quello della giustificazione ‘razionale’ del male operata dalla filosofia del XIX secolo.
[…] Per il nuovo Vangelo che fa capo alla filosofia ottocentesca, il male era necessario, fecondo, generativo. Il ‘patto con il Serpente’ stipulato da una nuova stirpe di titani è il ‘segreto’ dell’eredità romantica, di quella germanica in particolare. Un segreto svelato nelle infinite distese dei morti delle due guerre mondiali, nel disprezzo per le vittime, per i deboli, i senza nome’. Un segreto svelato dai totalitarismi del Novecento: il manicheismo assurto a ‘visione del mondo’ rendeva possibile l’uccisione, quella fredda, senza odio. Filosoficamente è stata la dialettica, quella di Hegel non di Platone, che ha costituito la giustificazione del ‘negativo’ che da due secoli ha ottenebrato la coscienza europea
”.
(M. Borghesi, Il male necessarioL’etica del superuomo nel manicheismo romantico. Dalla recensione di A. Socci: Viviamo l’epoca della giustificazione ‘razionale del male’ e non ce ne rendiamo conto. A cosa ci sta portando?)

La guerra continua, quindi, perché è inscritta nella cultura occidentale, ma continua anche perché conviene:“Non c’è alcun dubbio: la guerra continua. Da Est niente di nuovo. Non è una notizia proprio rassicurante. Zelensky con i suoi contro-droni e in attesa di autorizzazioni più risolutive da Washington ammazza una signora a Mosca, danno collaterale, forse, dopo le affermazioni secondo cui i civili li ammazza deliberatamente solo Putin. Che non pare reso idrofobo dalla sfida portata in casa, parla d’altro. Dispaccio dal Donbass: l’armata russa rosicchia come una termite meticolosa il fronte avversario, le gomitate dell’offensiva metodica hanno buttato giù case e trincee intrise di Storia, dove erano prima non c’è che un’orma, il rombo dell’artiglieria è ormai è alla periferia di Pokrovsk, ennesimo coccio strategico, l’oscurità delle notti se ne colma. La parola d’ordine per i Marescialli ucraini è resistere a ogni costo, altrimenti stramazza tutto il fronte. Passo indietro: a Kursk invece la mischia è quasi ferma, vengono i brividi a legger sui bollettini “situazione stabilizzata”, senza cenni alle migliaia di morti usati per “stabilizzare”.
Si discute: per alcuni è stato un colpo di genio degno di Scipione contro Annibale, per altri la scempiaggine di Attilio Regolo che finì nell’orribile botte con i serpenti. Il Cancelliere forse tentenna. Fumo. Su cui continuano a srotolarsi gomitoli di proposizioni bizantine.
Blinken, il diplomatico del Nulla, ha usignolato ieri che l’Iran ha fornito a Mosca missili balistici, «escalation drammatica» dice, che minaccia la sicurezza europea. Una congiura dei Cattivi. La vecchia pistola fumante sarebbe dunque questa. Si punta a saldare le due guerre, Sarmazia e vicino oriente, un asse del Male da annichilire subito. Ovviamente. Come la definireste: guerra mondiale? Si va dritti allo scopo come un ragionamento di Cartesio, impetuoso come un sillogismo di Pascal. Lucidate i cannoni, spedite le cartoline precetto come ai bei tempi, è il revival dei guerrafondai, dei pescecani della morte di massa, sono loro i non eroi di questo secolo insensato.
Abbiamo bisogno di uomini nuovi e senza odio. Ma dove sono? I duellanti coltivano le solite nefandezze, i giorni correnti sono stampati in rosso scarlatto, si scavano senza sosta reliquari di opposto segno. Come se spegnendo le vite si spegnesse anche la Ragione. Si insiste a credere che il mondo va sovvertito con le ricette che hanno sempre bruciato tutto. Il vassallaggio a questa fissità dogmatica assembla protagonisti e comparse, figure di contorno e distributori delle buone carte.
[…] Sembra incredibile, ogni giorno si fa la cronaca della guerra, si colmano i buchi nel racconto, e sono enormi, con zolle di parole, con ammassi di polemiche e sofismi, con le bugie. Nessuno che insorge contro la sconcezza di un dramma con viti e incastri insensati. Gli spiriti sono appannati. Come se le persone avessero davanti all’animo – da quasi tre anni! – un vetro e si scoprisse che l’appannatura è dalla parte interna della lastra, quella che non si riuscirà a ripulire salvo entrare nella gente e cambiarla dentro. Pare che Stalin una volta abbia detto «una morte è una tragedia, un milione di morti una statistica». Siamo già a quel punto, forse oltre? Nella steppa l’estate non può resistere, comincia a corrompersi, fremiti, gocce di autunno e inverno. E di colpo tutto cambierà. La guerra diventerà pigra. I progetti di avanzate e di blitzkrieg attenderanno malinconici nelle insenature degli uffici di stato maggiore. E allora? Si continua, si eternizza.
Di che cosa mai si tratta? Perché non si riesce a interrompere il massacro? Semplice: il blaterare di tutti attorno alla pace è una impostura, le pretese di battersi per la giustizia, la libertà, l’ordine internazionale, insomma tutti i pomposi monumenti eretti a loro utile e gloria dagli impresari di metafisica sono soltanto castelli in aria e cattedrali di carta.
La guerra continua perché rende. A Putin a Zelensky a Biden e a chi verrà dopo di lui, a Pechino e agli Ayatollah, ai fabbricanti di morte tayloristica che chiudono gli stabilimenti delle automobili e raddoppiano quelli dei carri armati. A chi li finanzia. Ogni tanto spunta qualche documento che parla chiaro: l’industria bellica europea ha un fatturato di 130 miliardi. Poco. Spiccioli. Si può fare molto di più. Nessuno dubita che si farà. Siamo in guerra e facciamo finta di non esserci. Tiriamo avanti sulla normalità fin che va, facciamoci l’abitudine, spensieriamoci, vedrai che scaricheremo il peggio sul gobbo di Russia e Ucraina, chi è di antico pelo sa: basta saper aspettare che passa”.

(D. QuiricoLa guerra continua perché conviene mentre noi fingiamo di non vedere)

Quello che certo rimane è il pianto delle madri per il dolore di tutti i figli perduti:“Procedi nel tuo viaggio che spero sia bello quanto quelli di cui sognavi perché, mio dolce ragazzo, sei finalmente libero.
Sono le parole di Rachel Goldberg-Polin, la madre di Hersh rapito dal Hamas il 7 ottobre 2023 e assassinato in un tunnel a Gaza qualche giorno fa, forse poco prima del tentativo di liberarlo. Scossi e vicini al cuore di una donna distrutta, che trova la forza di parole che solo una madre può dire per salutare il proprio figlio, ci chiediamo: come essere finalmente liberi?
 Liberi dalla violenza che uccide senza guardare il volto di chi ti è stato imposto come nemico. Violenza che già in molte altre guerre precedenti si è rivelata inutile, capace sollo di riprodurre sé stessa. Liberi dall’odio che sfigura interi popoli rendendoli inavvicinabili e spaventosi agli altri. Liberi dai calcoli di politici cinici che non danno più valore alla vita umana, nemmeno a quella dei propri concittadini, ossequiando l’antico messaggio demoniaco secondo il quale la propria ragione può richiedere sacrifici umani.
 Liberi da una storia pesante e da una memoria che schiaccia condannando a ripetere per sempre gli errori del passato, come se fosse possibile ottenerne un risultato diverso. Liberi come bambini che crescono senza imparare l’odio mortale che gli adulti già insegnano loro in tenera età.
 Libere come madri che accompagnano i propri figli verso la vita invece di vederli costretti a imbracciare le armi –in primis l’arma dell’odio – per combattere un nemico considerato eterno. Liberi come figli che sognano il mondo oltre i muri, le separazioni, le bombe e l’abominio della distruzione totale della natura. Liberi dalla morte che schiaccia ogni vita rendendo quelle terre – la Terra Santa! – aride, senza futuro e senza discendenti.
[…]  Tra le grida dei politici, e dei falsi alleati, debole si sente il lamento delle madri che piangono i loro figli e non vogliono –non possono- essere consolate, come Rachel Goldberg-Polin, come Rachele della Bibbia.
[…] Senza timore di passare per populisti, dobbiamo affermare che oggi la politica appare totalmente inadeguata a rispondere al pianto delle madri. Né a Gaza o in Ucraina né altrove dove si combatte, come nel dimenticato Sudan, si leva la voce dei responsabili per chiedere pace e fare ogni sforzo per negoziare e asciugare le lacrime. Soltanto si odono grida di guerra, con governanti e dirigenti che si sentono in obbligo di spronare alle armi.
Anzi: c’è anche chi si sente investito da un dovere quasi etico: se non lo faccio io, chi lo farebbe? Come se sollecitare all’odio e alle armi fosse l’unica via da seguire. La guerra pare ormai accettata come risposta normale ad ogni contesa; la rappresaglia senza limiti come reazione morale; l’odio come una forma di vita accettabile e addirittura ragionevole
”.
(M. Giro, Le madri piangono i figli uccisi in guerra, la politica cinica le ignora)

Niente di nuovo sotto il sole direbbe il buon Qoelet:
“Una voce si ode a Rama, un lamento e un pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, e non vuole essere consolata per i suoi figli, perché non sono più” (Ger. 31, 15).

Come ha detto papa Francesco:
"Rachele racchiude in sé il dolore di tutte le madri del mondo, di ogni tempo, e le lacrime di ogni essere umano che piange perdite irreparabili”.

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Il REALISMO E LA FEDE DEL CARD. PIZZABALLA SUL CONFLITTO A GAZA

Mons. Pierbattista Pizzaballa, prima capo della Custodia francescana e poi patriarca di Gerusalemme e Cardinale, è stato invitato a parlare al Meeting di Rimini.
L’Intervista completa pubblicata è ad opera del giornalista Rodolfo Casadei.

Qui ne riportiamo una sintesi che tocca i temi essenziali del colloquio.


Le parole di Pizzaballa al Meeting di Rimini

Che risposta dare a chi chiede ai credenti ragione della sofferenza dei bambini, vittime o orfani a causa della guerra.

«Non c’è risposta», è risoluto il Cardinale.
«A volte abbiamo ridotto la fede a panacea che risolve ogni male. Ebbene, anche nella fede cristiana c’è un momento di tragicità. Certo, prima di chiedere conto a Dio della sofferenza dei bambini dobbiamo chiederlo agli uomini: è per la loro malvagità che i bambini muoiono. Ma poi possiamo rivolgere la domanda a Dio, a patto che insieme poniamo gesti di amore che rispondano a quel male. La fede non è la riposta a tutte le domande. La fede è la relazione dentro alla quale tutte le domande hanno spazio
».

Cristiani politicamente inincidenti, siamo chiamati alla parresia
La concretezza, il realismo e il senso pratico come modalità operative di una fede genuina sono l’origine delle risposte disarmanti che Pizzaballa dà alle domande tipiche sul ruolo mediatore dei cristiani nel conflitto.


«Nessuno di coloro che vivono e si scontrano sul posto è in attesa che la Chiesa risolva i problemi del conflitto. Politicamente siamo inincidenti. Si tratta di stare lì senza la pretesa di riuscire incidenti, ma per dire la nostra parola ed essere presenti. La domanda che lì da noi viene posta più spesso è: “dove eri tu quando…?”. Dobbiamo poter rispondere: “ero qui, ero lì”. Siamo chiamati alla parresia, al parlar chiaro, ma senza diventare anche noi parte dello scontro».

Stesso suono di campana per la domanda sul ruolo delle religioni presenti e dei loro leader:


«Dopo il 7 ottobre il dialogo interreligioso è in crisi, non ci incontriamo più pubblicamente o ufficialmente, facciamo fatica anche a incontrarci ufficiosamente. In questi anni sono state fatte tante ottime cose, il documento di Abu Dhabi sulla fratellanza è bellissimo ma, se posso permettermi, dopo il 7 ottobre e dopo Gaza il dialogo interreligioso dovrà essere meno di élite e più delle realtà del territorio. I leader delle religioni dovrebbero aiutare le proprie comunità a non ripiegarsi su stesse e sulla loro esclusiva narrazione, ma a riconoscere l’altro da sé. Come diceva un rabbino, “nessuna religione è un’isola”: Ecco, oggi siamo tornati a essere isole».

Non è ancora il momento di parlare di perdono
Più articolata, delicata e complessa è la risposta alla domanda trabocchetto su perdono e giustizia: il cristianesimo è imperniato sul perdono, ma come si può perdonare quando l’ingiustizia permane? Qui Pizzaballa ha risposto articolando livelli e momenti:


«Al livello della persona e del suo rapporto con Dio, perdono e giustizia sono praticamente sinonimi. Pensiamo al perdono di Gesù sulla croce ai suoi carnefici, ai martiri di tante epoche che hanno perdonato i loro stessi assassini. Ma le persone fanno parte di comunità, e al livello comunitario la questione diventa più complicata: ci sono di mezzo i valori della dignità e dell’uguaglianza di una comunità rispetto alle altre, e allora perdonare senza che l’aspetto comunitario venga messo a tema non è possibile».

«A questo riguardo», ha continuato il patriarca, «ci vogliono tempo, un processo di guarigione, il riconoscimento del male commesso e non solo di quello altrui, la verità. E tutto questo deve avvenire al livello delle comunità, come abbiamo visto fare in Sudafrica con la Commissione per la Verità e la riconciliazione dopo la fine dell’apartheid. Il singolo si trova in una posizione insostenibile: se oggi un palestinese pratica il perdono personale nell’immediato, appare come uno che giustifica la continuazione della guerra; se non perdona, si ripiega nella recriminazione e nello spirito di vendetta. La comunità cristiana deve portare il tema del perdono nel dibattito sociale, ma non ora. Però quando verrà il momento, a guerra finita, dovremo farlo, perché è l’unica via per superare l’impasse».

I cristiani in Terra Santa come i discepoli nel Getsemani
È a tal fine che il patriarca ha evocato la necessità della purificazione della memoria:


«Purificare la memoria significa riconoscere che anche noi abbiamo sbagliato, e che se vogliamo sviluppare le nostre relazioni con l’altro, dobbiamo riconoscere quegli errori, che non cancellano tutto il resto di buono che fa parte della nostra storia ed identità. È quello che la Chiesa cattolica ha fatto con gli ebrei». Per quanto riguarda l’oggi in Terra Santa, «se restiamo ciascuno dentro alle nostre narrative escludenti, non usciremo mai dalla contrapposizione. Dobbiamo rileggere la storia per vivere meglio l’oggi».

La Chiesa è particolarmente sensibile a questi temi perché i suoi non numerosi fedeli (l’insieme delle Chiese cristiane totalizza il 3 per cento di tutti coloro che vivono in Israele e nei Territori palestinesi) si trovano non per loro volontà nelle trincee opposte:


«Ci sono cristiani a Gaza sotto le bombe israeliane, e ci sono cristiani che fanno il servizio militare nell’esercito israeliano in questo momento. Sono in gioco nello stesso tempo l’appartenenza alla tua comunità umana, al tuo popolo, e l’appartenenza a Cristo che dovrebbe darti uno sguardo diverso, più vasto, ma non è automatico! I cristiani in Terra Santa oggi sono come i discepoli presso Cristo nel Getsemani: c’erano quelli che dormivano (oggi parlerei di un devozionismo sofisticato), quelli che fuggivano, cioè quelli che vedevano cosa succedeva ma non volevano farci i conti (accade anche qua oggi) e quelli che mettono mano alla spada, cioè che vogliono partecipare alla lotta, fare politica attiva. La scelta di Gesù è stata quella di consegnarsi. Anche per noi oggi si tratta di dare la vita, di mettere la nostra vita nelle mani di Dio. Alla mia comunità dico sempre che noi non abbiamo tutte le risposte per la situazione che stiamo vivendo, ma abbiamo l’indirizzo a cui spedire le domande: Dio. Rivolgiamo le nostre domande a Lui, Lui che dà senso a tutto».

Il giudizio di Pizzaballa sul 7 ottobre e la guerra di Gaza
Tutto questo però sarebbe un cercare di aggiustare con le parole qualcosa che si è rotto in forza di brutali fatti se non fosse accompagnato da un giudizio lucido e spietato su quello che è accaduto e che sta accadendo:


L’impatto che il 7 ottobre e la guerra di Gaza hanno avuto sulla gente del posto è unico. Per gli ebrei il 7 ottobre è un punto di non ritorno, perché lo stato di Israele è nato come oasi sicura per gli ebrei sopravvissuti all’Olocausto; per i palestinesi ugualmente quello che succede a Gaza è senza precedenti, perché non si erano mai contate tante vittime palestinesi in decine di anni di crisi sanguinose. Pertanto i sentimenti di odio, vendetta, sfiducia verso l’altro sono al culmine».

«L’incapacità di riconoscere l’esistenza l’uno dell’altro non è mai stata così radicale», ha spiegato Pizzaballa. «Viene in mente l’Isaia della caduta di Babilonia: “Io, e nessun altro all’infuori di me” (Is 47,8). Il linguaggio del rifiuto reciproco è diventato un fatto quotidiano. La guerra finirà, in un modo o nell’altro, ma dissipare la sfiducia verso l’altro e il disprezzo profondo sarà faticosissimo».

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

LA BOMBA ATOMICA.
IL “GRANDE SOLE” DI HIROSHIMA E NAGASAKI

Tra le tante ricorrenze che ormai scandiscono il nostro calendario tra doverosa memoria e ideologica retorica, (la giornata della Shoà e delle Foibe, dei femminicidi e dei migranti ma non mancano le giornate delle foca monaca e dei Panda a rischio estinzione, nonchè le doverose giornate dell’acqua, della terra e dell’aria) puntualmente non compare mai la memoria del drammatico evento accaduto agli inizi di agosto.
Il 6 e il 9 agosto del 1945 due città giapponesi, Hiroshima e Nagasaki, subirono il più devastante attacco nucleare della storia, con lo sganciamento di ordigni atomici da bombardieri statunitensi allo scopo di portare alla resa il Giappone nella seconda guerra mondiale. Quelle bombe avevano anche un nome: Little boy a Hiroshima e Fat man a Nagasaki, segno dell’orribile sarcasmo della guerra. Il numero dei morti avvenuti sul momento e di quelli che perirono successivamente, per le conseguenze delle radiazioni nucleari, resta incalcolabile. Si parla di 150 mila vittime a Hiroshima e 80 mila a Nagasaki. Ma è una contabilità approssimativa.
E’ singolare questa mancanza di memoria soprattutto se si considera che:
“….sono le sole città al mondo ad aver subito la tragica sorte della morte nucleare, diventate un memoriale di come l’uomo sia capace di una distruzione incredibile. I loro nomi mettono in guardia le generazioni presenti e future su come la guerra possa rendere impossibile la vita sulla terra per moltissimo tempo. Nel mondo i nomi di molti – troppi – luoghi vengono ricordati perché testimoniano l’orrore e la sofferenza prodotti dalla guerra: i monumenti ai caduti, i sacrari in cui riposano coloro si sono sacrificati al servizio del proprio Paese o di una nobile causa, i cimiteri in cui giacciono le vittime civili innocenti della furia distruttrice, i resti dei campi di concentramento e sterminio in cui il disprezzo per l’uomo e per i suoi diritti inviolabili ha raggiunto la sua espressione più indegna e crudele, i campi di battaglia. Hiroshima e Nagasaki si differenziano da tutti come le prime vittime della guerra atomica”.
(M. Impagliazzo, La Stampa)

Nell’aprile scorso, in occasione dell’Oscar cinematografico assegnato al film ‘Oppenheimer’, pellicola che narra le vicende dello scienziato che creò la bomba atomica, avevamo citato il giornalista A. Banfi:
Adesso che Oppenheimer ha dominato gli Oscar, sappiamo che questo 2024 è davvero l’anno dello sdoganamento della bomba atomica. Nello stesso periodo in cui i potenti della terra, a cominciare da Vladimir Putin per arrivare a Emmanuel Macron e fino al presidente americano Joe Biden, hanno usato l’espressione, infrangendo il tabù. Nei mesi in cui hanno minacciato e insieme temuto l’uso della bomba nucleare, ecco la celebrazione dell’americano che ne organizzò la prima costruzione e il primo lancio. Un caso, si dirà. Congiunzione astrale, coincidenza ma anche, come sempre per Hollywood, un po’ spirito dei tempi, ritratto del pensiero dominante, specchio delle pulsioni contemporanee.
Il cinema ha sempre fatto politica. Le pellicole sul Vietnam negli anni Settanta contribuirono alla coscienza pacifista e al ritiro americano
.

Il film trova spunto da un libro che fa riferimento al “Il Prometeo americano” il semidio greco che rubò il fuoco agli dei dell’Olimpo.
Nella tragedia greca Prometeo venne punito ma il suo coraggio fece fare un grande salto di civiltà agli uomini del suo tempo.
Possiamo forse dire lo stesso della bomba atomica? Fece comunque fare un salto all’umanità quel fuoco atomico?

Domande fondamentali che mettono a nudo le ambiguità non solo delle attuali politiche mondiali ma il volto nascosto della cultura europea e della Modernità.
A sostenere questa tesi è il prof. M. Borghesi nel suo libro “Il male necessario” (edizioni Orthotes) in cui sostiene:
“….sono più di due secoli che la cultura europea accarezza il male, lo blandisce, lo giustifica. Il negativo comunica vertigine, delirio di onnipotenza, emozioni inconfessabili; illumina di bagliori rossastri i sentieri proibiti, gli abissi della notte, le vette ghiacciate. Colora di sé il peculiare titanismo moderno, il mito di Prometeo che, dal Romanticismo in avanti, attraversa la cultura europea. Il volume mette a fuoco il modello etico che sta alla base dell’idea di superuomo: quello che sorge dalla mescolanza di luce e tenebre, bene e male, Dio e il diavolo. Il manicheismo nuovo non teme il negativo. Memore del patto di Faust lo utilizza come impulso per arricchire la vita, la potenza, il progresso. Sarà Hegel, con la sua dialettica, a consacrare il patto con il Serpente, a siglare l’idea, destinata ad avere grande fortuna, per cui il bene può sorgere solo “attraverso” la mediazione del male. Il male – ed è la prima volta che ciò accade – diviene ora necessario”.

Il Prometeo americano quindi diventa simbolo di un ‘male necessario’ senza il quale non vi sarebbe quel progresso che è sinonimo stesso delle ‘magnifiche sorti e progressive’ della modernità.
Il fuoco della bomba è un fuoco malvagio che distrugge per generazioni. È discutibile che rappresenti un progresso. Ma l’accostamento con Prometeo implica la positività assoluta della scoperta: quasi un tassello necessario dell’evoluzione umana.

Vi è insomma un ipocrito silenzio attorno a questo male necessario, un male che invece richiederebbe un ben più corposo supplemento di riflessione.
Ci si preoccupa dell’Intelligenza Artificiale e delle sue possibili conseguenze sull’essere umano ma Hiroshima e Nagasaki sono lì a rammentarci di cosa l’uomo è capace.

Su questo argomento un interessante contributo lo offre un filosofo del nostro tempo, Gunter Anders, nello scritto qui pubblicato.


LA BOMBA ATOMICA SU HIROSHIMA
la nuova era atomica ha inizio.

Gunter Anders, filosofo e saggista

1) Il 6 agosto 1945, giorno in cui fu sganciata la prima bomba atomica su Hiroshima, è cominciata una nuova era: l'era in cui possiamo trasformare in qualunque momento la terra intera in un'altra Hiroshima. Da quel giorno siamo onnipotenti in modo negativo; ma potendo essere distrutti ad ogni momento, ciò significa anche che da quel giorno siamo totalmente impotenti. Quest'epoca è l'ultima: la possibilità dell'autodistruzione del genere umano, non può aver fine che con la sua stessa fine.

2) La tesi apparentemente plausibile che nell'attuale situazione politica ci sarebbero (fra l'altro) anche "armi atomiche", è un inganno. Poiché la situazione attuale è determinata esclusivamente dall'esistenza di "armi atomiche", è vero il contrario: che le cosiddette azioni politiche hanno luogo entro la situazione atomica.

3) Ciò contro cui lottiamo, non è questo o quell'avversario che potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi atomici, ma la situazione atomica in sé.
Poiché questo nemico è nemico di tutti gli uomini, quelli che si sono considerati finora come nemici dovrebbero allearsi contro la minaccia comune. Organizzazioni e manifestazioni pacifiche da cui sono esclusi proprio quelli con cui si tratta di creare la pace, si risolvono in ipocrisia, presunzione compiaciuta e spreco di tempo.

4) Le nubi radioattive non badano alle pietre miliari, ai confini nazionali o alle "cortine". Ognuno può colpire chiunque ed essere colpito da chiunque. Se non vogliamo restare moralmente indietro rispetto agli effetti dei nostri prodotti, dobbiamo fare in modo che l'orizzonte di ciò che ci riguarda, e cioè l'orizzonte della nostra responsabilità, coincida con l'orizzonte entro il quale possiamo colpire o essere colpiti; e cioè che diventi anch'esso globale. Non ci sono più che "vicini".

5) Ciò che si tratta di ampliare, non è solo l'orizzonte spaziale della responsabilità per i nostri vicini, ma anche quello temporale. Poiché le nostre azioni odierne, per esempio le esplosioni sperimentali, toccano le generazioni venture, anch'esse rientrano nell'ambito del nostro presente. Tutto ciò che è "venturo" è già qui, presso di noi, poiché dipende da noi.

6) Ciò che conferisce il massimo di pericolosità al pericolo apocalittico in cui viviamo, è il fatto che non siamo attrezzati alla sua stregua, che siamo incapaci di rappresentarci la catastrofe.
Raffigurarci il non-essere (la morte, ad esempio, di una persona cara) è già di per sé abbastanza difficile; ma è un gioco da bambini rispetto al compito che dobbiamo assolvere come apocalittici consapevoli. Poiché questo nostro compito non consiste solo nel rappresentarci l'inesistenza di qualcosa di particolare, ma nel supporre inesistente questo contesto, e cioè il mondo stesso. Questa "astrazione totale" trascende le forze della nostra immaginazione naturale.

7) Ma poiché, come homines fabri, siamo capaci di tanto (siamo in grado di produrre il nulla totale), la capacità limitata della nostra immaginazione (la nostra "ottusità") non deve imbarazzarci. Dobbiamo (almeno) tentare di rappresentarci anche il nulla. Ecco quindi il dilemma fondamentale della nostra epoca:
"Noi siamo inferiori a noi stessi", siamo incapaci di farci un'immagine di ciò che noi stessi abbiamo fatto. In questo senso siamo "utopisti a rovescio": mentre gli utopisti non sanno produrre ciò che concepiscono, noi non sappiamo immaginare ciò che abbiamo prodotto.

8) La frattura che divide l'umanità non passa, oggi, fra lo spirito e la carne, fra il dovere e l'inclinazione, ma fra la nostra capacità produttiva e la nostra capacità immaginativa.
Questo "scarto" non divide solo immaginazione e produzione, ma anche sentimento e produzione, responsabilità e produzione. Si può forse immaginare, sentire, o ci si può assumere la responsabilità, dell'uccisione di una persona singola; ma non di quella di centomila. Quanto più grande è l'effetto possibile dell'agire, e tanto più è difficile concepirlo, sentirlo e poterne rispondere; quanto più grande lo "scarto", tanto più debole il meccanismo inibitorio.
Liquidare centomila persone premendo un tasto, è infinitamente più facile che ammazzare una sola persona. Al "subliminare", noto dalla psicologia (lo stimolo troppo piccolo per provocare già una reazione), corrisponde il "sopraliminare": ciò che è troppo grande per provocare ancora una reazione.

9) Nulla di più falso della frase cara alle persone di mezza cultura, per cui vivremmo già nell'"epoca dell'angoscia". Questa tesi ci è inculcata dagli agenti ideologici di coloro che temono solo che noi si possa realizzare sul serio la vera paura, adeguata al pericolo.
Noi viviamo piuttosto nell'epoca della minimizzazione e dell'inettitudine all'angoscia. L'imperativo di allargare la nostra immaginazione significa quindi in concreto che dobbiamo estendere e allargare la nostra paura.
Va da sé che questa nostra angoscia deve essere di un tipo affatto speciale:
1. Un'angoscia senza timore, poiché esclude la paura di quelli che potrebbero schernirci come paurosi.
2. Un'angoscia vivificante, poiché invece di rinchiuderci nelle nostre stanze ci fa uscire sulle piazze.
3. Un'angoscia amante, che ha paura per il mondo, e non solo di ciò che potrebbe capitarci.

10) L'imperativo di allargare la portata della nostra immaginazione e della nostra angoscia finché corrispondano a quella di ciò che possiamo produrre e provocare, si rivelerà continuamente irrealizzabile. Non dobbiamo lasciarci spaventare; il fallimento ripetuto non depone contro la ripetizione del tentativo. Anzi, ogni nuovo insuccesso è salutare, poiché ci mette in guardia contro il pericolo di continuare a produrre ciò che non possiamo immaginare.

11) Sarebbe una leggerezza pensare che quelli che sono responsabili delle decisioni, grazie a posizioni di potere politico o militare comunque acquisite, sappiano immaginare l'inaudito meglio di noi. Assai più legittimo è il sospetto: che ne siano affatto inconsapevoli. Ed essi lo provano dicendo che noi siamo incompetenti nel "campo dei problemi atomici e del riarmo", e invitandoci a non "immischiarci". Molti di loro si appellano alla "competenza" solo per mascherare il carattere antidemocratico del loro monopolio. Se la parola "democrazia" ha un senso, è proprio quello che abbiamo il diritto e il dovere di partecipare alle decisioni che concernono la "res publica", che vanno, cioè, al di là della nostra competenza professionale e non ci riguardano come professionisti, ma come cittadini o come uomini. E un problema più "pubblico" della decisione sulla nostra sopravvivenza non c'è mai stato e non ci sarà mai. Rinunciando a "immischiarci", mancheremmo anche al nostro dovere democratico.

12) Oggi si può avviare una serie di azionamenti successivi schiacciando un solo bottone; compreso, quindi, il massacro di milioni. L'uomo che schiaccia il tasto non si accorge più nemmeno di fare qualcosa; e poiché il luogo dell'azione e quello che la subisce non coincidono più, poiché la causa e l'effetto sono dissociati, non può vedere che cosa fa. E' chiaro che solo chi arriva a immaginare l'effetto ha la possibilità della verità; la percezione non serve a nulla. Questo genere di mimetizzamento è senza precedenti: mentre prima i mimetizzamenti miravano a impedire alla vittima designata dell'azione, e cioè al nemico, di scorgere il pericolo imminente, oggi il mimetizzamento mira solo a impedire all'autore di sapere quello che fa. In questo senso anche l'autore è una vittima.

13) Finché l'agire si traveste ancora da "lavorare", è pur sempre l'uomo ad essere attivo; anche se non sa che cosa fa lavorando, e cioè che agisce.
La menzogna celebra il suo trionfo solo quando liquida anche quest'ultimo residuo: il che è già accaduto. Poiché l'agire si è trasferito (naturalmente in seguito all'agire degli uomini) dalle mani dell'uomo in tutt'altra sfera: in quella dei prodotti. Essi sono, per così dire, "azioni incarnate".
La bomba atomica (per il semplice fatto di esistere) è un ricatto costante: e nessuno potrà negare che il ricatto è un'azione. Qui la menzogna ha trovato la sua forma più menzognera: non ne sappiamo nulla, abbiamo le mani pulite, non c'entriamo. Assurdità della situazione: nell'atto stesso in cui siamo capaci dell'azione più enorme - la distruzione del mondo - l'"agire", in apparenza, è completamente scomparso.
Poiché la semplice esistenza dei nostri prodotti è già un "agire", la domanda consueta: che cosa dobbiamo "fare" dei nostri prodotti (se, ad esempio, dobbiamo usarli solo come "deterrenti"), è una questione secondaria, anzi fallace, in quanto omette che le cose, per il fatto stesso di esistere, hanno sempre agito.

14) La guerra atomica possibile sarà la più priva d'odio che si sia mai vista. Chi colpisce non odierà il nemico, poiché non potrà vederlo; e la vittima non odierà chi lo colpisce, poiché questi non sarà reperibile. Nulla di più macabro di questa mitezza (che non ha nulla a che fare con l'amore positivo). Certo l'odio sarà ritenuto indispensabile anche in questa guerra. Per alimentarlo, si indicheranno oggetti d'odio ben visibili e identificabili, "ebrei" di ogni tipo. Ma quest'odio non potrà entrare minimamente in rapporto con le azioni di guerra vere e proprie: e la schizofrenia della situazione si rivelerà anche in ciò, che odiare e colpire saranno rivolti a oggetti completamente diversi.

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

Sta diventando sempre più difficile scrivere qualcosa sulle guerre in corso: si susseguono senza sosta molte analisi geopolitiche, strategiche, finanziarie sia sulla guerra tar Russia e Ucraina che quella tra Israele e Hamas, una guerra, quest’ultima, che ormai si allarga coinvolgendo sempre più minacciosamente Libano e Iran.
Nulla e nessuno sembra capace di spezzare la logica della guerra.
Il filosofo M. Cacciari, in un articolo il cui titolo dice già tutto, pone alcune domande:
Chiediamocelo dunque – poiché forse di fronte all’immagine della catastrofe potremmo cercare con più forza di evitarla: non è stato che un intervallo la non-guerra, o la guerra per interposta persona, tra i grandi spazi imperiali dopo la Seconda guerra mondiale? Nient’altro che una pausa per meglio prendere la rincorsa in vista della definitiva “sistemazione” del pianeta? Perfino l’atomica, questa formidabile arma di equilibrio, sembra aver perduto il suo potere deterrente. Forse in qualche laboratorio del grande complesso militare-industriale si è scoperto il modo di usarla senza finire tutti sottoterra. Così come si inventano virus e poi vaccini, armi batteriologiche e poi antidoti. Soltanto la Tecnica, è noto, può, secondo la vox populi, risolvere i problemi che essa stessa genera. Se siamo certi di poter usare la Bomba senza che ci colpisca come un boomerang perché non usarla? Chi ha detto che è morto il dottor Stranamore? E chi dice che oggi finirebbe male? Lo puoi fare? – dice ancora la vox populi – E allora fallo.
Quale Giudice, d’altra parte, quale Autorità terza potrebbe impedire che la logica della guerra (ancora) non dichiarata, ma in atto, si svolga “iuxta propria principia”?
Se la filosofia se ne va misera, via dal mondo dove a parlare è solo la volontà di potenza, la scienza giuridica non conosce disfatta minore. Sognava, un tempo non certo remoto, addirittura una ‘giuridicizzazione’ del conflitto politico.
Contribuiva, coi suoi massimi esponenti, alla creazione di Alte Corti di Giustizia, di Corti penali internazionali. Si batteva per conferire all’Onu effettivi poteri sovranazionali, superando la procedura dei veti. E citavano anche i filosofi i nostri giuristi, per dare fondamento alle loro teorie del diritto internazionale: i Rawls e gli Habermas – e maledicevano il cupo realismo dei Miglio e degli Schmitt.
La grande politica è tornata a imporsi in tutta la sua tragicità. Volontà di potenza contro volontà di potenza. E schiacciate nel mezzo le istituzioni che ne avrebbero dovuto giudicare gli atti e anche giungere a sanzionarli. Esplicitamente ormai queste istituzioni sono considerate “nihil” dai detentori del potere effettuale. Nihilismo concreto: ogni soggetto non dotato di potere in atto è niente, semplicemente non è. Parla, dichiara, ma la parola non ha più valore. Neppure più il velo dell’ipocrisia sta a coprire la realtà che il diritto vigente è il diritto del più forte.
Ma proprio questo è il problema: chi è il più forte? Come lo si deciderà?
Tacciono i filosofi, muti i giuristi, le assemblee parlamentari ridotte a fantasmi.
Non ci sarà altro arbitro, allora, che il conflitto in armi? La decisione spetterà soltanto al vincitore? Così è sempre stato e così è destino avvenga ancora, se tutti gli istituti di mediazione, tutti i luoghi di discussione e compromesso vengono smantellati 
”.
(M. Cacciari, Muore il compromesso, trionfa la guerra, La Stampa, luglio 2024)


Sono passati 70-80 anni dalla fine dell’ultima Guerra mondiale, un intervallo di ‘non-guerra’ che è servito a preparare il ritorno alla ‘grande politica come volontà di potenza’: questo sembra essere il paradigma del nostro tempo.
E’ sconfortante accorgersi che tutti questi decenni altro non sono stati che il preambolo a nuove guerre, e accorgersi che la storia dell’umanità è ancora quella di sempre, che nulla mai cambia se non cambia il cuore dell’uomo.
Ed è quello che scrive anche una ‘piccola sorella di Gesù’ appartenente ai piccoli fratelli e sorelle di Charles de Foucauld.
Lo scrive da Nazareth nel 2002:

“Mi sento sempre più incapace di parlare della situazione di qui. Ho l'impressione che tutto quello che continua a succedere sia una ripetizione dolorosa, a volte in crescendo, di ciò che è successo giorni, settimane, mesi o anni fa. Vorrei far mie le parole di Etty Hillesum (1942): “e non vedo altra soluzione, veramente non ne vedo nessun'altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver fatto prima la nostra parte dentro di noi. E' l'unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove”.

Dicevano di un tempo di ‘non-guerra’: e invece anche in questi decenni di ipotetica pace la guerra era presente pur se sminuzzata in tante piccole guerre: quasi un preavviso alla fragilità della nostra pace.

Dalle parole della ‘piccola sorella’ si coglie il dramma del conflitto fra israeliani e palestinesi che già 22 anni fa presentava la identica violenza e conflittualità di oggi: quasi un eterno e immutabile ritorno dell’identico.
Nella lettera di questa piccola testimone del Vangelo un salto in un passato che sembra non mutare mai e una testimonianza cristiana umile e silenziosa di una piccola cristiana che voleva vivere come  Gesù di Nazareth a Nazareth.

Lo scrittore ebreo Vassilij Grossman ha scritto:
“In quei giorni tremendi il sangue, la sofferenza e la morte non commuovevano nessuno, solo l’amore e la bontà scuotevano le persone.

E’ il nostro compito e la nostra speranza


Una lettera da Nazareth sul conflitto fra israeliani e palestinesi

Carissimi,
penso con gratitudine a tanti incontri d'amicizia vissuti in Italia nell'ultimo passaggio. Vorrei raggiungere ciascuno nella sua situazione particolare di vita attraverso la preghiera. Questi incontri mi hanno aiutato a riflettere sul valore inestimabile dell'amicizia nella durata del tempo e malgrado la distanza fisica. Ci sono effettivamente legami che si nutrono anche di silenzio e di attesa quando sono più profondi. Il mio pensiero va spesso a voi, anche se scrivo poco negli ultimi tempi.
Sono anche sinceramente commossa per la corrente di solidarietà che si è creata grazie a voi in favore del popolo Palestinese e voglio ringraziarvi tutti per la partecipazione generosa.
Mi sento sempre più incapace di parlare della situazione di qui. Ho l'impressione che tutto quello che continua a succedere sia una ripetizione dolorosa, a volte in crescendo, di ciò che è successo giorni, settimane, mesi o anni fa. Vorrei far mie le parole di Etty Hillesum (1942): “e non vedo altra soluzione, veramente non ne vedo nessun'altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver fatto prima la nostra parte dentro di noi. E' l'unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove”.
Al mio rientro qui ho potuto visitare le sorelle a Gerusalemme, Ramallah, Gaza e Beit Jala. Ho lasciato quest'ultima poche ore prima del nuovo coprifuoco, subito dopo l'attentato a Gerusalemme. Ho ritrovato dunque la stessa violenza, le stesse tensioni, la stessa paura in tutto il paese. Non ci si immaginano le conseguenze del coprifuoco: una violenza che non fa rumore, che distrugge lentamente. Nel quartiere un panettiere è stato punito perché trovato a lavorare “illegalmente” nel suo forno durante il coprifuoco, gli hanno rovinato e gettato la pasta e requisito le chiavi dei forni della zona di Betlemme... A Gaza una bambina di 11 anni, con un corpo che rifiuta di crescere, subisce insieme ai suoi numerosi fratelli e sorelle, le violenze di un padre disoccupato “a vita” e reduce dalle torture subite in prigione... Questa bambina mi ha regalato un disegno: una colomba azzurra rinchiusa in un cerchio nero. Molto spesso ora i disegni dei bambini portano una striscia nera che “racchiude” il disegno. Il simbolo della prigione in cui vivono.
Ma anche... ho incontrato a Gerusalemme un palestinese che aveva visto la mattina stessa l'orribile attentato e ne era sconvolto. Mi ha detto piangendo: “Non siamo più uomini, né noi né loro”. E nel passare il posto di blocco a Kalandia (Ramallah) ho incontrato il volto di un soldato israeliano più anziano, un volto pieno di bontà e di dolore, e per un momento mi son venute le vertigini. Quell'uomo non umiliava, non picchiava, certamente pativa di essere là. “Non ci sono confini tra gli uomini sofferenti, si patisce sempre da una parte e dall'altra e si deve pregare per tutti.”(Etty Hillesum)
A volte penso che la sconfitta umana è tale dalle due parti (e poco importa se si vince militarmente) che dovrebbe poter rimettere in questione ogni sorta di ideologia nazionalista o religiosa, e far riflettere di più alla condizione dell'uomo, chiunque sia, prigioniero di questo conflitto. Un prete nei Territori mi diceva: “è una situazione che ci supera totalmente, che non riusciamo nemmeno più a spiegare. Una lotta tra il bene e il male (non nel senso americano!), tra luce e tenebre, che supera i due stessi popoli, e che in fondo è nascosta in ciascuno di noi”.
“Il popolo che camminava nelle tenebre... coloro che abitavano nel paese dell'oscurità...” - e non si potrebbe esprimere meglio la realtà di questi anni nel paese - “vide”, nella nudità della fede e contro ogni speranza, “la grande luce” di Colui che è venuto “perché abbiano la vita, e l'abbiano in abbondanza”.
In questa comunione di fede e d'amicizia fraterna vi abbraccio tutti nella gioia del Natale che viene.

la vostra piccola sorella
Maria Chiara di Gesù

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BISOGNI E GIUSTIZIA
Aiutare gli altri è un valore esistenziale

Piero Stefani, teologo, docente di Giudaismo, saggista

Per continuare a sussistere occorre mangiare. La necessità di farlo è prova evidente della non autosufficienza dei viventi. Non è la sola. Per gli animali non acquatici, lo è anche la respirazione e quindi l’aria. In condizioni normali, non ci si deve impegnare a procacciarsi l’aria (essa perciò, come precisò David Hume, non è dotata di valore economico). Respiriamo sia da svegli sia da addormentati: la dipendenza è continua. Quando, nel senso pieno e letterale del termine, manca l’aria, la vita si estingue nel giro di pochi minuti. Il respiro attesta l’inesorabile bisogno che il vivente ha dell’altro da sé. L’originaria testimonianza del primato delle relazioni è affidata ai nostri polmoni.

Allorché in una stanza irrompe una luce sghemba ci si accorge che l’aria è piena di pulviscolo. Quanto ai nostri sguardi sembrava puro, ora appare una danza di corpuscoli sospesi. Entrano in noi con il respiro, il nostro fiato li emette di nuovo; altri li assumeranno e li restituiranno. Il processo di respirazione è ciclico e continuo. Siamo accomunati dall’aria, dall’alito, dal respiro, dal pulviscolo: ci scambiamo quanto abbiamo ricevuto.

Non tutto è idilliaco. L’aria è spesso inquinata. Chi ha respirato polvere d’amianto può morirne anche dopo decenni. Ci si trasmette pure germi e virus. Le mascherine, se non sulla nostra bocca, sono ancora nella nostra memoria. Tuttavia, di solito, l’aria è a nostra diretta disposizione senza troppe insidie. Per respirare neppure il neonato ha bisogno di aiuti esterni.

Il discorso è diverso per il cibo. Mangiare è atto volontario. Con frase corrente, detta per lo più al negativo, s’afferma di non aver voglia di mangiare. Gli alimenti non giungono spontanei a noi né di giorno, né di notte: ce li dobbiamo procurare. Se non siamo nelle condizioni di farlo, altri devono attuarlo per noi. I neonati non si procacciano da soli il latte. Tutti, senza eccezione, per sopravvivere necessitano d’essere aiutati da altri. Se, appena nati, si fosse abbandonati a se stessi, nessuno sopravviverebbe. L’aver ricevuto delle cure è iscritto nelle fibre della nostra esistenza.

Che gli esseri umani nascano liberi e uguali è un «dover essere» qualificante ma astratto, che tutti vengano al mondo bisognosi d’aiuto è invece reale e concreto. I bisogni primari ci accomunano. Si legge nel Siracide: «Le prime necessità della vita sono acqua, pane e vestito, e una casa che protegga l’intimità [alla lettera “per nascondere l’indecenza (Sir 29,21).
Non è elencata l’aria, un bisogno che, forse, appariva facile da soddisfare. È comunque vero che, in media, in relazione all’aria si consumano meno ingiustizie (ce ne sono però anche in questo campo) di quante se ne compiano, ogni giorno e ovunque, in riferimento all’acqua, al pane, al vestito e all’abitazione, tutte realtà intrinsecamente dotate di valore economico. In questi ambiti, produzione e scambio giocano un ruolo ben superiore a quello svolto dall’aiuto reciproco.

Vi è però anche l’altra faccia della medaglia. In situazioni normali, non ci troviamo nelle condizioni di donare aria ad altre persone. Non ce n’è bisogno. Posso però dare da bere all’assetato, da mangiare all’affamato, vestire l’ignudo, ospitare il senza tetto (cf. Mt 25,31-46). Ci è, dunque, concesso d’emanciparsi, per quanto solo parzialmente, dalla logica economica per entrare in quella che qualcuno ama qualificare con il termine «dono». In realtà, aiutare chi è nel bisogno costituisce una semplice attualizzazione della legge primaria dell’esistenza: ogni vivente è tale solo perché ha conglobato in sè stesso l’atto originario d’essere stato aiutato a esistere.

Aiutare il prossimo
Che cosa avviene quando l’aiuto non giunge? Come bisogna comportarsi nei confronti di chi ha negato, per quanto stava a lui, la legge che presiede alla vita? Conosciamo le parole con cui il Vangelo di Matteo descrive il giudizio finale: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Si tratta di una frase che può essere pronunciata unicamente da chi si identifica a tal punto con colui che è nel bisogno da non trovarsi neppure nelle condizioni di prestare aiuto.

Il Figlio dell’uomo è contraddistinto da una divina passività. Egli è dalla parte dei sofferenti e non già da quella di chi li soccorre. Aiutare il prossimo è compito nostro, non di Dio. Un racconto chassidico trasmessoci da Martin Buber prende le mosse dal presupposto che Dio non ha fatto alcuna delle cose esistenti priva di scopo. Un discepolo allora chiese, in maniera paradossale, al proprio maestro come mai fosse stato creato l’ateismo.
Il rabbi rispose che ciò era avvenuto perché quando ci troviamo di fronte a una persona bisognosa di aiuto, essa non va congedata appellandosi a un presunto soccorso che giungerà dal cielo; al contrario, occorre agire come se Dio non fosse e tutto dipendesse da noi. 
La storia e la cronaca ci mostrano, però, con inesorabile frequenza, quanto latiti l’aiuto. Come bisogna umanamente reagire quando ciò non avviene? 

Vi è un passo biblico che prende di petto il problema; lo fa però in un modo che ci turba. Per comprenderlo occorre risalire a un racconto incentrato sulla sete di discendenza che, dopo la distruzione di Sodoma, prese a tal punto le figlie di Lot da indurle a farsi ingravidare dal loro padre. Nacquero così due figli: Moab («da mio padre») e Ammon («figlio del mio popolo»; Gen 19,30-38).
Il libro del Deuteronomio (23,4-7) riporta parole molto dure rispetto ai discendenti di questi due popoli: la comunità del Signore sarà infatti per sempre preclusa al moabita e all’ammonita. Tuttavia la ragione addotta per questa esclusione riguarda non già la loro lontana origine incestuosa bensì due atti successivi: l’aver inutilmente prezzolato Balaam perché maledicesse Israele (cf. Nm 22,2-21) e soprattutto il non aver soccorso nei suoi bisogni primari lo stremato popolo ebraico uscito dall’Egitto: «Perché non ti vennero incontro con il pane e con l’acqua nel vostro cammino», perciò «non cercherai né la loro pace né la loro prosperità [alla lettera: “il loro bene] finché vivrai». La negazione dell’aiuto da parte di ammoniti e moabiti porta Israele a rendere permanente l’ostilità nei loro confronti. Con gli esponenti di quei due popoli non sarà mai consentita alcuna integrazione. Seguendo questa linea, si è però inevitabilmente ingabbiati dentro la stessa logica che si prefigge di condannare. Si resta prigionieri dell’inimicizia al punto da vietare di impegnarsi per il bene altrui.

I bisogni primari sono pre-etici
Circola un detto, attribuito a vari autori, secondo il quale procacciarsi il proprio pane è questione materiale, mentre preoccuparsi di quello del prossimo è questione spirituale. La frase non appare abbastanza radicale.
I bisogni primari sono pre-etici, soddisfare quelli degli altri è, di conseguenza, un atto etico radicato in qualcosa che lo precede; è un comportamento più esistenziale che spirituale. L’aiuto va prestato in base a una condizione umana accomunante che, rispetto ai bisogni primari, ignora la discriminazione basata sulla coppia antitetica amico-nemico. Anzi, in questi casi non va neppure fatto valere il discrimine che separa buoni e cattivi. Non si tratta però di annullarlo. Al contrario, soltanto agendo in questo modo si è nelle condizioni di mantenere, sul piano che le spetta, la fondamentale distinzione tra bene e male.

Lo svela Gesù quando, nel Discorso della montagna, comanda di comportarsi come il Padre celeste che fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (cf. Mt 5,45). Se Matteo avesse scritto, secondo una pura logica universalistica, un generico «su tutti» avrebbe depotenziato enormemente la frase. Le distinzioni vanno mantenute ma senza farle dipendere da quanto è indispensabile perché la vita sia (sole e pioggia).

Jürgen Moltmann, in un articolo ripubblicato on-line in occasione della sua recente scomparsa, ci trasmette un racconto da lui stesso ricevuto. Si tratta di una testimonianza relativa a una donna russa che distribuiva il pane ai prigionieri di guerra tedeschi che passavano nel suo villaggio. I soldati russi volevano proibirglielo. Lei rispose che aveva agito allo stesso modo quando erano i tedeschi a trasportare i prigionieri russi e che avrebbe dato da mangiare anche a chi ora la stava rimproverando, quando sarebbe stato fatto transitare dal suo paese a opera della polizia segreta.

La storia di quella donna radicata nella volontà di bene avrebbe potuto proseguire. La polizia segreta del regime totalitario staliniano è esempio supremo di ingiustizia, ma quella figlia del popolo russo avrebbe dato del pane anche ai poliziotti se fossero stati, a loro volta, deportati da altri.
La risposta etica ai bisogni primari è il fondamento di ogni civiltà degna di questo nome; lo è anche e soprattutto quando domina la barbarie: «In quei giorni tremendi il sangue, la sofferenza e la morte non commuovevano nessuno, solo l’amore e la bontà scuotevano le persone» (Vassilij Grossman).

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L' intervento del prof. Andrea Riccardi che qui pubblichiamo va al cuore di uno dei problemi che caratterizza la storia dell’Occidente: la cultura dell’odio e l’idea di Nazione.
Un problema che appare subito estremamente attuale non solo per la guerra in corso sul suolo europeo ma anche perché rende ragione della difficile e sempre problematica unità degli Stati europei.  
In ambito storico una delle novità dell’epoca moderna è la nascita dello Stato come soggetto politico dotato di piena sovranità.
Decadono progressivamente gli Imperi (Impero romano, Impero carolingio, Sacro romano impero germanico e, in epoca più recente, Impero russo e Impero austro-ungarico, Impero ottomano); a questi Imperi, per tutto il Medioevo, si contrappone la Chiesa che tenta di imporre al potere temporale la sua superiorità religiosa e spirituale.
Ed è a partire dalla Modernità che il potere temporale, pur attraverso le molteplici forme che va progressivamente assumendo (Stato assoluto, Stato liberale, Stato democratico, Stato totalitario) si va progressivamente liberando dalla tutela della Chiesa, elaborando forme sempre più complesse ed efficaci di auto-legittimazione e di sovranità.
I nascenti Stati sovrani detengono  il monopolio della forza disponendo di un esercito stabile (viene istituito il servizio di leva obbligatoria) necessario ad affermare il loro potere sia verso l’interno che verso l’esterno dei propri confini; un potere necessario a difendere il proprio territorio ma anche ad ampliarlo con annessioni e conquiste militari.
Scrive lo storico P. Prodi: “Nella storia moderna la guerra non è un’eccezione ma la ragione stessa degli Stati”.   
Contribuiscono alla formazione degli Stati sia il progresso tecnologico con la produzione di nuove e sempre più potenti armi  e strumenti di distruzione sia il Romanticismo ottocentesco che di ogni Nazione ne esalta lo spirito e l’identità collettiva  quali frutto della loro unicità storica.
Questo lungo e secolare processo che progressivamente attraversa tutta la Modernità viene definito dagli storici “migrazione del Sacro”: il sacro trasla dal religioso al politico; lo Stato si “sacralizza”, nasce l’identità nazionalistica, l’amore patrio.  


CULTURA DELL’ODIO E IDEA DI NAZIONE. LA DERIVA DELLA PAURA. LE LEZIONI DELLA STORIA
 

di Andrea Riccardi, storico italiano, studioso della Chiesa in età moderna e contemporanea, fondatore nel 1968 della Comunità di Sant’Egidio, Ministro per la Cooperazione Internazionale e l’integrazione dal 2011 al 2013

La nazione è una realtà storica recente, anche se, per autolegittimarsi, deve mostrare di esistere da sempre, o almeno da prima di altre nazioni che insistono sullo stesso territorio o confinano con esso. L’auto-accreditamento fa parte della narrazione della nazione. Nelle rappresentazioni la nazione appare sempre più come una casa omogenea di un popolo, nonostante la geografia e la demografia diano risultati diversi. La ‘cultura nazionale’ è stata un grande contenitore che ha dato efficienza all’odio: l’ha congelato e conservato negli anni, l’ha diffuso come educazione all’identità. Storia, lingua, geografia, epica letteraria hanno contribuito all’efficienza e alla diffusione dell’odio. Eppure l’invenzione della nazione è storia contemporanea. Dall’Ottocento in poi gli intellettuali sono stati i propagatori dell’idea nazionale. Hanno offerto, nello scontro tra popoli, di fronte a forme imperiali antiche, quali l’impero asburgico o ottomano, che erano multi-religiose e multietniche, un’identità a chi si era sempre definito solo con la religione o al massimo con la regione. Non ci si definiva necessariamente in modo nazionale fino a cent’anni fa in varie parti del mondo.
La vicenda della nazione, dagli intellettuali e dalle élite politiche è passata progressivamente al popolo con i processi che George Mosse ha chiamato la ‘nazionalizzazione delle masse’. Sono processi diversi, svoltisi in tempi differenti, che si misurano sempre con la costruzione del ‘noi’ e con la contrapposizione agli ‘altri’ o – in modo particolare e con odio – a un ‘altro’. La nazionalizzazione delle masse si accompagna, specie nel Novecento, a un’opera di propaganda e di sensibilizzazione all’appartenenza, tanto da far parlare di ‘religione della patria’: la coscrizione obbligatoria dei cittadini maschi porta a morire in guerra per la nazione e richiede una buona dose di convincimento perché si compia questo passo. Si pensi alla propaganda che accompagna le due guerre mondiali, fatta di odio per il tedesco da parte del francese e viceversa, o di odio contro l’austriaco che occupa le terre italiane irredente, come Trento e Trieste durante la prima guerra mondiale.
Parole e linguaggio sono decisivi. Il nazionalismo e la nazionalizzazione sono realtà multiformi, che si contagiano e si contrappongono. Da Federico Chabod, grande storico del Novecento, tanti hanno notato in Europa che i processi di nazionalizzazione seguono due modelli.
Uno d’origine francese, per cui «la nazione è il plebiscito di tutti i giorni» (lo diceva Ernest Renan), quindi un modello culturale, volontaristico, assimilatorio, tanto che uno nato in Corsica come Napoleone diventa imperatore dei francesi. Ed è anche il modello italiano, per cui i dalmati, pur con cognomi slavi, si sentono italiani e italofoni, come a Trieste o a Fiume.
L’altro modello è tedesco, basato sulla ‘terra e il sangue’, che valorizza la discendenza: la nazione è una realtà in cui si nasce, non si entra, ma anche si esce a fatica. Questo modello diventa quello dei popoli slavi.
Ogni nazione ha il suo nemico. Esistono città segnate in profondità dall’odio nazionale, che ne ha cambiato radicalmente il volto. Nell’età dei nazionalismi c’è un gruppo etnico che non viene coinvolto dalla nazionalizzazione, forse per l’assenza di premesse territoriali e di élite: sono i rom, conviventi di sempre dei popoli europei, fatti ripetutamente segno di odio nelle varie società europee fino a oggi e, anzi, oggi in modo particolare nel quadro del disagio delle periferie. Nell’età dei nazionalismi, specie nel XX secolo, le identità nazionali occupano prepotentemente lo scenario della vita politica e internazionale. Non si dimentichi – notava Umberto Eco – che la costruzione di un’identità nazionale e la sua diffusione tra i popoli necessita della costruzione di un nemico attraverso una pedagogia dell’odio.
Così il tedesco   boche per i francesi e i belgi (l’uso è durato anche dopo il 1945). Crucchi erano, per i soldati italiani, lo sloveno o il croato nella prima guerra, che chiedevano kruch, pane. Si potrebbe parlare dei pregiudizi e delle definizioni irrisorie nei confronti degli italiani, specie a seguito della loro massiccia immigrazione in America e in Europa. Ma forse il caso più evidente di costruzione del nemico è l’antisemitismo, che si fonda su un terreno secolare di pregiudizi, tra cui quello religioso. Gli ebrei sono stati in Europa l’unica minoranza religiosa convivente con la maggioranza cristiana, mentre le presenze musulmane o altre sono state eliminate. Nella politica dell’odio nazista l’ebreo e l’ebraismo tengono un posto centrale.
Le nazionalità sembrano radicate in modo immutabile, nonostante la loro storia più o meno breve. Scriveva nel 1915, in piena Prima Guerra Mondiale, tra furori nazionalisti, un Papa che avrebbe definito il conflitto come l’«inutile strage», Benedetto XV, grande osservatore delle vicende europee: «Né si dica che l’immane conflitto non può comporsi senza la violenza delle armi. Depongasi il mutuo proposito di distruzione; riflettasi che le Nazioni non muoiono: umiliate ed oppresse, portano frementi il giogo loro imposto, preparando la riscossa e trasmettendo di generazione in generazione un triste retaggio di odio e di vendetta».
L’idea di Benedetto XV era la necessaria composizione negoziale tra le istanze differenti e confliggenti delle nazioni: le nazioni non muoiono, ma trasmettono di generazione in generazione l’ansia di riscossa e il retaggio di odio e di vendetta. Idea che, nella seconda guerra mondiale, ha trovato piena conferma. La realtà è che, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo Auschwitz e Hiroshima, è sembrato che l’età degli odi nazionali, se non archiviata, fosse almeno in parte oscurata. L’Europa dei Sei, sull’asse della riconciliazione franco-tedesca, avviava il processo d’integrazione europea, che avrebbe inquadrato le identità nazionali in un orizzonte unitario, mentre merci e persone cominciavano a circolare liberamente oltre le frontiere. Le guerre nazionalistiche europee sembravano seppellite per sempre. In Occidente, durante la guerra fredda, avevamo dimenticato la forza e il radicamento delle identità nazionali nell’Est europeo, che appariva seppellito dall’ideologia marxista e dalla politica comunista. Con la caduta del Muro le identità nazionali sono riemerse con una vitalità sorprendente e talvolta devastante.
Dopo la Seconda Guerra, e soprattutto dagli anni Sessanta, con la decolonizzazione si è ridisegnata la carta geografica del mondo, con la nascita di nuovi Stati, fondati su confini tracciati con arbitrarietà dai colonizzatori, e fondati spesso su un mix di eredità storica, di tradizione, religione, etnia.
Il nazionalismo e gli odi nazionali sono apparsi nella seconda metà del Novecento come una realtà dei Sud del mondo più che dell’Europa della guerra fredda. Tuttavia, il nazionalismo e gli odi nazionali erano considerati meno centrali nella vita dei popoli al tempo della caduta del Muro. La globalizzazione ha riproposto la domanda sulla propria identità: chi siamo noi? Ma anche: chi sono gli altri? Oggi, in Europa – lo mostra il rapporto della commissione ‘Jo Cox’, approvato anche dalla XVII legislatura italiana – l’odio, l’intolleranza, la xenofobia e il razzismo sono un problema rinnovatosi in un atteggiamento di ‘paura della storia’, come diceva Eliade, anche in Paesi saldi nella loro identità storica. Lo si vede nel successo dei movimenti sovranisti e populisti, che hanno come base la difesa dell’identità nei confronti degli altri: l’immigrazione non sta diventando un’invasione? – ci si chiede.
La paura viene da un mondo divenuto tanto grande, dallo smagliamento di reti associative, familiari, partitiche, religiose, dalla solitudine; viene dall’ignoranza di fronte a mondi che non erano in contatto con noi e che si conoscono prima attraverso il pregiudizio che con l’incontro e la cultura. È un territorio immenso, come quello del web, come le periferie urbane, su cui bisogna intervenire, da regolare; ma è anche un mondo con cui bisogna dialogare.
Tanto della paura, che spinge a rivestire identità-contro, viene dalla solitudine, dall’assenza di lettura del mondo contemporaneo, dallo spavento di fronte a un presente illeggibile con i propri strumenti.
La risorgenza dei nazionalismi e dei loro odi è una risposta vecchia e datata che sembra rassicurare, ma getta in un vortice di paura e violenza.

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

L’ODIO TOGLIE SPAZIO ALLA RAGIONE, SIAMO NELLA DITTATURA DELLE EMOZIONI

C'è una distinzione che sta sempre più sfuggendo ai più: riuscire a mettere da una parte le emozioni e dall'altra le convinzioni. Qualcuno potrebbe anche pensare che, con questa affermazione, si intende affossare il ruolo positivo che le emozioni giocano nel vivere quotidiano. In realtà, si sta parlando di distinzione e non già di graduatoria. Tanto meno di giudizio di merito. Non si intende quindi affatto attaccare il valore e le funzioni che le emozioni rivestono nella coscienza umana. Appare a tutti chiaro che una persona, priva di emozioni, si presenta subito come un essere dalle qualità limitate.
Qui si intende, invece, affermare che emozioni e convinzioni non vanno mai tra di loro confuse. Neppure sovrapposte o intercambiate. Vanno invece riconosciute per quello che sono e per quello che devono rappresentare per ogni uomo e anche per ogni donna.
Oggi, purtroppo, molti non riescono più a distinguere tra emozioni e convinzioni. Ciò impedisce loro di vivere in modo equilibrato la propria capacità di reattività. Quanto è squallido osservare ogni giorno persone che, poste di fronte a fatti oggettivamente orrendi, procedono indifferenti: non provano emozioni di sorta. Vivono, cioè, chiusi all'interno di un individualismo assoluto, narcisistico magari e in ogni caso sempre molto sensibile all'assicurarsi la difesa dei privilegi personali. Sanno solo pensare a se stessi. Ma, alla pari, è ugualmente squallido avere a che fare con persone incapaci di dominare le proprie emozioni. Sono sempre simili a fiammiferi che, purtroppo, finiscono nelle mani di persone che non sono capaci di distinguere come e quando usarli.

Noi siamo convinti che queste affermazioni non costituiscono il vero e proprio discorso da proporre. Noi pensiamo che queste affermazioni devono solo costituire una premessa capace di proporre la centralità di altre affermazioni. Oggi è quanto mai indispensabile che tutti scoprano il ruolo delle emozioni. Ciò, tuttavia, risulterà virtuoso e anche vincente solo per chi saprà in ogni situazione rendere le emozioni molla che rilancia i valori di fondo. Perché ciò si realizzi, è indispensabile che ognuno sappia discernere il contenuto oggettivo delle emozioni. Ci sono, infatti, emozioni positive ed emozioni negative. Quindi, ci sono emozioni da purificare. Ci sono emozioni da incanalare debitamente. Ci sono emozioni da mettere in ordine proprio come avviene tra i vari componenti di un orologio o le infinite parti di un motore.

E', comunque, nostra ferma convinzione fare arrivare questo discorso a un preciso punto di approdo esistenziale. Ridare centralità oggettiva e, soprattutto, operativa all'universo delle convinzioni. Ciò, a partire da poche parole. E', per noi, centrale riscoprire in continuazione la gioia di ritrovarsi solidamente legati al Vangelo di Gesù. Riuscire, cioè, a fare in modo che pensiero e agire dipendano sempre in modo primario dal rispetto del Vangelo portato da Gesù sulla terra. E' fondamentale riuscire a reagire (emozioni) a ciò che il vissuto fa incrociare. Ma, decisivo, è sapere mettere la propria capacità reattiva di fronte a Gesù e, subito, subordinarla al suo Vangelo.

Noi siamo convinti della necessità assoluta di mettere sempre davanti a tutto  e a tutti la gioia di essere cristiani. Gesù ce lo chiede. Il mondo pagano o ateo ne ha assoluta necessità. Il viverlo può comportare reazioni negative in chi sta attorno. Bisogna farsene in fretta una ragione. Ma, prima ancora, è basilare fare trasparire apertamente l'appartenenza a Gesù. In modo solare, immediato, evidente.
Certo, si tratta di viverlo e non semplicemente di dirlo. Non ci sono infatti parole da difendere ma valori oggettivi da promuove concretamente.  

Mario Giro, giornalista

C’è troppo odio in giro, e la sua onnipresenza ci acceca. In genere si pensa che sia il prodotto di una situazione oggettiva che non controlliamo, ma è vero il contrario: più si odia e più si creano le condizioni perché l’odio esploda.

Sui grandi temi internazionali e sulle crisi globali ci si combatte con astio allo scopo di generare sempre altro odio. In tali situazioni sono pochi coloro che continuano a ragionare mantenendo una certa lucidità, e pochissimi riescono a resistere allo spirito del tempo che spinge a odiare sempre di più. Si richiede a ciascun uomo, partito, popolo o nazione di schierarsi, di decidere chi è il proprio nemico e di odiarlo senza tregua.

Pace, dialogo, confronto, conoscenza dell’altro, tolleranza, comprensione: sono tutti temi che non hanno più spazio se non per anime belle e ingenue. L’odio sembra la cosa più reale e più vera. Lo stimolo dominante è l’esaltazione della contrapposizione e la dittatura dell’emozione. Mostrare le fotografie o i video degli orrori quotidiani a cui siamo costretti ad assistere – le soldatesse israeliane rapite, ferite e umiliate, i bambini di Gaza affamati e uccisi, i civili africani sterminati da milizie o jihadisti, le religiose rapite, le città rase al suolo, ecc. – non serve ad aumentare la nostra consapevolezza o a farci indignare, ma diventano uno spin diretto ad aumentare l’odio e a eccitare le tifoserie.

«Malattia dell’anima»
Etty Hillesum aveva riconosciuto questo odio nei lager: un sentimento che diviene indifferenziato, cioè verso tutto e tutti coloro che non sono “dei nostri”. Un odio «malattia dell’anima» che trascina nel gorgo infinito della guerra. In tale contesto è d’obbligo resistere: questa è la vera nuova resistenza da compiere. Dobbiamo fare in modo che siano preservati gli spazi di bene e di buono, che sia conservata la disposizione verso il bene e la pace. Non si tratta di una pia illusione o di buonismo, ma di sopravvivere e opporsi a una logica che rende schiavi.

«Se il nostro odio ci fa degenerare in bestie come lo sono loro», scriveva Hillesum prendendo spunto dai nazisti, «non servirà a nulla».
Lo sappiamo ma ce ne dimentichiamo. Tornare a riflettere sui pensieri di chi visse il “grande male” del nazismo e della shoà è utile a scuoterci dalle emozioni del presente. Diceva ancora Etty Hillesum (profeticamente): «Dopo la guerra due correnti attraverseranno il mondo: una corrente di umanesimo e un’altra di odio. Allora ho saputo di nuovo che avrei preso posizione contro quell’odio».

Questo deve essere il programma comune europeo: prendere posizione contro l’odio e immettersi nella corrente dell’umanesimo. Prima ancora della pandemia e delle grandi guerre ucraina e mediorientale, il cardinale Matteo Zuppi aveva pubblicato un libro sulla malattia spirituale della nostra epoca – Odierai il prossimo tuo – con il coraggio di denunciare tutti gli aspetti dell’odio (anche quello dentro la chiesa). Con uno sguardo mai rassegnato e la sua ben nota positività, il cardinale scriveva: «L’odio che si respira nella nostra società, l’odio che sembra diventato un’ovvia necessità – persino una virtù civile, almeno sulla bocca di qualche voce autorevole – potrebbe rivelarsi non solo una tentazione a cui resistere ma un’occasione preziosa per riscoprire con rinnovata energia il grande valore della fraternità, unico materiale che può rendere solida la nostra casa comune».

La paura
In effetti una parte di questo odio nasce dalla paura, quella di non avere più una casa solida, fosse la società, il paese o l’Europa. La paura è una vecchia compagna che si è fatta veleno sottile e silenzioso e ha ucciso molte speranze. Tutto ciò che accade è visto come una minaccia: la paura spinge a non procreare, a non pensare alla vita dopo la propria, a temere il futuro, a non accettare il disagio degli altri, a non sopportare la presenza dei poveri, a non considerare le diversità… La paura costruisce muri, gabbie, barriere, difese.

Basta pensare alle reazioni alla pandemia (e a tutto l’odio scatenato nella polemica sui vaccini che ancora continua) o alle guerre attuali ma anche alla trasformazione dei giudizi sull’Europa (una volta protettrice, ora causa di tutti i mali…). La paura spinge a cercare/creare un colpevole per odiarlo. Non avere paura è difficile: non si può ordinarlo o decretarlo. Bisogna con pazienza ricostruire – qualcuno usa la parola “ritessere” o “rammendare” – la fiducia scomparsa dentro le società o tra le nazioni. Come sarà possibile farlo tra russi e ucraini, tra palestinesi e israeliani?

Ecco perché parlare di pace e celebrarla è utile e non ingenuo: serve come materiale per ricostruire la fiducia e sciogliere la paura. Avere stima del dialogo come metodo del convivere serve a tutti. La nostra vita comune è fatta di tanti aspetti ed elementi diversi: la famiglia, il lavoro, città dove viviamo, la regione, le idee politiche, la religione, l’Italia, l’Europa, le contese, l’economia, il mondo…. Ci stiamo abituando sempre di più a pensare che vivere con gli altri – soprattutto se diversi e/o stranieri – sia un’impresa difficile se non impossibile.

Solitudine
«L’inferno sono gli altri», diceva Sartre. Ci si incammina così per una via solitaria: solitudine per le persone, isolamento per gli stati, separazione tra le culture e le religioni. Vivere insieme è da sempre la sfida dell’umanità. Nella storia, dopo le grandi guerre, rinasce sempre la coscienza del destino comune che lega persone e popoli: nessuno è un’isola. Poi però l’eccitazione delle emozioni, il bisogno di schierarsi, l’impulso per l’identità uccidono tale volontà e separano di nuovo. L’idea d’Europa nasce dopo due guerre mondiali, maturando lentamente tra le élite per diventare a un certo punto un sentimento diffuso e popolare.

Alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso il desiderio di pace era quasi un’ovvietà: basta guerre fra di noi! Jamais plus la guerre!, come disse Paolo VI alle Nazioni unite. Ma poi si è dimenticata tale regola saggia e si sono fatte tante altre guerre, sempre con delle giustificazioni: le guerre coloniali, di liberazione e indipendenza; quelle arabo-israeliane e del Medio Oriente; i conflitti legati allo scontro bipolare; quelli etnico-regionali, fino a giungere alle guerre dell’estremismo religioso e identitario e alla guerra al terrorismo. Non c’è da sorprendersi se, educato a tale scuola dell’odio e della contrapposizione, l’uomo contemporaneo abbia ceduto interiormente e oggi accetti come naturali i grandi conflitti ucraino o a Gaza o le numerose guerre d’Africa. Sempre la Hillesum scriveva: «Convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale».

È una saggezza che vale per tutti: seminare odio crea le condizioni perché quell’odio si ritorca contro di sé. Nessuno è immune dalla grande pandemia dell’odio. Giustamente ci lamentiamo tutti dell’hate speech nei social e ormai anche sui media. Ma la malattia è più profonda: abbiamo lasciato il veleno insinuarsi dentro di noi, nelle persone, nelle società, nei paesi, accettando il male come un fenomeno naturale. Non lo è, come non lo è la guerra. L’odio deve essere considerato inaccettabile: una patologia che distrugge allo stesso tempo chi lo provoca e chi ne è oggetto. L’odio provoca l’ira e acceca: ciò vale per le persone, come per le comunità e gli Stati. Nessuna passione, nessun ideale potrà mai giustificare l’odio.

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

Abbiamo ospitato l'intervista del Card. Pizzaballa, Patriarca della chiesa latina a Gerusalemme, che ha raccontato della sua visita alla piccola comunità cattolica di Gaza
Ma qual'è concretamente l'umile ma importante contributo di questa piccola comunità cattolica e di tutta la comunità cattolica di Gerusalemme?
Ne emerge una testimonianza eroica che Sami Al-Youssef descrive con precisione di dati e di iniziative; un “raggio di speranza”, appunto, per ricostruire la pace e la giustizia.


UN RAGGIO DI SPERANZA

di Sami Al-Youssef, economo generale del Patriarcato latino di Gerusalemme, 28 maggio 2024

La recente visita di Sua Beatitudine il Cardinale Pizzaballa a Gaza può aver colto di sorpresa il mondo intero, ma per noi che lavoriamo a stretto contatto con lui e sappiamo quanto sia appassionato delle sofferenze della nostra gente in quel luogo, era certamente attesa. Nonostante i rischi, la visita è stata un’incredibile dimostrazione di solidarietà che ha dato speranza alla nostra comunità. Per alcuni giorni ha vissuto la vita dei nostri fratelli e sorelle a Gaza, dove si deve riuscire a dormire al suono delle esplosioni, senza elettricità e con cibo razionato. Ciò che è dato per scontato in qualsiasi altra parte del mondo è diventato un lusso a Gaza.
Dall’inizio della guerra contro Gaza, il livello di perdite umane e di distruzione è stato senza precedenti nella nostra Terra Santa. Le statistiche pubblicate dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) sono devastanti: 35.500 palestinesi uccisi e 80.000 feriti, di cui il 60% in entrambe le categorie è costituito da anziani, donne e bambini; 1,7 milioni di persone (il 75% della popolazione) sfollate all’interno del Paese, con il 60% delle unità abitative danneggiate e l’80% di tutte le strutture commerciali; 1,1 milioni di persone che hanno raggiunto livelli catastrofici di insicurezza alimentare; mancanza di elettricità, fognature, acqua o reti di comunicazione.
Per quanto riguarda la salute, la maggior parte degli ospedali è fuori servizio con gravi carenze di medicinali e forniture mediche; sono stati segnalati 800.000 casi di infezioni respiratorie acute e 442.000 casi di diarrea acquosa acuta; ci sono 270.000 tonnellate di acque reflue solide accumulate nelle strade. Per quanto riguarda l’istruzione, il 73% di tutte le scuole è stato distrutto, lasciando 625.000 bambini in età scolare senza alcuna istruzione o formazione, senza contare che tutte le università sono state ridotte in macerie. Attualmente ci sono 17.000 bambini non accompagnati, perché sono stati separati dai loro genitori e molto probabilmente sono orfani. Per quanto riguarda gli aiuti umanitari, quelli che arrivano non soddisfano una piccola parte dei bisogni e ciò è stato ulteriormente complicato dalla chiusura del valico di Rafah dall’Egitto. Queste semplici statistiche dipingono un quadro molto desolante dello stato attuale delle cose a Gaza, ma sono solo una parte della storia. Le tragedie umane di cui veniamo a conoscenza quotidianamente, tra cui le operazioni di amputazione senza anestesia, sono semplicemente troppo da sopportare. L’umanità è perduta a Gaza!
La situazione in Cisgiordania non è meno disastrosa, con la disoccupazione che ha raggiunto livelli record, stimati al 45%, senza che ci siano speranze di ripresa delle attività per rilanciare l’industria del turismo e dei pellegrinaggi, né di una svolta per il ritorno dei lavoratori palestinesi ai posti di lavoro in Israele, né del rilascio di entrate fiscali all’Autorità Palestinese per consentirle di pagare gli stipendi ai suoi dipendenti pubblici. Le condizioni economiche della maggior parte delle famiglie sono gravemente peggiorate negli ultimi mesi e i risparmi messi da parte in vista di un giorno buio per la maggior parte delle famiglie si sono esauriti con il passare del tempo. Un ulteriore fattore di complicazione è stata la violenza incontrastata dei coloni, che ha reso insicure molte strade della Cisgiordania, per non parlare dei crescenti attacchi e dei massicci accaparramenti di terre. I posti di blocco sono diventati insopportabili, come ho potuto constatare di persona qualche giorno fa. Dopo aver partecipato a una riunione a Ramallah, per tornare a Gerusalemme, un tragitto di 16 chilometri, ci sono volute più di 4 ore! Non posso che essere solidale con le persone che devono fare questi viaggi ogni giorno!
Per quanto riguarda il nostro lavoro alla LPJ, dato l’alto livello che Sua Beatitudine ha fissato per tutti noi, tutti i dipartimenti stanno lavorando duramente per essere di supporto alle nostre comunità sofferenti, sia a Gaza che in Cisgiordania. A Gaza, la priorità continua a essere quella di sostenere il sostentamento di tutti i rifugiati sotto le nostre cure presso il complesso parrocchiale della Sacra Famiglia, nonché della nostra Chiesa ortodossa sorella e dei vicini musulmani. Ciò ha comportato un’adeguata fornitura di cibo, acqua, medicinali, oggetti personali e carburante a circa 1.000 persone su base giornaliera. È stata un’impresa enorme, data la mancanza di forniture umanitarie, soprattutto nel nord, e la necessità di acquistare i rifornimenti a prezzi del mercato nero che sono 10-20 volte superiori ai prezzi normali prima della guerra. In Cisgiordania, oltre a continuare il sostegno umanitario puro, compresi i buoni pasto, il sostegno agli affitti e alle utenze, il sostegno medico e il sostegno alle tasse scolastiche, che ha raggiunto oltre 12.000 beneficiari, l’attenzione si è concentrata sui programmi di creazione di posti di lavoro, compresi gli stage, i programmi di pagamento in cambio di lavoro e i progetti generatori di reddito. Ad oggi sono state create centinaia di opportunità di lavoro per migliaia di persone. Grazie ai generosi finanziamenti di molti donatori eccezionali, continueremo questi programmi per i prossimi mesi, beneficiando molte istituzioni lungo il percorso in cui vengono collocati gli stagisti o realizzati i progetti, tra cui case di riposo, scuole, orfanotrofi e altri fornitori di servizi.
Una volta terminata la guerra, la Chiesa ha grandi sogni non solo di ristabilire le sue istituzioni e i servizi che forniva prima della guerra, ma potenzialmente di espandere tali servizi in altre aree dove il bisogno è maggiore. Il recente Memorandum d’intesa firmato con il Sovrano Ordine di Malta mira a fornire cibo e assistenza medica salvavita alla popolazione di Gaza. Altre partnership sono in fase di esplorazione per consentire alla Chiesa non solo di ripristinare le sue precedenti operazioni a Gaza, ma anche di espandere tali servizi per aiutare a soddisfare i bisogni sconcertanti e contribuire alla ricostruzione della comunità di Gaza.
Il ritorno di p. Gabriel Romanelli, parroco di Gaza, dopo essere rimasto fuori per oltre sette mesi, porterà il necessario sostegno all’eroico lavoro dei religiosi già presenti, ma anche nuova energia ed entusiasmo per il nostro lavoro in loco, con l’attenzione e la priorità data alla ripresa del processo educativo per i nostri studenti dopo aver perso un anno scolastico. Le nostre preghiere e i nostri migliori auguri vanno a p. Gabriel e a p. Yousef, che da soli si sono sobbarcati il peso del lavoro finora, nonché alle Suore del Verbo Incarnato e alle Figlie della Carità che hanno sostenuto eroicamente i nostri fratelli e sorelle.
Un enorme ringraziamento a tutti coloro che hanno sostenuto il nostro lavoro collettivo con il vostro supporto finanziario, ma soprattutto con l’incoraggiamento, la solidarietà e soprattutto le vostre preghiere.
Non avremmo potuto farlo da soli e ci auguriamo di continuare a collaborare. Speriamo che ritorni un po’ di sanità mentale e che questa brutta guerra finisca presto, in modo che l’umanità e la dignità siano restituite alla nostra regione e che alla fine prevalgano la giustizia e la pace!

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Il Patriarca Pizzaballa a Gaza: il racconto di ciò che ha visto

Nell'ultimo nostro scritto comunicavamo la visita di Mons. Pizzaballa, patriarca della chiesa latina a Gerusalemme, alla piccola comunità cattolica che vive nella striscia di Gaza.
Una visita ottenuta dopo molte richieste e molto lavoro diplomatico e frutto anche della fiducia che la piccola comunità cattolica gode in quella terra.
Qui il Patriarca racconta ciò che ha incontrato e visto.

(foto: visita del Patriarca Pizzaballa a Gaza, maggio 2024)


Tutto è distrutto, ma la comunità cristiana riesce a vivere»

«Sono entrato a Gaza tante volte in questi anni: due o tre volte all’anno, si andava per Natale e d’estate in diverse occasioni. Questa volta, entrando, il primo impatto è stato immediato: era difficile capire dove ti trovavi, tutto era distrutto, le strade non erano più le stesse, si doveva fare lo slalom fra le rovine, era molto difficile distinguere i luoghi con i quali avevo una certa familiarità, erano irriconoscibili. Una cosa così credo di averla vista solo nel 2015 ad Aleppo. La distruzione è questo: un impatto immediato, che ti lascia senza parole. Anche quelli che erano con me erano impressionati, abbiamo fatto la strada in silenzio, su auto scassate, tra mucchi di rovine e immondizia. Sono andato lì non solo per vedere cosa si poteva fare dal punto di vista degli aiuti umanitari, ma come pastore: è necessaria una presenza. Certo bisogna fare, non solo aspettare che la guerra finisca, fare non solo per la nostra comunità cristiana».

Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei latini, racconta così ad alcuni giornalisti e amici la sua esperienza a Gaza. «Non è una conferenza stampa», ci ha detto subito, piuttosto un incontro per condividere quello che ho visto.

«Hanno perso tutto»
E quello che ha visto è una piccola comunità cristiana, cattolici e ortodossi che vivono insieme, cucinando una volta al giorno su grandi pentoloni il poco cibo che riescono a trovare. Il fuoco viene acceso con la legna: «Di legna ce ne è tanta perché i combattimenti hanno distrutto mobili e infissi». La scuola cattolica, il compound ortodosso, il convento delle suore sono stati trasformati in grandi magazzini dove è stipato tutto quello che può essere utile. «Non c’è nemmeno un angolo libero e, ovviamente, pochissima privacy, le famiglie dormono nelle aule. Ho trovato una comunità stanca dopo sette mesi di vita in condizioni molto fragili, molto povere, manca tutto, hanno perso tutto, a cominciare dalle loro case e dal lavoro».

Il cardinale è sorpreso dalla capacità di resilienza («oggi è una parola molto usata, ma lì si capisce davvero») dei suoi fedeli.
«Pure se stanchi, li ho trovati molto organizzati, come fossero tornati ai tempi delle prime comunità».
Pizzaballa sembra pensare al racconto degli Atti degli apostoli, quando i discepoli organizzarono la comunità dei credenti che era «un cuor solo e un’anima sola».

«Fanno da mangiare per tutti, lo stesso cibo per tutti. C’è un comitato per il cibo e uno per le pulizie. Nonostante tutto, al di là della stanchezza, non sono rinunciatari, guardano al futuro e sono preoccupati per i bambini, per la scuola. Non ho sentito una parola di risentimento, di rancore, nulla di tutto questo. Mi ha colpito, oltre al desiderio di tutti che la guerra finisca, sentire dai giovani ma anche dagli anziani, non in maniera coordinata, ma parlando spontaneamente con loro, uno per uno, il fatto che ripetessero: “Noi non abbiamo la violenza nel sangue, non riusciamo a capire tutto questo”. È Il segno che la comunità è riuscita a vivere, pur in quella situazione. Con l’Ordine di Malta abbiamo cercato di organizzare quello che si può fare, individuare i beni di prima necessità, perché qualcosa ora arriva, ma il problema è la distribuzione. Bisogna organizzarla nel modo più ordinato possibile. Poi la sanità: in tutto il Nord di Gaza c’è solo un ospedale operativo, che non è sufficiente».

Cresima tra le macerie
«I cristiani vivono insieme, condividono tutto, sono aperti e danno ospitalità a fedeli musulmani, questo ecumenismo della sofferenza è un messaggio per tutta la Chiesa?», gli chiedo. «I cattolici latini a Gaza – risponde – erano circa 140 su 700, gli altri erano ortodossi. Ora, in tutto, ne sono rimasti 500, ma nessuno chiede chi è latino, chi è greco, non solo in Gaza, ovunque in questa terra, lo possono confermare i vescovi che sono qui. Spero che questo modello possa diventare comune in altre parti, nella vita della Chiesa. Noi non siamo solo una Chiesa che dovrebbe ricevere aiuto per la gente di Gaza, noi possiamo dare agli altri, questo è il punto».

«Io posso parlare ora solo di quello che ho visto», continua. «Non ho la visione di tutta la Striscia, posso dire che al Nord, rispetto al periodo prima di Natale, la situazione è migliorata, questo va detto. Il che non vuole dire che è buona. Certo, manca cibo fresco, poche vitamine, la popolazione ne risente. Ho visto assembramenti dove c’era la distribuzione dell’acqua e del cibo. Credo che il problema principale ora sia una corretta distribuzione sul territorio».

Il cardinale ha amministrato la Cresima a tre bambini: «Un segno bello, la comunità era contenta, si è capaci di gioire anche delle cose più semplici, delle cose essenziali, non c’è spazio per gli orpelli».

Il futuro non lo conosce nessuno, ma una cosa è evidente: «La popolazione sarà totalmente dipendente da fuori, l’aspetto dell’aiuto umanitario è essenziale, non soltanto per il cibo, ma bisogna pensare a tutti gli aspetti della vita sociale. Come? Con chi? Credo che dovrà essere una preoccupazione della cosiddetta comunità internazionale, anche se francamente non ho mai capito chi sia la comunità internazionale… però sarà necessario, per avere un coordinamento nel territorio. Adesso c’è una disponibilità umanitaria, ma poi bisogna pensare alla ricostruzione. Sono tante le questioni rimaste sospese, ma in questo momento non c’è lo spazio per parlarne: la prima cosa è cessare le ostilità».

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

La pace è un dovere.
Da Trieste l’appello delle Associazioni cattoliche

Acli, Agesci, Azione cattolica, Comunione e liberazione, Sant’Egidio, Mcl, Movimento per l’unità, Rns e Aidu firmano un documento inviato ai candidati per l’UE

Nella sezione Problemi del Sito abbiamo pubblicato un intervento di M. Borghesi dal titolo: “Un pensiero cattolico non può lasciare solo il Papa nella sua difesa della pace”.
In quella Sezione stiamo trattando della irrilevanza culturale dei cattolici di fronte ai grandi temi che attraversano la società di oggi ed è quindi importante, secondo noi, sottolineare questa convergenza e unità di tutte le associazioni cattoliche proprio sul grave e drammatico problema della guerra: una unità che può avere un peso culturale e politico proprio perchè l'appello è indirizzato ai Grandi della Terra ma anche ai candidati al Parlamento di Strasburgo.

E' quindi con grande soddisfazione che pubblichiamo questo documento che arriva da Trieste, dove si terrà a luglio la Settimana Sociale dei cattolici, un documento importante, quasi storico.
I leader di tutte le associazioni e movimenti cattolici italiani, Azione Cattolica, Comunione e Liberazione, Agesci, Acli, Sant’Egidio, Movimento per l’unità, Rinnovamento nello Spirito e Movimento Cristiano dei Lavoratori, prendono un impegno comune per la pace, tutti insieme dicono cose molto significative sulle drammatiche crisi presenti e le guerre in corso, dalla Terra Santa all’Ucraina.
Sulla scia del magistero e degli appelli di papa Francesco le associazioni ricordano che “la guerra non è mai stata la soluzione dei conflitti e delle tensioni tra popoli e nazioni, ma ha sempre causato morte e sofferenza per tutti e in particolare per i più deboli, che pagano e pagheranno sempre il prezzo più alto”.
La guerra è una sconfitta del diritto e della comunità internazionale e dell’umanità intera”.
Oggi più che mai, la politica è la più alta forma di carità se persegue la pace”.

Ma c’è un passaggio del testo che merita una sottolineatura:
La Pace è il dovere della politica. Un ostinato e creativo dovere”.


Il testo integrale dell’appello di Trieste per la pace

Ci siamo incontrati in questi giorni a Trieste per riflettere sul tema della prossima Settimana Sociale, dal titolo “Al cuore della democrazia”, e abbiamo condiviso l’urgenza di rivolgere insieme un appello accorato per la Pace ai leader dei governi, ai rappresentanti delle istituzioni e in particolare a coloro che si candidano a guidare l’Unione Europea. Emerga con decisione un impegno condiviso per una Pace fondata sul riconoscimento dell’infinita e inalienabile dignità della persona.

Solo pochi giorni fa papa Francesco ha ribadito in modo inequivocabile: “Non dimentichiamoci delle guerre. Preghiamo per la pace.
La guerra è sempre una sconfitta, sempre!”.

La guerra non è mai stata la soluzione dei conflitti e delle tensioni tra popoli e nazioni, ma ha sempre causato morte e sofferenza per tutti e in particolare per i più deboli, che pagano e pagheranno sempre il prezzo più alto.

La guerra è una sconfitta del diritto e della comunità internazionale e dell’umanità intera. Conflitti imperversano alle nostre porte, in Ucraina, in Terra Santa e in tanti altri posti del mondo, con armi sempre più potenti e dagli effetti devastanti per le persone e per l’ambiente. In questa ora così terribile per il mondo sentiamo di essere chiamati a una conversione profonda e a dare un giudizio comune e chiaro: la Pace è il dovere della politica. Un ostinato e creativo dovere.

L’Unione Europea, sognata sulle macerie della guerra, costruita sull’utopia della pace, ha un ruolo decisivo. E tutti noi ci sentiamo responsabili dell’eredità di politici europei, credenti e non, che hanno anteposto la vita e le ragioni che uniscono dinanzi a ciò che divide. Lo ha ricordato recentemente anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Il mondo ha bisogno di pace, stabilità, progresso, e l’Unione europea è chiamata a dare risposte concrete alle aspirazioni di quei popoli che guardano al più imponente progetto di cooperazione concepito sulle macerie del secondo conflitto mondiale”.

Per questo facciamo appello alle forze politiche e a chi si candida alle imminenti elezioni europee perché si assuma esplicitamente la responsabilità di porsi come interlocutore per la Pace, proponendo senza riserve la via diplomatica e della vera politica.

Non possiamo rassegnarci al fatto che la retorica bellicistica e la non-cultura dello scontro invada la nostra vita dalle relazioni personali alle relazioni sociali e politiche. Continueremo a impegnarci sul terreno educativo e formativo, nella solidarietà concreta verso i più deboli e le vittime delle ingiustizie, nel dialogo per il bene comune con le donne e gli uomini di buona volontà.
Oggi più che mai, la politica è “
la più alta forma di carità” se persegue la Pace.

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”


Dio è Misericordia

Nel nostro ultimo scritto accennavamo come la “guerra giusta”, da sempre riconosciuta come legittima dalla Chiesa, sia stata posta in discussione dall'insegnamento di papa Francesco che ha coraggiosamente definito “pazzia” la guerra, ogni guerra.
Una svolta che potrebbe esporsi a fraintendimenti: qualcuno può obiettare che il Papa sta rinunciando a quei criteri che da sempre nella tradizione ecclesiale consentivano di distinguere fra aggressore ed aggredito, tra carnefice e vittima, tra buono e cattivo e quindi ai relativi diritti/doveri della legittima difesa.
Se si guarda a fondo il pensiero di Bergoglio ci si accorge che con il termine “pazzia” papa Francesco vuole denunciare con forza che nella guerra moderna si è ormai persa ogni misura, ogni proporzione, ogni distinzione: proprio come nella pazzia, non ci si autocontrolla più, non si è più responsabili dei propri atti e inevitabilmente non si è più in grado quindi di rispettare quei criteri che la tradizione ecclesiale e il diritto internazionale pongono come argine alla violenza e alla ferocia.
Non a caso papa Francesco usa il termine “pazzia” in contesti precisi come, per esempio, in udienza generale il 24-9-2022:
Tanti feriti, tanti bambini ucraini e bambini russi sono diventati orfani. La orfanità non ha nazionalità, hanno perso il papà o la mamma. Siano russi, siano ucraini. Penso a tanta crudeltà a tanti innocenti che stanno pagando la pazzia, la pazzia, la pazzia di tutte le parti, perché la guerra una pazzia. E nessuno che è in guerra può dire: "No, io non sono pazzo". La pazzia della guerra”.

Ma sarebbe un errore estrapolare questa frase di Bergoglio per coglierne l'utopistica ingenuità, come se il Papa non fosse in grado di conoscere la storia e l'animo umano.
Basta rileggere le parole del 15-9-2022, di ritorno dal viaggio in Kazakistan, relative all'intervista di un giornalista tedesco che chiede: “noi a scuola impariamo che non si devono mai usare armi, mai violenza, l’unica eccezione è l’autodifesa. Secondo lei in questo momento bisogna dare le armi all’Ucraina?”
Papa Francesco risponde:
Questa è una decisione politica, che può essere morale, moralmente accettata, se si fa secondo le condizioni di moralità, che sono tante e poi possiamo parlarne. Ma può essere immorale se si fa con l’intenzione di provocare più guerra o di vendere le armi o di scartare quelle armi che a me non servono più… La motivazione è quella che in gran parte qualifica la moralità di questo atto. Difendersi è non solo lecito, ma anche una espressione di amore alla Patria. Chi non si difende, chi non difende qualcosa, non la ama, invece chi difende, ama. Bisogna anche [considerare] un’altra cosa che ho detto in uno dei miei discorsi: che si dovrebbe riflettere ancora di più sul concetto di guerra giusta”…”La guerra in sé stessa è un errore, è un errore!... Ma il diritto alla difesa sì, quello va bene, però bisogna usarlo quando è necessario”.

Non vi è in Francesco arrendevolezza, pacifismo ideologico: vi è la preoccupazione  di ribadire "quell'umano che è comune" , quello di essere "Fratelli tutti" perchè figli di un unico Padre; questo è  uno dei punti fermi del Concilio Vaticano II, principio teologico poi ribadito da tutti i Papi successivi: il nome di Dio è Misericordia.

Scrive il prof. Massimo Borghesi: “ Oggi il nome di Dio, nello scenario mondiale, non è misericordia ” e le religioni sono inevitabilmente associate alla violenza e alla guerra, sono alle radici del fondamentalismo, del terrorismo, dell' ideologia identitaria.
Proclamare che il nome stesso di Dio è Misericordia vuol dire scardinare le logiche del mondo

Certo, poi la Chiesa opera con la sua diplomazia, con la sua presenza caritativa, con la sua opera missionaria ma alla radice di tutte queste testimonianze  viene innanzitutto l'annuncio evangelico nella sua essenzialità escatologica.
Qui c'è il cuore stesso del Vangelo da sempre annunciato dalla Chiesa e che oggi va semplicemente riscoperto nella sua estrema radicalità.

Prosegue Massimo Borghesi:
L’associazione tra religione e violenza, che caratterizza il nostro tempo, rappresenta una connessione singolare sia dalla prospettiva religiosa che da quella culturale. Il post-modernismo, per il quale verità e violenza si identificano, era sembrato vincitore. La religione non poteva essere violenta. Per l’ideologia della globalizzazione, la secolarizzazione delle ideologie e delle religioni, dopo l’89, era irreversibile. Ma quello che è accaduto l’11 settembre del 2001 sconfessa questa prospettiva. Non solo la religione torna sulla scena moderna, ma si presenta in modo violento.
È in questo sfondo che comprendiamo il significato del Pontificato di Francesco e della sua visione di Dio, come emerge nell’intervista rilasciata a Tornielli e pubblicata con il titolo Il nome di Dio è misericordia.
Oggi il nome di Dio, nello scenario mondiale, non è misericordia.
È guerra, conflitto. Il Dio dell’Isis taglia le teste.
Il dio dell’occidente, dal 2001, è un dio di potenza, di reazione.
Rimane solo il cristianesimo, solo la Chiesa, solo il Papa a professare la fede nel Dio di misericordia.
Non solo questo Papa, ma anche i precedenti: Giovanni Paolo II scrisse l’enciclica Dives in Misericordia e istituì la festa della Divina Misericordia.
Benedetto XVI, poi, diede inizio al suo magistero con la Deus caritas est. Affermare oggi che Il nome di Dio è misericordia è rivelare il nome di Dio oltre l’islamismo radicale, per una riscoperta del Dio misericordioso presente nel Corano, e anche oltre il nichilismo occidentale, chiuso nella ribellione.
“Resterà solo la carità” affermò profeticamente Romano Guardini.
La nostra epoca, afferma papa Francesco, è un kairos di misericordia, perché questa è un’umanità ferita, che non significa necessariamente corrotta. La corruzione è il peccato elevato a sistema, a modello. Corrotti sono coloro che conducono una doppia vita, quelle persone che Gesù accusa di ipocrisia e che papa Francesco rimprovera aspramente (Cf. Papa Francesco, Meditazione mattutina dell’11 novembre 2013, Peccatori sì corrotti no). Il peccato non è la corruzione, ma la condizione normale dell’uomo. Al peccatore si volge la misericordia, perché Gesù viene per i malati, ma anche perché la misericordia consente al peccatore di sentirsi tale. Riconoscersi peccatori non è affatto immediato, è una Grazia. Nell’intervista rilasciata a Spadaro – imprescindibile per comprendere papa Francesco – alla domanda Chi è lei?, Bergoglio risponde “Io sono uno che è un peccatore e a cui Dio ha guardato con misericordia”.
Una risposta sconcertante, che evoca lo stupore dell’evangelista Matteo, così come rappresentato dal Caravaggio nella tela di S. Luigi dei Francesi, mentre si scopre peccatore proprio perché guardato con misericordia.
La coscienza del peccato è dolore verso qualcuno che si ama. È tristezza. Tristezza, magari, di non sentirsi peccatore. Qui l’operaio dell’ultima ora riceve la stessa mercede dell’operaio della prima ora.
La misericordia vìola la giustizia. Non la sopprime, ma impedisce alla giustizia di chiudersi nel fariseismo. La misericordia fa saltare la burocrazia ecclesiastica, quella che oggi accusa di buonismo papa Francesco, mossa dalla stessa coscienza del figlio maggiore della parabola di Lc 15. Il figlio maggiore è davvero giusto, mentre quello minore è nel torto. Però è tornato dal Padre. Questo, è solo questo che conta per essere abbracciati. Il figlio maggiore segue la legge, ma si autoesclude dall’abbraccio del Padre. È risentito e non sa essere felice per la felicità del fratello. La misericordia è l’opportunità di un nuovo inizio e la Chiesa, per papa Francesco, non può che essere un “ospedale da campo”.
Come è possibile oggi dimostrare che Dio non è violento? Solo mediante gli effetti, ciò che Lui produce. Se l’effetto è una vita buona, non violenta, la causa lo deve essere parimenti.
Questo effetto, però, non è dottrina. È gesto, è vita. Come tale può essere solo narrato. La narrazione degli effetti è la risposta al Dio violento, all’ideologia di potenza, alla morale del risentimento.
Ciò significa che oggi, nel tempo del nichilismo e del fondamentalismo religioso, la testimonianza (di chi è Dio) è l’essenziale.
La testimonianza è misericordia della miseria del mondo, dei miseri e dei miserabili. La misericordia introduce un nuovo volto di Dio e, con questo, una tensione con la giustizia del mondo, che è il vero elemento nuovo della storia. Anche di quella presente”
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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”


Siamo entrati nell’era prebellica

Il titolo non vuole essere allarmistico: è semplicemente una constatazione che si basa su molte dichiarazioni ufficiali delle Cancellerie politiche europee

La guerra in Ucraina durerà ancora a lungo. La mossa di Vladimir Putin di richiamare 147.000 coscritti segnala che lo stesso presidente russo è convinto che il conflitto non si risolverà a breve: il loro addestramento durerà almeno un anno e, anche se le autorità russe hanno assicurato che questi soldati non saranno inviati in Ucraina, tutto spinge a pensare che ben altri siano i calcoli dell’autocrate russo.
Al fianco di Putin il capo della Chiesa ortodossa Kirill che è tornato a parlare di guerra santa.
Mentre la Russia continua ad ammassare truppe, l’Ucraina vive un momento di grande difficoltà. La guerra è in stallo e non riesce a recuperare posizioni e terreno. Le richieste di nuove armi da parte del presidente ucraino Volodymyr Zelensky sono ormai giornaliere, ma è anche ormai chiaro che il sostegno occidentale – che c’è e continua – vive anche di una certa dose di ambiguità. Si vuole sostenere l’Ucraina, ma non fino al punto di precipitare in un conflitto nucleare: è questo un equilibrio sempre più complicato da mantenere e il tempo è un fattore che gioca a favore di Putin. Lui non ha un’opinione pubblica cui rendere conto in quanto qualunque forma di dissenso è violentemente punita e repressa”

.
A questo proposito pubblichiamo nella Sez. Ricerche la testimonianza dell'Arcivescovo russo monsignor Pivovarov.

Gli esperti inoltre segnalano anche l'enorme squilibrio di forze in campo, squilibrio che gioca a favore della Russia.
In media i cannoni russi sparano 10 mila volte al giorno, cinque volte più degli ucraini” scrive il Corriere della Sera mentre le industrie europee faticano a rifornire un numero adeguato di munizioni e armi.
Identico squilibrio si ha soprattutto nel numero di soldati da inviare al fronte.
Lo ha spiegato bene sul quotidiano Il Giornale l'esperto politologo americano Edward Luttwak:


Kiev continua a chiedere ai suoi alleati armi sempre migliori, ma è ormai acclarato che è di soldati che Zelensky ha bisogno. Con il servizio militare solo a partire dai 27 anni – perché le madri ucraine si rifiutano di mandare i loro figli diciottenni nell’esercito come hanno sempre fatto le madri svizzere, finlandesi o israeliane, e con troppi esonerati per un motivo o per l’altro – le forze armate ucraine potrebbero avere meno di 650.000 uomini in tutto, non molto per una popolazione che supera i 27 milioni secondo le stime più basse. Per avere un’idea, Israele ha più o meno lo stesso numero di personale in uniforme con una popolazione di soli 9 milioni. La spiegazione è la sfortunata distribuzione per età della popolazione ucraina, con i bambini e gli anziani più abbondanti rispetto alla fascia di età compresa tra i 19 e i 35 anni, la più utile per un esercito. Tutto ciò significa che, a meno che non decida di porre fine alla guerra, Putin potrà continuare a rinforzare il suo esercito d’invasione. Il quale pian piano farà arretrare le truppe ucraine, che ogni volta perderanno soldati impossibili da sostituire”.

Tutto lascia presupporre un protrarsi indefinito del conflitto e il necessario obbligo di prepararsi alla guerra.
Ecco dunque che il nostro tempo diviene un tempo di preparazione bellica, preparazione di una guerra sempre più probabile, sempre più concreta: una situazione che, peraltro, rischia ogni giorno di allargarsi ulteriormente saldandosi con la guerra in corso in Medio Oriente tra Israele, Hamas e Iran: una situazione che avrebbe conseguenze disastrose anche per chi, come l'Europa, non è direttamente coinvolta nei conflitti.
Come ha detto il presidente polacco Donald Tusk:
dobbiamo abituarci mentalmente all’arrivo di una nuova era. È l’era prebellica. Non sto esagerando. Sta diventando ogni giorno più evidente”. Oramai tutti i Paesi parlano sempre più esplicitamente della necessità di aumentare le spese per il riarmo.

Si comprende allora come le parole di papa Francesco sulla necessità di un negoziato siano meno “ingenue e arrendevoli” di come si sia voluto farle passare.
Si vedono forse altre soluzioni?
Si intravvedono spiragli di pace o di negoziazione?
Esiste un qualche progetto sul 'dopo', sulla realtà che resta dopo un simile conflitto?
Altrimenti resta solo un finale che sembra, giorno dopo giorno, già scritto:
sacrificare ad un nuovo ordine europeo il popolo ucraino giungendo ad una capitolazione dell'Ucraina che altro non sarà che uno sterminato campo di croci.
Il Papa prosegue, pur se voce isolata, la sua invocazione alla pace: pochi condividono il suo appello ritenuto utopico, irreale, illusorio.
Ma il pontificato di Francesco, sulla scia di una evoluzione dottrinale incominciata dal Concilio Vaticano II (1962 – 1965), ha impresso una svolta decisiva alla dottrina della Chiesa sulla pace e la guerra: dalla dottrina della “guerra giusta” si è passati alla guerra come “legittima difesa” ma che è legittima solo a rigorose e precise condizioni che giova riprendere attraverso le parole del parlamentare cattolico Franco Monaco:


Non è un mistero che l’ingresso nell’era atomica, cioè delle armi di distruzione di massa, abbia rappresentato un punto di svolta per il magistero. Fu Papa Giovanni XXIII, con l'enciclica “Pacem in terris”, a inizio anni sessanta del '900, a proclamare che “alienum est a ratione bellum” (la guerra è estranea alla ragione).
Lo stesso “Catechismo universale della Chiesa cattolica”, che ne fissa nel modo più autorevole la dottrina “ufficiale”, enuncia con precisione le condizioni con le quali si può dare legittimità all’esercizio della legittima difesa. Sono cinque: che essa sia dichiarata dall’autorità legittima, che ricorra una giusta causa, che rappresenti a tutti gli effetti una extrema ratio (ovvero che si siano prima esperite tutte le vie politico-negoziali), il principio di proporzionalità (ovvero che il male inesorabilmente arrecato non sia superiore a quello cui si intente porre rimedio) e infine le “chances di successo
”.

Più volte abbiamo già citato questa dottrina ecclesiale sulla guerra che, senza ombra di dubbio, appare oggi totalmente ignorata: la Chiesa, tra l'altro, arriva a dire che una eventuale guerra è ritenuta legittima solo se tutte le condizioni citate vengono rispettate limitando ulteriormente la legittimità di un conflitto.
Ma poi nel definire 'legittima la guerra' entra in gioco anche il fattore 'tempo': come legittimare una guerra che non prospetta una fine , una conclusione? Senza che se ne vedano soluzioni, senza che si mettano in conto il carico di vittime e di distruzioni giustificate solo da una possibile 'chance di successo' ?

E qui riprendo lo scritto di Franco Monaco:


“...spesso si invoca la “pace giusta”. Chi mai potrebbe eccepire? Ma attenzione: per quanto possa suonare spiacevole, per porre fine ai conflitti, spesso (sempre?), la pace in concreto possibile non è la pace integralmente giusta. Essa passa attraverso un compromesso che esige il sacrificio di qualcosa che, in punto di principio e in condizioni ordinarie, non sarebbe giusto sacrificare. Non mi si fraintenda, ma spesso la sola pace possibile è una pace che sconta qualche ingiustizia, intesa la giustizia alla lettera come “dare a ciascuno ciò che gli è dovuto”. So bene che la criteriologia fissata nel magistero della chiesa, di sua natura, sconta un indice di formalità, che quelle cinque condizioni esigono un’opera di interpretazione/implementazione con riguardo ai casi concreti, un prudenziale discernimento pratico-politico (e qui si rimanda ai fatti sopra accennati). Ma forse è il caso di non deprezzare principi e orientamenti maturati attraverso i secoli da una istituzione quale la chiesa cattolica. “Esperta in umanità”, la definiva Paolo VI, e, aggiungiamo noi, con crudo realismo, anche nel giudicare le guerre. Specie in un tempo nel quale, inatteso, si riaffaccia lo spettro dell’autodistruzione dell’umanità, che ho l’impressione i leader mondiali non prendano sul serio quale esito effettivo. Può certamente essere legittimo discutere il punto di vista del Papa. Osservo solo che, tra i suoi critici (non tutti), non è raro imbattersi in chi, trascorsi oltre due anni, si contenta di recitare lo stesso mantra e sembra non porsi il problema di come uscirne. Intanto la tragedia si incancrenisce e, sullo sfondo, sin d’ora, si prospetta non un negoziato ma una capitolazione”.

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

Trattando della guerra e del rischio nucleare, nell'ultimo scritto abbiamo citato un libro, “Il male necessario” (edizioni Orthotes), che descrive uno dei molteplici volti della Modernità, quella prometeica, ovvero la mitica aspirazione umana di rubare alla divinità dell'Olimpo il fuoco in nome della assoluta conquista della libertà che gli “dei” negano all'uomo.
E' il volto del titanismo moderno che ha attraversato il XVIII e il XIX secolo, frequentemente abitato la cultura europea e che, attraverso il Romanticismo e il pensiero di Nietzsche, ha divulgato l'etica del superuomo: un'etica che è arrivata a giustificare il male in quanto necessario al progresso e all'emancipazione dell'uomo:
....sono più di due secoli che la cultura europea accarezza il male, lo blandisce, lo giustifica. Il negativo comunica vertigine, delirio di onnipotenza, emozioni inconfessabili; illumina di bagliori rossastri i sentieri proibiti, gli abissi della notte, le vette ghiacciate. Colora di sé il peculiare titanismo moderno, il mito di Prometeo che, dal Romanticismo in avanti, attraversa la cultura europea. Il volume mette a fuoco il modello etico che sta alla base dell’idea di superuomo: quello che sorge dalla mescolanza di luce e tenebre, bene e male, Dio e il diavolo. Il manicheismo nuovo non teme il negativo. Memore del patto di Faust lo utilizza come impulso per arricchire la vita, la potenza, il progresso. Sarà Hegel, con la sua dialettica, a consacrare il patto con il Serpente, a siglare l’idea, destinata ad avere grande fortuna, per cui il bene può sorgere solo “attraverso” la mediazione del male. Il male – ed è la prima volta che ciò accade – diviene ora necessario”.

Quella del filosofo Massimo Borghesi è una riflessione che evidenzia come il problema della guerra, con tutto il suo bagaglio di atrocità e violenze, è un problema che va ben al di là delle singole guerre passate o attuali: il problema della guerra è anche e soprattutto antropologico e culturale perchè riguarda i fondamenti dell'essere umano e la sua innata “volontà di potenza”.
Il problema della guerra riguarda lo scandalo del male sempre presente nella storia umana.

Del libro “Il male necessario” del filosofo Massimo Borghesi ne riprendiamo un capitolo.


Il male necessario”: l’errore (romantico) di voler andare in Cielo attraverso l’Inferno

Massimo Borghesi, filosofo e saggista

“Sono più di due secoli che la cultura europea accarezza il male, lo blandisce, lo giustifica. Il negativo comunica vertigine, delirio di onnipotenza, emozioni inconfessabili; illumina di bagliori rossastri i sentieri proibiti, gli abissi della notte, le vette ghiacciate. Colora di sé il peculiare titanismo moderno, la provocatoria sfida che esso lancia all’Eterno. Se il Faust antico, quello di Marlowe, si pente in punto di morte, quello posteriore vive dell’oltraggio, brama la dissoluzione.
Il patto col serpente, come titola Mario Praz uno dei suoi ultimi volumi, diviene ora stabile. Il serpente, il tentatore, appare nelle vesti del liberatore, di colui che solleva l’uomo al di là del bene e del male, al di là della “legge”, al di là del Dio antico, nemico della libertà. Gli ultimi duecento anni riscoprono “il principio liberatore del mondo [affermato] dalla setta degli Ofiti”, principio intravisto, secondo Gershom Scholem, dalla concezione sabbatiana con il suo Messia consegnato ai “serpenti”. Principio riaffermato da Ernst Bloch nel suo Ateismo nel cristianesimo dove il Cristo-serpente libera il mondo dalla tirannia di Jahvè.
Anche Goethe, secondo Vittorio Mathieu, “aveva sentito parlare della setta degli ofiti”. Nel suo Goethe e il suo diavolo custode Mathieu osserva come nel Faust Mefistofele è la “forza che fa emergere dalla tenebra il positivo dell’uomo”. Come afferma Dio, rivolto a Mefistofele nel “Prologo in Cielo”:

Non hai che da mostrarti, liberamente, quello che sei; non ho mai odiato i tuoi pari; di tutti gli spiriti che negano, il beffardo è quello che mi dà noia minore. L’attività dell’uomo si affloscia troppo facilmente ed egli si adagerebbe con piacere in un assoluto riposo. Perciò gli metto volentieri accanto un compagno che lo sproni, ed agisca, e deve, come diavolo, creare”.

Il diavolo è posto volentieri (gern) da Dio come collaboratore dell’uomo. Come notava Mircea Eliade, “si potrebbe parlare di una simpatia organica tra il Creatore e Mefistofele”. Goethe fa di Mefistofele, del male, la molla che muove verso l’azione (Tat), verso ciò che è positivo. Si tratta dell’idea, destinata a percorrere molta strada, per cui la via verso il Cielo passa attraverso l’Inferno. L’uomo diventa uomo, vivo, intelligente, libero, solo assaporando fino in fondo l’amaro della vita. L’innocenza dell’“anima bella” è, al contrario, inerzia, stasi, morte. Hegel, con la sua dialettica del negativo, darà una sontuosa veste teorica a quest’idea. L’uomo deve peccare, deve uscire dall’innocenza naturale per divenire Dio. Egli deve realizzare la promessa del Serpente: deve conoscere, come Dio, il bene e il male. Questa conoscenza è, come abbiamo già ricordato, “l’origine della malattia, ma anche la sorgente della salute, è la coppa avvelenata nella quale l’uomo beve la morte e la putrefazione, e nello stesso tempo il punto sorgivo della riconciliazione, poiché porsi come cattivo è in sé il superamento del male”.

Attraverso questa prospettiva la figura dell’Angelo ribelle, di colui che, provocando l’uomo, lo innalzerebbe alla sua libertà, rifulge di uno splendore nuovo. Mefistofele diviene, passo dopo passo, l’eroe, il Prometeo moderno, il liberatore. Da Byron a Vigny la “mitologia satanica” elabora la figura di un “angelo del male”, ribelle e vendicatore, le cui premesse risalgono indietro nel tempo. Giustamente Mario Praz, nel suo La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, l’opera a tutt’oggi più interessante sul fascino del demoniaco nella letteratura dell’800, indica l’inizio di questo processo nella peculiare caratterizzazione di Satana offerta da Milton nel suo Paradiso perduto. “Fu Milton a conferire alla figura di Satana tutto il fascino del ribelle indomito che già apparteneva alle figure del Prometeo eschileo e del Capaneo dantesco”.
L’Avversario “diventa stranamente bello”.
Come scriveva Baudelaire: “le plus parfait type de Beauté virile est Satan – à la manière de Milton”. Al suo confronto, osserva Harold Bloom, “il Dio di Milton è una catastrofe”, così come il Cristo il quale “è un disastro poetico nel Paradiso perduto”.
Per Blake: “Milton era impacciato scrivendo di Dio e degli Angeli, e a suo agio scrivendo dei Demòni e dell’Inferno, poiché egli era un vero Poeta, e dalla parte del Demonio senza saperlo”. Giudizio, questo, perfettamente condiviso da Shelley per il quale: “Nulla può superare l’energia e lo splendore del carattere di Satana quale si trova espresso nel Paradiso perduto … Il demonio di Milton come essere morale è di tanto superiore al suo Dio”.

Così grazie a Milton, alla sua rielaborazione mitica, Satana fa il suo ingresso nell’immaginario moderno. Si ha quella che Praz chiama, nel secondo capitolo del suo volume, “Le metamorfosi di Satan”, il suo trapassare da figura negativa a eroe positivo: il ribelle triste, privato, come l’uomo, della sua felicità paradisiaca da un dio tiranno. Nel suo studio Praz documenta, con grande perizia, autori e correnti che fanno propria la mitologia satanica. Se nel 700 “il Satana miltonico trasfuse il suo fascino sinistro nel tipo tradizionale del bandito generoso, del sublime delinquente”, è nell’800, nella temperie romantica, che egli diviene il ribelle, l’espressione della rivolta metafisica, del “no” alla creazione.
Fu Byron “a portare a perfezione il tipo del ribelle, lontano discendente del Satana di Milton”. Con lui il ribelle diviene lo “straniero”, l’uomo impenetrabile che trascende l’ordinario modo di sentire, che trascende i suoi stessi delitti. È l’oltre-uomo che sta più in alto e al contempo più in basso degli altri uomini. È l’infelice che si nutre di risentimento verso un dio crudele del quale imita la crudeltà.
La teologia di Byron è la stessa di De Sade la cui opera, secondo Praz, ha una influenza fondamentale nella letteratura romantica. Al centro v’è l’odio verso la creazione e il suo autore, l’esaltazione del piacere e del crimine come dileggio, profanazione, oltraggio. Siamo qui di fronte, secondo Praz, ad un “satanismo cosmico”. La sua influenza è enorme. Se la natura crea solo per distruggere, assecondare la natura è ripeterne il ritmo, il piacere della distruzione, il gusto (sadico) che fa sorgere il piacere dal dolore, il delirio dall’annientamento, il divino dal diabolico.
È la pittura di Delacroix. “Quel pittore ‘cannibale’, ‘molochista’, ‘dolorista’ che fu Delacroix, instancabilmente curioso di stragi, d’incendi, di rapine, di putrideros, illustratore delle scene più cupe del Faust e dei poemi più satanici del suo idolatrato Byron; quell’innamorato di felinità […] e dei paesi violenti e calorosi”.
È la poesia di Baudelaire, nutrita di Poe e di Sade, il cui pessimismo cosmico è più simile all’eresia manichea che alla religione cristiana: “Absolu! Résultante des contraires! Ormuz et Arimane, vous étes le même!”. È la narrativa di Flaubert per il quale “Néron vivra longtemps que Vespasien, Satan que Jésus-Christ”.
Dei Canti di Maldoror di Lautréamont, il quale confessa di aver “cantato il male come hanno fatto Mickiewicz, Byron, Milton, Southey, A. de Musset, Baudelaire”.
Di Swinburne che, avvinto dalla teologia gnostica di Sade, declama il suo uomo in rivolta:
“… potessimo ostacolare la natura, allora sì il delitto diventerebbe perfetto e il peccato una realtà. Se l’uomo potesse far questo, se egli potesse intralciare il corso delle stelle e alterare il tempo delle maree; se potesse cambiare i moti del mondo e trovar la sede della vita e distruggerla; se potesse entrare in cielo e contaminarlo, nell’inferno e liberarlo dalla soggezione; potesse trar giù il sole e consumare la terra, e ordinare alla luna di spargere veleno o fuoco nell’aria; potesse uccidere il frutto nel seme e corrodere la bocca del pargolo col latte di sua madre; allora si potrebbe dire d’aver peccato e d’aver fatto del male contro natura”.

Distruzione e profanazione: questo è il piacere più grande. Un filone consistente della letteratura, a partire dal romanzo libertino del 700, gode della profanazione. La violazione appassiona in quanto trasgressione, oltraggio. Il corpo, quello della donna, è tanto più oggetto del desiderio quanto più esso è inerme (bambina, vergine, suora). Profanarlo è togliere la trascendenza, ricondurre alla terra, svelare il volto oscuro di Eva, l’eterno femminino da sempre legato al potere di Satana. Il demoniaco mescola il puro e l’impuro, ha bisogno dell’innocenza per eccitare le passioni, per destare la forza dirompente del negativo. Con De Sade l’eros diviene parte di una teologia gnostica. Dopo di lui il connubio tra Eros e Thanatos, amore e morte, diviene l’elemento dominante di un nichilismo luciferino che trova nel Decadentismo prima e nel Surrealismo poi il suo compimento.

L’idea di fondo è che la redenzione passa attraverso la degradazione, la grazia tramite il peccato, la vita attraverso la morte, il piacere mediante il dolore, l’estasi per opera della perversione, il divino mediante il diabolico. Il fascino che il negativo – metafora del demoniaco – esercita sulla cultura degli ultimi due secoli dipende da questa singolare idea: che le vie del Paradiso passino attraverso l’Inferno, che “Discesa all’Ade e resurrezione” siano uno. Consegnarsi al demonio, in una singolare trasposizione gnostica dell’idea per cui perdersi è ritrovarsi, è aprirsi a Dio. In questo “sacro” connubio Satana e Dio si uniscono nell’uomo. È l’“identità di Sade e dei mistici” auspicata da Georges Bataille. Per essa la via all’ingiù coincide con la via all’insù. Faust, ora, non può più pentirsi, nemmeno in punto di morte. L’Avversario è diventato complice, “parte” di Dio. È la via per divenire dio. Il brivido del nulla, della discesa agli Inferi, accompagna la scoperta dell’Essere, di Abraxas, il pleroma senza volto che permane, immobile, nel divenire del mondo.

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

In questa sezione continuiamo a tornare con crescente preoccupazione, quasi addirittura con ostinazione, a parlare della guerra. Nel nostro ultimo intervento abbiamo ripreso le parole di Papa Francesco rilasciate in una intervista alla televisione elvetica molto chiacchierata. In essa, l'intervistatore aveva in una sua domanda usato l'espressione “bandiera bianca”. Con coraggio, ma soprattutto con forte preoccupazione pastorale, il Papa ha ripreso l'espressione per dare a essa una precisa colorazione. Le ha tolto il contenuto inaccettabile di resa militare per imprimere a essa le fattezze umane, estremamente ragionevoli, di bloccare l'uso delle armi per passare all'arte di una fattiva diplomazia, capace di sostituire ad azioni distruttive e mortali interventi costruttivi e vitali. Non chiedendo, quindi, una sorta di resa incondizionata militare dell'Ucraina, il Papa rinnovava una ennesima volta l'urgenza di ricomporre il conflitto dando finalmente vita a interventi seri e illuminati capaci di bloccare una volta per tutte la violenza.
Il Papa ha parlato indicando con lucidità in quale punto di collocazione morale ci si deve porre per elaborare discorsi realmente sensati sulla questione. E, lui, non solo lo ha indicato. Lo ha concretamente fatto proprio. Per questo, il Papa ha parlato collocandosi all'interno del perimetro esistenziale di chi è obbligato, senza averne la minima colpa, a marcire nei disgustosi contesti quotidiani propri di folle crescenti di persone ridotte a sperimentare il dramma di fame, sangue, terrore, povertà estrema e irrimediabile. Gente obbligata a restare a mollo in forme di angoscia tremende perché il domani si sa che giungerà peggiore dell'oggi, già disumanamente durissimo. Entrando in questi contesti esistenziali, il Papa trova il protrarsi della guerra semplicemente allucinante. Per questo lo respinge e lo rifiuta. E lo fa non semplicemente per discutere. Lo fa per cercare di difendere folle impressionantemente larghe di persone votate a un disastro che è, al tempo stesso, orrendo e insieme gratuito. Perciò assolutamente inutile.
Ma parlare di tutto ciò è giudicato insopportabile da chi si colloca in altri contesti esistenziali. Per intenderci, quelli per i quali la guerra diventa fonte di guadagni ingenti, facili, immediati. Essendo insopportabile, le affermazioni del Papa vanno bloccate, in particolare con polemiche ovvie e scontate. Ciò è avvenuto più volte. Anche in passato. Così, quando Papa Francesco parla di criticità sollevate dalla guerra seguono poi, quasi automatiche, rumorose critiche preoccupate di ridimensionare o silenziare le parole del Pontefice.
Anziché fermarsi sul serio e mettersi a riflettere in modo ponderato, ci si agita. Si fa crescere la permalosità. Si scatenano le dietrologie. Si deformano i discorsi indigesti per potere farli apparire illogici e irrazionali quando, al contrario, sono gli unici a essere realmente razionali perché sono gli unici a restare umani. Intanto le diplomazie si ritrovano regolarmente impantanate nel nulla di fatto.
Le cronache della stampa raccontano di una Russia che guadagna terreno e di un Ucraina esangue, priva di uomini e armi, preoccupantemente abbandonata a se stessa. Difesa più a parole che non con fatti. Esposta al rischio di dovere soccombere a Putin che ha scatenato una guerra micidiale e, con essa, ha dato vita a devastazioni immani e a brutalità assatanate. Contestualmente, le cronache invitano poco e male a riflettere sulla necessità non tanto di affermare il valore ideale del cosiddetto ordine mondiale, quanto piuttosto di mettersi faticosamente a costruirlo di fatto. Giorno dopo giorno. Zona dopo zona. Popolo dopo popolo. L'ordine viene reso impunemente un concetto su cui dibattere, anziché diventare un concreto modo di vivere da realizzare nei fatti, mettendo da parte le chiacchiere sterili.
Ma, qui, ancora una volta emerge il punto che il Papa cerca in ogni modo di portare in primo piano e, proprio per questo, è attaccato. Lo possiamo esprimere con le parole di questa domanda: in questo contesto complessivo di vita quali sono i veri interessi in gioco? Si può aggiungere: le parti quali interessi stanno difendendo sacrificando di continuo vite umane in cifre inimmaginabili? Il sangue di innocenti conta ancora qualcosa o non conta più nulla?
Ponendosi di fronte a questi interrogativi, il Papa afferma che è giunto il momento di trovare la forza e il coraggio di pronunciare l'unica parola che rimane ancora sensata: basta. Ma quando il polverone viene sollevato all'infinito, la foschia si fa totale. Così, la confusione procede inarrestabile e ingigantisce di ora in ora. A questo punto, l'unica parola sensata rimasta a disposizione appare come la più insensata di tutte.

Dunque questa guerra, prima o poi, finirà.
Ma come finirà?
Chi la farà finire?
La sua fine servirà a qualcosa di umano?
Verrà davvero smascherato il volto assurdo della morte usata come sporco deterrente?
Distruzioni e violenze avranno finalmente di fronte a sé argini importanti e invalicabili?
Le spirali della violenza diminuiranno o cresceranno?
Esistono ancora disegni di pace?
Soprattutto, esistono uomini capaci di renderli realtà a partire da chi non si sa difendere da solo?
Papa Francesco verrà preso sul serio? Ci si metterà a riflettere fattivamente sulle sue parole?

Ribadiamo che Papa Francesco continua a partire da una precisa premessa: la vita umana è il valore supremo davanti al quale non può e non deve essere posto un qualsiasi altro valore. Perciò, il compierlo è, di per se stesso, già un crimine.
Ne viene che, se si deve prendere in considerazione la necessità di decidere sacrifici, il sacrificio non deve riguardare la vita. Certo, una persona può liberamente scegliere di sacrificare la propria per il bene altrui. Nessuno, però, può arrogarsi il potere di decidere arbitrariamente di sacrificare la vita altrui. Può, al limite, chiederlo. Mai però imporlo, sopprimendo così la libertà altrui.
Ha inoltre ragione Papa Francesco di continuare a ricordare a tutti che la morte è la fine della vita. Ribadire che, con la morte, ogni istanza cade nel nulla e ogni progetto diventa una nube che evapora e sparisce nel nulla. Giustamente Papa Francesco invita allora a rendersi conto in modo lucido che la morte equivale sempre a una condizione di non ritorno.
Alla pari, Papa Francesco giustamente afferma che ogni ridimensionamento della libertà crea automaticamente sottomissione, prigionia, schiavitù. E, chi piega la coscienza a difese surrettizie di valori dubbi o, addirittura, sporchi attacca la libertà propria e altrui. Magari riesce a nasconderlo per un qualche tempo. Prima o poi il suo gioco viene però allo scoperto. Purtroppo, allora, volenti o nolenti ci si ritrova dentro le forme della guerra: ora militare e ora economica. Ci si ritrova incastrati. Obbligati. Schiavi. Privati di vita libera, serena, creativa.

Senza piaggeria e senza immergerci in partiti presi, ci ritroviamo sempre più convinti che il Papa è forse l'unico leader mondiale che si preoccupa seriamente della condizione reale e concreta di vita in cui si dibattono ogni giorno singole persone o popoli. In concreto, lui preferisce mettere questo genere di preoccupazione costantemente e onestamente davanti ai generi di preoccupazione tipici dell’industria degli armamenti o degli affari collegati alla cosiddetta ricostruzione. Preoccupazioni dettate dalla brama di affari economici, sempre del tutto insensibili a una seria riparazione dei danni umani diventati montagne di dolore.

Ancora una volta, non ci resta che ribadire la primalità di questi i valori, sempre perfettamente consapevoli che la guerra prima li mette in discussione e poi li distrugge.
Ci uniamo pertanto a Papa Francesco. Ostinatamente invochiamo, auspichiamo, preghiamo per la pace in un mondo che ormai sembra legittimare ogni guerra e ogni arma. Perfino l'arma nucleare.


L’anno dello sdoganamento della bomba atomica

di Alessandro Banfi, giornalista

Adesso che Oppenheimer ha dominato gli Oscar, sappiamo che questo 2024 è davvero l’anno dello sdoganamento della bomba atomica. Nello stesso periodo in cui i potenti della terra, a cominciare da Vladimir Putin per arrivare a Emmanuel Macron e fino al presidente americano Joe Biden, hanno usato l’espressione, infrangendo il tabù. Nei mesi in cui hanno minacciato e insieme temuto l’uso della bomba nucleare, ecco la celebrazione dell’americano che ne organizzò la prima costruzione e il primo lancio. Un caso, si dirà. Congiunzione astrale, coincidenza ma anche, come sempre per Hollywood, un po’ spirito dei tempi, ritratto del pensiero dominante, specchio delle pulsioni contemporanee. Il cinema ha sempre fatto politica. Le pellicole sul Vietnam negli anni Settanta contribuirono alla coscienza pacifista e al ritiro americano. Questo Oppenheimer, nonostante la volenterosa dedica pacifista dell’irlandese Cillian Murphy nella cerimonia dell’Academy, contribuisce ad accettare la logica della guerra e delle armi.

La chiave fondamentale del film è infatti un libro di Kai Bird e Martin J. Sherwin, alla base della sceneggiatura, il cui titolo recita: “Il Prometeo americano”. Non è che la bomba atomica, con i suoi dilemmi e le sue tragedie, non ci sia. Ma il racconto del direttore del Progetto Manhattan prende spunto da questa particolare immagine: quella del semidio dell’antichità. Il Prometeo punito perché aveva portato il fuoco agli uomini. Come ha scritto Il Manifesto: “È una storia di genio e hybris, che sfocia in pura tragedia greca, ed è accesa del fuoco micidiale dell’atomica”. Nel mito antico l’ardimento prometeico (di disobbedienza all’Olimpo) fece fare un grande salto di civiltà agli uomini del suo tempo. Possiamo forse dire lo stesso della bomba atomica? Fece comunque fare un salto all’umanità quel fuoco atomico? Domanda non banale che ci introduce nel cuore dell’operazione culturale.

Proprio in questi giorni (altra coincidenza) il filosofo Massimo Borghesi fa uscire nelle librerie un suo lavoro molto interessante dal titolo: “Il male necessario” (edizioni Orthotes). In cui sostiene che “sono più di due secoli che la cultura europea accarezza il male, lo blandisce, lo giustifica. Il negativo comunica vertigine, delirio di onnipotenza, emozioni inconfessabili; illumina di bagliori rossastri i sentieri proibiti, gli abissi della notte, le vette ghiacciate. Colora di sé il peculiare titanismo moderno, il mito di Prometeo che, dal Romanticismo in avanti, attraversa la cultura europea. Il volume mette a fuoco il modello etico che sta alla base dell’idea di superuomo: quello che sorge dalla mescolanza di luce e tenebre, bene e male, Dio e il diavolo. Il manicheismo nuovo non teme il negativo. Memore del patto di Faust lo utilizza come impulso per arricchire la vita, la potenza, il progresso. Sarà Hegel, con la sua dialettica, a consacrare il patto con il Serpente, a siglare l’idea, destinata ad avere grande fortuna, per cui il bene può sorgere solo “attraverso” la mediazione del male. Il male – ed è la prima volta che ciò accade – diviene ora necessario”.

Parole che suonano disegnando un perfetto scenario filosofico che fa da sfondo alla vera operazione culturale che sta alla base del Kolossal di Hollywood: il Prometeo dell’atomica come simbolo del Male necessario.
Il fuoco della bomba è un fuoco malvagio che distrugge per generazioni. È discutibile che rappresenti un progresso. Ma l’accostamento con Prometeo implica la positività assoluta della scoperta: quasi un tassello necessario dell’evoluzione umana.

In questa chiave colpiscono le polemiche sorte, nel silenzio dei mass media italiani, in Giappone e in Usa dove il film non è piaciuto a tutti perché da esso sono assenti le vittime vere della bomba: gli uomini e le donne di Hiroshima e Nagasaki sono ignorate. Al massimo stilizzate in qualche flash di ricordi e di rimorsi che appaiono nella mente del fisico. Non a caso Emily Zemler su Los Angeles Times ha scritto che il film «non mostra mai il bombardamento di Hiroshima o Nagasaki, per esempio, o le conseguenze su entrambe le città. Il numero delle vittime viene menzionato una volta di sfuggita. Inoltre, a parte una frase usa e getta, non vi è alcun riferimento all’effetto che i test atomici hanno avuto sui nativi americani del Nuovo Messico, noti come “downwinders”, coloro che subirono il vento atomico. Sebbene i critici riconoscano la fedeltà di Nolan alla prospettiva di Oppenheimer, sottolineano la contrastante mancanza di rappresentazione della perdita di vite umane giapponesi come uno dei fallimenti più significativi del film».

Critica molto severa ma certo fondata. A voler essere ancora più cattivi, è una bomba atomica stilizzata, tremendamente bella. Sicuramente necessaria. Una bomba giusta per una guerra giusta, quella contro Adolf Hitler. Poco importa se Berlino a quel punto era stata già conquistata dall’Armata Rossa e Hitler stesso suicidatosi nel Fuhrerbunker sotto la Cancelleria del Reich.È vero: una buona parte del film è dedicata alle vicissitudini di Robert J. Oppenheimer ai tempi del maccartismo. Ma è più in continuità di quanto si pensi con la celebrazione del Prometeo americano, padre della bomba. Perché il processo intentato contro di lui deve rispondere alla domanda: Oppenheimer fu un vero patriota?
Ed il pubblico è portato a prendere le sue parti.
Conclusione implicita: sì, la bomba atomica fu un male necessario.

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

Abbiamo ripetutamente cercato in queste pagine di scrivere sulla guerra e sulla pace, su tutte le guerre e le loro violenze. Eppure, al riguardo, siamo profondamente convinti che qualsiasi intervento rischia di strutturare parole vane se, ogni volta che ci si accinge a parlare o a scrivere, prima non si fa cambiare il cuore e la coscienza. In particolare se non ci si impegna, prima, ad allineare i pensieri personali ai pensieri di Dio.
Sì, a ripetizione ogni giorno succede di osservare che nulla è più facile e anche intrigante del parlare di pace. Così, tutti parlano di pace. Tutti si schierano per la pace e la pretendono. Eppure, la pace non spunta mai all'angolo della vita. E questo dato resta incessantemente una sorta di costante fissa. Infatti, ogni volta che parte un discorso sulla pace, subito, negli animi si sviluppa un certo sesto senso e si arriva a presagire che la montagna dei discorsi inutili, perché assolutamente sterili, si allungherà in cima.

Nulla è più imbarazzante, meglio, frustrante del ritrovarsi a galleggiare scioccamente sulle onde del becero qualunquismo. Parli, perché sei cosciente che lo devi compiere. Ma ti metti a parlare dando per scontato che ti sei chiesto in modo debito: ma cosa è la pace di cui non posso fare a meno? In realtà, ti sei semplicemente ridotto a dare per scontato che ti sei posto con serietà questa domanda. E lo compi per il fatto che, quando la pace manca,  la vita messa pericolosamente a rischio. Lo capisci molto bene. Per questo cominci a parlare della pace. La invochi. La pretendi. Poi ti metti ad attaccare quanti, secondo te, si sono messi a parlare in forme del tutto superficiali o addirittura contraddittorie della pace.

A questo punto i dibattiti anziché generare pace, producono soltanto confusione. Peggio, sono proprio loro a impedire alla coscienza di prendere decisioni opportune, improcrastinabili, efficienti. Già, si gira alla larga dal prendere questo genere di decisioni perché, esse, hanno un costo salato che induce troppi a diventare velleitari: pretendere di comprare, senza però saldare onestamente il conto. Qui, allora, confusione diventa tutt'uno col proliferare di stormi di furbetti del quartiere.
Soprattutto, confusione diventa sinonimo di paralisi generalizzata.
Ciò è un qualcosa che spaventa. E lo fa accadere in modo davvero dolorosamente duro.

Da qui spunta la domanda che va messa davanti a tutte le possibili domande. Come posso fronteggiare la durezza della pace? Come posso fare mia la sofferenza che la pace impone a quanti hanno capito cosa essa è alla radice?

Nei giorni della Settimana Santa queste domande mettono a disposizione della coscienza la testimonianza data da Gesù di Nazaret. E, Gesù, parte dalla scelta di un cammino molto preciso, da percorre fino in fondo. Per lui, poco importa che esso sia così tremendo da risultare ben presto insostenibile per la coscienza umana sempre tanto incline alla paura da indurre anche i più volenterosi  al tradimento della testimonianza data da Gesù e, quindi, alla fuga.
Di questo oscuro travaglio interiore ne ha a lungo parlato con grande lucidità padre Turoldo. Qui, ora, ne proponiamo un piccolo saggio.


NON RESTA CHE PREGARE

Padre David Maria Turoldo, monaco dei Servi di Maria

Ho capito: la pace è un fatto mio personale, un fatto tra me e te, o Signore. In questa società non vi è nulla che lavori ancora per la pace.
Nulla che m’aiuti. Non oso più nemmeno parlare con un qualsiasi mio fratello, perché non c’è nessun problema che ci divida tanto come il problema della pace: perciò non mi resta che pregare.
Ho ragione io o gli altri? Tutta quella casistica di millenni.
Se tu sei aggredito cosa fai? (Certo, ad ascoltare i miei istinti, io saprei cosa fare).
E va bene, la mia persona può essere gettata anche al rogo: paglia che brucia. Ma se sono aggrediti i fanciulli e le vergini?
E quando i tuoi fratelli e tua madre sono in campo di concentramento?
E quando tu devi pensare solo quello che pensa il dittatore?
La libertà almeno di pensare dove la mettiamo?
E la libertà di credere?
E la insopprimibile dignità di ogni uomo?

In questa sfera della dignità naturalmente non contano le umiliazioni dei poveri, il diritto dell’uomo al lavoro, l’urlo soffocato di miliardi d’affamati; non contano le sofferenze dei malati, senza cura, il gemito dei morenti; i milioni di fanciulli che non hanno neppure voce per piangere, hanno solo occhi che sono laghi di mestizia.
Non è questa un’immensa tacita aggressione dei potenti?
Essi hanno un solo pensiero: quello di armarsi per difendersi. Perché tutti hanno questa convinzione: di difendersi e mai di aggredire.
Le casistiche non hanno risposta: non c’è che continuare ad armarci.
E intanto c’è sempre più insicurezza, e ci sono sempre più uccisi, e c’è sempre più miseria. Sempre più grave l’abisso tra potenti e impotenti.
Vano ormai è discuterne, c’è solo un senso di vergogna.

Ho capito, è difficile fare il salto. Difficile rinunciare.
Di fronte alla pace ognuno è solo.
Il cristiano è uno spaesato in questa città di potenti.
Eppure, o io sono un uomo di pace, o non sono nemmeno cristiano.
"Andate di casa in casa e dite: pace a questa casa; e se ivi ci sarà un figlio della pace, essa riposi su di lui, altrimenti ritorni a voi, e voi scuotetevi la polvere dai calzari e andate altrove” (Luca 10,5-11).

Come faccio a far capire che solo tu sei questa verità?
Il dramma è che tu sei verità, e gli altri hanno solo ragione. Ma la verità è illogica e scandalosa di fronte alla ragione.
Benedite e non maledite: perseguitati, sopportate; offesi, rispondete con dolci parole; percossi a una guancia, offrite anche l’altra …” (cfr Luca 6.28-29).
Neppure quando tu, o Cristo, sei catturato nell’orto degli ulivi, io posso sguainare la spada per difenderti. E allora: cosa c’è di più santo di te da difendere sulla terra? Cosa è che più giustifichi una violenza? Dove le metto qui le ragioni dei miei affetti familiari offesi, e l’onore e il diritto degli innocenti? Capisco, il tuo regno non è di questo mondo, è nel mondo ma non è di questo mondo. Questa è la vera agonia della tua chiesa.

Io non posso essere uomo di armi e di violenza. Infatti uno, anche se dice di non credere in Dio, ma crede nella pace e soffre per essa e per essa è pronto a morire, egli crede più di me; e il suo cuore è un nido della sacra colomba: questo Spirito sempre libero e imprevedibile!
Chissà in quale uomo tu abiti ora, Signore. Ma è certo che non sei in coloro che non sono portatori di pace, non sei neppure in noi quando non abbiamo il coraggio della pace, pure se abbiamo la bocca piena del tuo nome. Perciò non vale, non è dalle casistiche che si deve partire.

Ho capito, la pace è un fatto mio di ogni giorno e non la devo attendere da nessuno all’infuori che da me stesso.
La pace non ha sistemi, non è frutto di negoziati, non è una merce di questi mercati.
La pace si conquista e non si compera.
Solo colui che ha un cuore divinamente libero può possedere la pace.
Ed è una conquista mai assicurata, mai definitiva; una conquista che non vuole né armi né ricchezze, né grandezze, né privilegi.
Pace è riportare il mondo all’origine, ristabilire le cose nella loro integrità. Tempo di pace non è neppure una opposizione a tempo di guerra; essa è il valore assoluto e comporta lo stato dell’uomo che vive in armonia con se stesso e con le cose, e con il suo Signore.
Gli empi non sono mai in pace; i ricchi, i potenti non sanno cosa sia la pace.
Essa è un fatto solo di poveri e di coloro che hanno un cuore di fanciullo.
Non è neppure un frutto di giustizia perché, da sola, senza amore, la giustizia può essere perfino un fatto disumano e crudele. La giustizia può guarire superficialmente la piaga, può metterci qualcosa sotto i denti da masticare, ma il cuore può rimanere ugualmente scontento e deluso; la giustizia può essere un intonaco sulla facciata, ma il vero tesoro sta dentro la casa, ed essa è appunto la pace.

Ho capito, non devo neppure pregare perché ci sia pace nel mondo, se prima non c’è pace nel mio cuore; perché io posso essere assassino come colui che ora ammazza in qualche punto della terra.
Non vale che ci sia pace nel Vietnam, o pace nell’Oriente e nell’Africa (certo, io non capisco perché lassù si combatta e si muoia con tanto accanimento; perché Stati che si dicono civili facciano simili cose.
Uno che fa la guerra, per questo solo fatto, non è più civile. Tanto è vero che si dice: ”Sono leggi di guerra”).
La pace non è un fatto geografico ed esteriore; sono io che devo farmi uomo di pace. E per questo devo scindere le mie responsabilità e non appartenere a nessun paese, e non accettare nessun compromesso; e non sopportare alcuna violenza dapprima nella mia casa e poi nel mio villaggio; e non sottomettermi ad alcuna legge che mi imponga una qualsiasi violenza contro chicchessia; e impedire qualunque sistema di forza, perché la forza ha una sua logica inesorabile.
Io posso essere un assassino anche senza uccidere, ma solo perché, con la mia omissione, ho permesso che altri uccidessero; solo perché non ho fatto nulla contro questi sistemi di pennacchi e di glorie patrie.

Il cristiano non ha patria né gloria né bandiera; sua patria è il mondo.
I cristiani (…) non abitano città proprie (…) e non professano, come alcuni, una filosofia umana. Disseminati per città elleniche e barbare, secondo che a ciascuno è toccato in sorte, pur uniformandosi alle abitudini locali nel vestire, nei cibi, e in ogni altro aspetto della vita, rivelano, per comune consenso, la meravigliosa e paradossale forma della loro vita associata. Abitano una loro rispettiva patria, ma vi sono come pellegrini (…); ogni terra straniera è patria per loro, ogni patria è terra straniera. (…) Trascorrono l’esistenza sulla terra, ma sono cittadini del cielo (cfr Ebrei 13,14). Obbediscono alle leggi costituite, ma con il loro modo di vivere superano le leggi. Portano amore a tutti, e da tutti sono perseguitati. Non sono conosciuti e vengono condannati; messi a morte, da essa traggono vita. Sono poveri, e fanno ricchi molti; sono privi di tutto, e di tutto sovrabbondano (cfr 2 Corinzi 6,9-10). Sono disprezzati, e dal disprezzo traggono gloria. (…) Insultati, benedicono; oltraggiati, rispondono con riverenza (cfr 1 Corinzi 4,12). Fanno del bene, e sono puniti come malfattori; puniti, godono come se fossero colmati di vita” (Lettera a Diogneto, II, 5,1-16).

Tu fai parte di questo mondo? Vivi la sua vita? Quando decidi di compierlo, nel tuo animo prevale il senso della difficoltà o domina il senso della gioia di Gesù? Per te, Gesù è un problema spinoso oppure è la soluzione pratica di qualsiasi problema? Proprio a partire da quelli più tremendi.

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IL PAPA, LE LOGICHE DELLA GUERRA E UNA SEMPLICE VERITA'

Papa Francesco ha rilasciato un’intervista alla Radio Televisione Svizzera che andrà in onda il 20 marzo, una intervista che ha suscitato ampio clamore mediatico: il Papa avrebbe, secondo la vulgata mediatica imperante, chiesto all'Ucraina di alzare 'bandiera bianca'.
La stampa e i talk-show hanno parlato di infortunio diplomatico, una sorta di grave ingerenza, un chiaro sbilanciamento a favore dell'imperialismo russo, una resa al potere arrogante del più forte, di protagonismo del Vaticano per occupare la scena politica.
In realtà l'intervista aveva come tema il 'colore bianco' (il valore del bianco per la Chiesa, il significato delle macchie sul bianco, le ragioni dell’abito bianco del papa, il bianco nella liturgia ecclesiale, ecc.): il giornalista ha colto al balzo l'occasione per portare il Papa a parlare della guerra tra Russia e Ucraina sollevando la questione della 'bandiera bianca' e del suo significato.
Il Papa non si è sottratto al tema e ha osservato che si tratta di 'una interpretazione': chi alza quella bandiera lo fa per avviare un negoziato con l’aiuto delle potenze internazionali, e lo fa non per compiere un atto di resa ma un atto di coraggio nel caso in cui la popolazione coinvolta nel conflitto si trovi in condizioni ormai catastrofiche.
Nessun infortunio diplomatico, dunque, ma la chiarezza di una verità che ci si ostina a non vedere, di una via che ci si rifiuta di percorrere perchè le logiche della guerra impongono solo la vittoria dell'uno e la sconfitta dell'altro.

Giuseppe Sacco, politico cattolico e saggista, denuncia l'unanime accondiscendenza alle logiche della guerra, questa sorta di servilismo mediatico, vera e propria propaganda pedestre che silenzia ogni altra voce che si pone fuori dal coro:

“.....Un vero e proprio coro di voci che simulavano un atteggiamento scandalizzato ha invece accolto le parole del Papa, in particolare quelle relative alla “bandiera bianca”. Immagine con cui egli ha invitato coloro che sono al potere a Kiev ad un gesto coraggioso. Quello di prendere atto della tragedia che incombe ormai su tutti i paesi del mondo. Ma prima e più che su ogni altro popolo, incombe proprio sui quaranta milioni di Ucraini che essi pretendono di voler difendere. E questo clima artefatto, in una situazione che ricorda sempre più quella dell’Agosto 1914, costituisce il segno forse più allarmante dei tempi in cui viviamo.
Lo scandalo della verità è al cuore del messaggio cristiano. Ma è evidente che nei poteri costituiti di quel che rimane oggi della cosiddetta “comunità delle nazioni” domina da ogni parte la menzogna e la propaganda più pedestre. E che la menzogna crea una rete inestricabile in cui ciascuna delle parti tiene legate tutte le altre.
Un lettore privo di pregiudizi, di interessi costituiti, o di legami di fedeltà più o meno segreti con una delle fazioni in lotta non aveva infatti nessuna difficoltà a dare tutt’altra lettura delle parole del Pontefice.
A capire a quale bandiera si riferisse il Capo della Cristianità.
A pensarla come un riferimento alla bandiera bianca – che è troppo di sovente solo uno straccio insanguinato – che, quando lo scontro tra forze opposte diventa impari e può risolversi solo in un’inutile strage, viene alzata dai messaggeri di tregua che i sopravvissuti infine si scambiano.
E neanche si è voluto, ben più prosaicamente, vedere in quel riferimento alla 'bandiera bianca' neanche l’appello ad un virile gesto quale quello con cui – come ha scritto un grande poeta – Maitland, l’Inglese, si rivolse a Cambronne morituro, ritto con gli eroici superstiti della guardia di Napoleone a Mont Saint-Jean, sul campo di battaglia di Waterloo: Arrendetevi, prodi Francesi!”.

Diciamolo chiaramente: questa guerra l'Ucraina non può né potrà vincerla, men che meno adesso che scarseggiano non solo le forniture di armi americane ed europee ma persino gli uomini da mandare a combattere: i migliori esperti di geopolitica e di strategia militare concordano senza esitazioni.
Così come tutti sono consapevoli che la guerra tra Russia e Ucraina è un conflitto che travalica gli interessi locali dei due contendenti, che è una guerra combattuta per procura (fino all'ultimo ucraino) per interessi geopolitici globali che coinvolgono l'intero pianeta.
Se la guerra è sempre una follia, lo è ancora a maggior ragione oggi.
E se oggi la guerra rischia di provocare la distruzione totale del mondo, allora, come scrive il sociologo Magatti, i tentativi negoziali hanno sempre una ragione e una priorità. E non vanno abbandonati, fino a quando esiste la più piccola possibilità di riuscita.

E Magatti prosegue:


Chi attacca un altro Paese (come Putin o Hamas) cosa vuole ottenere? Indurre il nemico a entrare nella spirale perversa del conflitto. Spingendolo a giocare nel terreno che proprio l’attaccante ha scelto.
Chi resiste cosa deve fare? Difendersi anzitutto, e opporsi a chi ha infranto le regole della convivenza. Ma, al tempo stesso, rifiutare la logica della ritorsione, cercando piuttosto di cambiare nuovamente la logica dell’interazione e le regole del gioco. Il che significa cercare attivamente, testardamente, in modo diretto e indiretto, le vie che possono fermare il conflitto e riportare la pace.
Non è mai facile resistere. Né tantomeno trovare una soluzione ai conflitti che insanguinano il mondo. Tanto più quando l’interlocutore si macchia di gravi responsabilità. Eppure, è questa la strada da ricercare, se si parte dal presupposto che la guerra è sempre una follia. Se (ma solo se!) siamo d’accordo su questa affermazione, allora, i tentativi negoziali hanno sempre una ragione. E non vanno abbandonati, fino a quando esiste la più piccola possibilità di riuscita.
Ripetiamo ancora una volta ciò che si è detto e scritto tante volte in questi mesi: la pace si fa in due. Ma, detto ciò, l’esperienza insegna che quando c’è un conflitto la pace si costruisce perché una delle due parti – non accettando la logica della guerra – persegue attivamente e creativamente vie alternative al solo uso delle armi.
Non si tratta di un pacifismo da “anime belle” che scaricano su altri il costo di una pace ingiusta. Si tratta del dovere irrinunciabile di tutti i costruttori di una pace giusta e duratura in tutti i tempi e in tutti i luoghi.
Disposti anche a correre il rischio di non essere compresi perché si rendono conto che l’automatismo della guerra, una volta innescato, procede senza più freni.
Dopo trent’anni di globalizzazione, il mondo è sull’orlo di una deflagrazione complessiva. I fronti di tensione sono tantissimi. Le ragioni di scontro molteplici. Proprio per questo è necessario un supplemento di saggezza. È l’idea stessa di politica che è destinata a cambiare. Perché, oggi come oggi, non c’è nessuno Stato e nessuna cultura che può pensare di esistere e di definirsi indipendentemente da ciò che ha intorno.
Le interconnessioni sono troppe e troppo profonde. Per le autocrazie è un problema: i tentativi di soffocare la dissidenza sono destinati ad avere echi ovunque. Togliendo legittimazione agli sforzi propagandistici di ogni regime. Per le democrazie, invece, è una sfida: si tratta di trovare il modo di dialogare con mondi che seguono percorsi divergenti di evoluzione storica. Per certi versi incomprensibili. E a volte persino inaccettabili.
In questo mondo interconnesso è la stessa nozione di “vittoria” che non ha più senso. Dato che vincere, oggi, oltre all’annichilimento della controparte, implicherebbe la messa a rischio della stessa vita sulla terra. Questa nuova condizione dell’umanità costringe al dialogo. L’unico futuro ragionevole è, infatti, quello di una “convivialità delle culture”. Un obiettivo lontano, anzi lontanissimo. Ma che dobbiamo tenere ben presente, perché è l’unica via sensata che possiamo percorrere. Per noi e per i nostri figli.
Da questo punto di vista, la posizione di papa Francesco non è quella di un’equidistanza che non riconosce le responsabilità o che mette sullo stesso piano aggressore e aggredito. È piuttosto lo sguardo realistico di chi vede la condizione dell’umanità all’inizio di questo XXI secolo. Dove risulta evidente il ritardo del pensiero politico, che continua a ragionare come se fossimo in epoche passate. Putin ha attaccato l’Ucraina come se fossimo nel secolo scorso. Immaginando che si trattasse di una questione regionale. È invece una questione globale che passa attraverso un luogo specifico. E questo vale per i tanti fronti di tensione che ci sono in varie parti del pianeta.”

Ma è l'articolo accorato e vibrante del giornalista Domenico Quirico che, più di altri, ha infranto il muro di ipocrisia che avvolge ogni discorso su questa guerra; solo il Papa poteva avere il coraggio di dire: arrendetevi, alzate bandiera bianca, trattate!


Ci voleva Bergoglio per rompere il tabù.
La vittoria non è l'unica strada per la pace.

di Domenico Quirico, La Stampa, marzo 2024

Vorrei dire: finalmente! Recidere con le parole il giusto e l'ingiusto, il razionale e il folle. Solo il Papa poteva avere il coraggio di far questo. Parole dette scritte mandate alte, che diventano sfida esempio tentazione al contrario. Osare l'impronunciabile per gli usi della bizantina ipocrisia: ovvero dire arrendersi, alzare bandiera bianca, trattare. Questo è la virtù profetica, lo Scandalo sacro della verità. Per due anni abbiamo ascoltato senza fare quasi domande, prendendo atto, per immersione, magari per abitudine, restando in maggioranza inerti, superficiali, racchiusi dal giro intricato delle cose. Il conflitto straziava nel lungo, i morti fissavano il cielo rigato di missili sonanti. Sulla guerra in Ucraina abbiamo vissuto sotto il dominio soffocante di una cosmogonia omogenea. Putin, la Russia, aggressori arroganti, saranno puniti, non hanno con la loro potenza di cartapesta alcuna possibilità di prevalere sul Bene, cioè su di noi. Gli eroici ucraini e le nostre armi e i nostri soldi sconfiggeranno il Male.

Nessuno metteva in dubbio, tutti hanno interiorizzato. Siamo stati convinti con la intensa soddisfazione di vivere in diretta l'avvenimento grandioso della Guerra Giusta: e inevitabilmente vittoriosa. Il cretinismo infinitesimale di singoli eventi orribili: le carcasse dei carri, le trincee divelte, le sviscerate tumefazioni delle città, ecco servito il paradigma del tutto è cronaca. Ha banalizzato l'orrore, consentendoci come spettatori di autoescluderci e di pensare di poter usufruire di un rifugio perpetuo. Il nostro fare nulla, l'accontentarci della sicurezza della vittoria che ci veniva garantita da color che sanno, politicanti, economisti, generali, esperti, intellettuali rendeva la impotenza e la indifferenza felici, legittime e rassicuranti.

Mese dopo mese tutte le possibilità intermedie sono state, una dopo l'altra, eliminate, smascherate come inganno, abdicazione all'avversario. Dalle due parti, Kiev e Mosca, con un progetto metodico, è stata lasciata soltanto una possibilità: la propria vittoria totale. Con un ribaltamento che spesso avviene nelle guerre, la politica, russa, ucraina, occidentale, si è ridotta miseramente a continuazione della guerra con altri mezzi, uno schermo per dimostrare la necessità del massacro temperato dalla certezza che alla fine avremmo vinto noi. Anche le grida domenicali, appassionate, del Papa, in fondo, sono state ridotte a una parte di questo disegno di illusione, invocare la pace era null'altro che rinviare a qualcosa di utopico e impossibile: perché la pace doveva essere ovviamente giusta, perfetta, riparatrice per le vittime e punitiva per i colpevoli. Perfino il pacifismo dei virtuosi, degli uomini di buona volontà (non molti per la verità) è stato immiserito a rito accomodante, gratificazione delle coscienze singole, fuga nella buona azione del fine settimana: manifestate, manifestate che tanto poi. ..

La vittoria era l'unica soluzione per avere la pace, inseguita descritta vaticinata in modo inevitabile dalle cancellerie e dai vertici dell'Alleanza via via che il campo di battaglia la dimostrava sempre più remota, irraggiungibile, mostruosamente costosa per chi la combatteva al fronte.
I registi della guerra a Mosca e a Kiev e in Occidente hanno a poco a poco dimenticato i morti, i feriti, i mutilati delle trincee, gli uomini che muoiono dopo un'ora o un anno, la vita per un istante sotto l'impeto della mitraglia... Poi subito afflosciata, affondata a picco come una pietra. Si sono impadroniti della morte, i guerrafondai in mimetica o doppiopetto, le fanno la guardia come mastini: questi sono i Nostri Morti quelli sacri giusti gloriosi, i loro morti sono criminali e maledetti. E mentre chi li ha amati entra nell'inesplorato bosco del dolore, gli alti comandi, gli encomiatori da lapide, i cappellani del massacro, estranei e compatti, affidavano ai proclami il loro rancore di superstiti: saremo noi i buoni perché vinceremo!

Occorreva che qualcuno prendesse la parola per i morti, per quelli già spazzati via e per quelli che verranno... Ancora un paio di anni e vinceremo! Un niente! Bisognava che qualcuno dicesse quello che i politici e i generali non hanno il coraggio di dire: che è l'esaurimento degli uomini nelle trincee e negli assalti e non delle munizioni o dei droni a decidere la vittoria e la sconfitta. In questa matematica inumana la Russia è in vantaggio, vincerà. Mentre Putin continuerà a attingere al suo immenso materiale di vite sacrificabili, largheggiando senza rimorsi, come è nello stile, sotto qualsiasi segno ed epoca, di un dispotismo abituato alla cieca obbedienza, Kiev è quasi alla fine, una generazione è stata spazzata via o ha cercato la salvezza fuggendo. Alcuni generali hanno cercato di dirlo a Zelenzky ma sono stati licenziati o allontanati: perché Zelenzky come Putin è ormai prigioniero della logica della vittoria totale che gli abbiamo garantito.

Solo il Papa poteva spezzare il tabù, solo lui ne ha la forza morale. Usando parole sconfitta, negoziare, bandiera bianca che costerebbero l'accusa di tradimento, di collaborazionismo con il nemico. Ma questa è la Chiesa, quando sa lasciare agli altri i distinguo, i silenzi, il non detto, le formule felpate, le maledizioni sul nemico sempre Assoluto. La macchia bianca del Papa è una insegna, una biografia, un memento. È muta di colore, biancheggia sempre di più, perché il suo messaggio spezza il tempo. Esemplifica, aspetta al varco la responsabilità di ognuno, ripropone. Al contrario dei politicanti batte e ribatte sulle chiusure umane, giustizia i diaframmi che impediscono l'ascolto, non accetta riposo, è portatore di difficili e rivoluzionarie meraviglie. Ci impone di non insabbiarci nei dubbi, strazi, interessi di uomini e di sistemi, in una terra dove per vincere dovremo scendere in campo direttamente, disseminata di silos in cui dormono mostri a testate multiple, meraviglie della demenza che possono vetrificare il pianeta, e in fondo agli oceani scivolano, silenziosi e ciechi, sottomarini con missili ciascuno dei quali può annientare centinaia di migliaia di esseri umani: allora torna il conto dopo due anni, o è follia?

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IL DILEMMA DI ISRAELE

Sono state pubblicate recentemente le immagini dell'eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso, immagini e video di una ferocia inaudita che le indagini di una commissione dell'ONU ha definitivamente accertato attraverso testimonianze e racconti dei sopravvissuti al massacro.
La guerra, ogni guerra, è sempre portatrice di violenza e di morte ma a volte diviene anche occasione per testimoniare coraggio, eroismo, onore, pietà, solidarietà.
Niente di tutto questo c'è stato nell'atto terroristico di Hamas: solo una feroce violenza che non ha risparmiato donne, bambini, anziani con l'unico obiettivo di torturare, violentare, massacrare.
Di fronte a tutto ciò L'Europa continua ad essere attraversata da una sorta di “cultura woke” che attribuisce all'Occidente ogni ingiustizia presente nel mondo e che si concretizza in una palese avversione allo Stato ebraico fino al punto di ritenere l'eccidio di Hamas una legittima e doverosa “resistenza armata”.
Comprensibile quindi il dilemma di cui parla David Grossman che nel suo articolo evidenzia lo stato d'animo che attraversa oggi la coscienza ebraica.


IL DILEMMA DI ISRAELE: RESISTERE NELLA FORTEZZA O APRIRSI ALLA PACE

David Grossman, scrittore e romanziere di nazionalità ebraica , marzo 2024

Tanto più ci allontaniamo dagli eventi di sabato mattina 7 ottobre, quanto più il loro significato si chiarisce e il trauma che hanno provocato si aggrava. Noi israeliani non facciamo che raccontarci quegli eventi, divenuti parte formativa della nostra identità e del nostro destino.
Ci raccontiamo come i terroristi di Hamas hanno invaso le case di israeliani innocenti per ore, ucciso più di 1.200 persone, violentato, rapito, saccheggiato e bruciato. Durante quelle ore da incubo, prima che l’Idf si riprendesse dallo shock, gli israeliani hanno toccato con mano cosa potrebbe accadere se il loro Paese non solo subisse un duro colpo, ma cessasse di esistere a tutti gli effetti. Se Israele venisse cancellato.

Ebrei che non vivono qui, con i quali ho parlato, mi hanno rivelato di essersi sentiti fisicamente e spiritualmente più vulnerabili in quelle ore.
Di più: qualcosa della loro forza vitale è andato perso per sempre. Troppo lentamente l’esercito israeliano si è ripreso e ha iniziato a reagire. Quando la nazione era ancora immersa nel sangue, la società civile già si mobilitava per le operazioni di salvataggio e di organizzazione, e insieme a centinaia di migliaia di cittadini comuni, faceva ciò che il governo avrebbe dovuto fare se non fosse caduto in uno stato di paralisi e di inefficienza.

Nel momento in cui scrivo (fine febbraio 2024), secondo i dati del Ministero della Sanità di Gaza controllato da Hamas, sono circa trentamila i palestinesi uccisi, tra cui molti bambini e civili non appartenenti all’organizzazione. “Non coinvolti”, li definisce Israele nel gergo linguistico con cui nazioni in guerra ingannano sé stesse per non affrontare le conseguenze dei loro atti. Il famoso studioso di Kabbalah Gershom Scholem una volta coniò il detto: «Tutto il sangue scorre verso la ferita». E a quasi cinque mesi dal massacro, l’angoscia, lo shock, la rabbia, il dolore, l’umiliazione, la sete di vendetta, le energie mentali di un’intera nazione ancora confluiscono lì, verso la ferita, verso l’abisso in cui stiamo tuttora cadendo.

Il pensiero dei bambini uccisi, delle famiglie bruciate vive, delle ragazze, delle donne e degli uomini violentati dagli aggressori di Gaza (assassini che hanno filmato i loro crimini trasmettendoli in diretta alle famiglie delle vittime) non ci dà tregua.

E non ci dà tregua nemmeno il pensiero degli ostaggi. Di quegli israeliani rinchiusi in tunnel, forse in gabbie di ferro. Bambini e anziani, donne e uomini, alcuni malati e morenti per mancanza di ossigeno e medicinali. O per mancanza di speranza. Oppure morenti perché persone normali, quando vengono a contatto con il male assoluto, diabolico, spesso perdono la loro naturale voglia di vivere in un mondo in cui sono possibili simili cattiverie e crudeltà. In cui vivono persone come i terroristi di Hamas.

L’enormità degli eventi del 7 ottobre cancella a tratti il ricordo di ciò che è accaduto nel periodo che li ha preceduti. Già nove mesi prima del massacro nella società israeliana avevano cominciato a manifestarsi crepe allarmanti. Il governo, guidato da Benjamin Netanyahu, aveva tentato di imporre una serie di misure legislative intese a indebolire gravemente l’autorità della Corte Suprema, assestando così un colpo letale al carattere democratico di Israele. Centinaia di migliaia di cittadini erano scesi in piazza per protestare contro il piano del governo. La destra israeliana aveva sostenuto l’esecutivo e le posizioni politiche della popolazione si erano fatte sempre più estremiste. Il legittimo confronto ideologico del passato tra destra e sinistra si era trasformato in espressioni di odio reciproco tra diverse “tribù”. Il dibattito pubblico si era fatto violento e astioso. Avevano cominciato a circolare ipotesi su una possibile divisione del Paese in due nazioni diverse: Giuda e Israele. E l’opinione pubblica israeliana aveva sentito per la prima volta che l’esistenza stessa del Paese veniva improvvisamente messa in dubbio, che le sue fondamenta rischiavano di crollare.

A chi vive in nazioni in cui il concetto di “casa” è dato per scontato, dovrei spiegare che per me, dal mio punto di vista di israeliano, questa parola – “casa” – trasmette una sensazione di sicurezza, di protezione e di appartenenza. “Casa” è un luogo in cui mi sento a mio agio e i cui confini sono riconosciuti da tutti, in particolar modo dai miei vicini. Questa sensazione però è velata da una patina di nostalgia, di desiderio di qualcosa che non ho ancora pienamente raggiunto.

Al momento temo che Israele sia più una fortezza che una casa. Non offre né sicurezza né agio e i miei vicini avanzano obiezioni e pretese sulle sue stanze e sulle sue mura, e talvolta sulla sua stessa esistenza. In quel terribile “sabato nero” non solo abbiamo scoperto che Israele è ancora lontano dall’essere una casa nel vero senso della parola, ma non sa nemmeno essere una fortezza.

Gli israeliani sono però giustamente orgogliosi della rapidità e dell’efficienza con cui si sono mobilitati e della solidarietà che sanno dimostrare quando il Paese si trova in pericolo. Un pericolo che può essere rappresentato da una pandemia di Covid-19 come da una guerra. Molti riservisti sparsi per il mondo si sono imbarcati su un aereo per unirsi ai loro commilitoni già impegnati nei combattimenti. Sono tornati per “difendere la casa”, come spiegavano nelle interviste. C’era un che di commovente in tutto questo, di unico: giovani uomini e donne che arrivavano da ogni angolo del globo per difendere i loro genitori e i loro nonni. Pronti a sacrificare la vita. E altrettanto commovente era lo spirito di unità che si respirava nelle tende dei soldati. Le opinioni politiche non contavano, regnavano solo solidarietà e cameratismo.

Ma gli israeliani della mia generazione, veterani di numerose guerre, già si domandano, come sempre dopo un conflitto, come mai questo spirito di unità emerga soltanto in situazioni di emergenza e di pericolo. Perché solamente rischi e minacce ci rendano coesi, tirino fuori il meglio di noi, ci liberino dalla nostra strana attrazione verso l’autodistruzione. Verso la distruzione della nostra stessa casa. E allora si fa strada in noi una dolorosa intuizione: forse la profonda disperazione che la maggior parte degli israeliani avverte dopo il massacro deriva dalla “condizione ebraica” nella quale ci ritroviamo catapultati ancora una volta. La condizione di un popolo perseguitato e senza difese. Un popolo che, nonostante i suoi grandi successi in molti campi, nel profondo del suo essere è ancora una nazione di profughi che teme di essere sradicata dalla propria patria anche dopo quasi 76 anni di esistenza sovrana.

Oggi è più chiaro che mai fino a che punto dovremo vigilare su questa casa penetrabile e fragile. E quanto profondo e radicato è l’odio di molti nei suoi confronti. E viene da pensare un’altra cosa: che nonostante tutto, israeliani e palestinesi, due popoli tormentati per i quali il trauma dell’esilio è significativo e primordiale, non hanno un briciolo di comprensione, né tantomeno di compassione, l’uno per la tragedia dell’altro.

In seguito alla guerra è emerso un altro fenomeno vergognoso: Israele è l’unico Paese al mondo del quale è consentito, e legittimo, chiedere l’eliminazione. In cortei di centinaia di migliaia di manifestanti, nei campus delle università più prestigiose, sui giornali a più alta tiratura, sui social media e nelle moschee di tutto il mondo, in diversi contesti è echeggiato il grido: “Morte a Israele”. È vero, si grida anche “Morte all’America”, ma quando si tratta del piccolo Israele le grida, in qualche modo, risuonano molto più reali e concrete. Nel caso dello Stato ebraico una critica politica ragionevole che tenga conto della complessità della situazione si trasforma in un urlo di odio che solo la distruzione di questo stato potrebbe placare (e nemmeno questo è ormai certo).

Quando Saddam Hussein uccise migliaia di curdi con armi chimiche, non si udirono richieste di sterminio, non ci furono appelli a distruggere l’Iraq, a cancellarlo dalla faccia della terra. Solo quando si tratta di Israele è lecito chiederne l’eliminazione. I manifestanti, gli editorialisti, i leader pubblici dovrebbero chiedersi cosa suscita in loro questo odio. Perché Israele, tra i 195 Paesi del pianeta, è l’unico la cui esistenza è sempre “condizionata a…”, come se questa dipendesse dalla buona volontà (?) di altri Paesi. È agghiacciante pensare che questo odio omicida sia rivolto esclusivamente verso un popolo che non molti anni fa fu quasi sterminato.

Anche il legame contorto e cinico tra l’ansia esistenziale ebraica e il desiderio di molte nazioni e religioni che Israele cessi di esistere suscita indignazione. Ed è pure intollerabile l’ostinata determinazione con cui taluni cercano di inserire il conflitto israelo-palestinese in un quadro colonialista, dimenticando che gli ebrei non hanno un altro Paese (condizione essenziale per la definizione di uno stato coloniale), che non sono occupanti stranieri ma che il loro intenso attaccamento alla Terra di Israele dura da quasi quattromila anni. È qui infatti che si sono formati come popolo, come religione, come cultura e come lingua. Possiamo immaginare con quanta gioia maligna certi elementi calpestino il punto più vulnerabile e fragile del popolo ebraico, il suo senso di estraneità tra i popoli, la sua solitudine esistenziale.

Quel punto dal quale gli ebrei non trovano rifugio, che spesso li condanna a commettere i loro errori più fatali e distruttivi, sia per i loro nemici che per loro stessi. Chi saremo noi israeliani e palestinesi quando questa lunga e crudele guerra sarà finita? Non solo il ricordo delle atrocità che ci siamo reciprocamente inflitti resterà con noi per molti anni, ma, come è chiaro a tutti, non appena Hamas ne avrà l’opportunità, si affretterà a realizzare l’obiettivo apertamente dichiarato nel suo statuto originale, vale a dire il dovere religioso di distruggere Israele.

Come possiamo, allora, firmare un trattato di pace con un simile nemico? Abbiamo qualche altra scelta? I palestinesi faranno il loro esame di coscienza. Io, come israeliano mi chiedo che popolo saremo quando la guerra sarà terminata. Come gestiremo il nostro senso di colpa (se saremo poi tanto coraggiosi da provarne uno) per ciò che abbiamo fatto a palestinesi innocenti. Alle migliaia di bambini che abbiamo ucciso. Alle famiglie che abbiamo distrutto. Come impareremo a vivere una vita sul filo del rasoio per non essere mai più sorpresi? E chi mai vorrebbe vivere e crescere i propri figli sul filo del rasoio? E quale sarà il prezzo di una vita di continua allerta, di sospetto, di costante paura? Chi di noi deciderà di non volere – o di non potere – condurre un’esistenza da eterno soldato, da spartano? E chi resterà in Israele? Forse i più estremisti, i fanatici religiosi, i nazionalisti, i razzisti. Saremo condannati a guardare, paralizzati, l’israelianità audace, creativa e unica nel suo genere, venire gradualmente assorbita dalla tragica ferita del giudaismo?

Queste domande probabilmente accompagneranno Israele per anni. Esiste, tuttavia, la possibilità che emerga una realtà radicalmente diversa. Non è infatti da escludere che la consapevolezza di non poter vincere questa guerra, e d’altro canto, di non poter continuare l’occupazione indefinitamente, costringerà le parti ad accettare la soluzione dei due Stati, Israele e Palestina. Una soluzione che, nonostante gli inconvenienti e i rischi (primo fra tutti, che Hamas assuma il controllo di tutta la Palestina in seguito a elezioni democratiche), è forse ancora l’unica fattibile.

Questo è anche il momento in cui quegli Stati che possono esercitare un’influenza sulle parti, facciano ciò che è in loro potere. Non c’è spazio per politiche meschine, né per diplomazie ciniche. Questo è un raro momento in cui uno shock come quello vissuto lo scorso 7 ottobre può cambiare la realtà. I Paesi interessati e coinvolti nel conflitto non vedono che israeliani e palestinesi non sono ancora una volta in grado di salvarsi da soli?

I prossimi mesi saranno determinanti per il destino dei due popoli. Scopriremo se il conflitto che va avanti da oltre centocinquant’anni è pronto a giungere a una soluzione ragionevole, etica e umana. È un peccato che questo avvenga – se poi avverrà – non in un clima di speranza e di entusiasmo ma di stanchezza e di disperazione. D’altronde questo è lo stato d’animo che spesso porta i nemici a riconciliarsi, e oggi è tutto ciò in cui possiamo sperare. Ci accontenteremo. Probabilmente dovevamo attraversare l’inferno per arrivare a un punto dal quale si può vedere, in una giornata particolarmente limpida, il limite estremo del paradiso.

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MILLE MILIARDI DI DOLLARI PER LE ARMI

Nel nostro ultimo articolo riflettevamo sui due anni di guerra ormai trascorsi senza che si intravveda un uscita, una tregua, una trattativa.
Nel frattempo è mutato qualcosa?
Scrive Domenico Quirico:
Stati Uniti e Russia danno l’impressione di essere pronti a scendere in campo direttamente in uno scontro bellico senza precedenti.
Quella guerra che fino ad oggi è stata definita guerra per procura, cioè guerra finanziata in armi e denaro dall'Occidente ma combattuta sul campo dagli ucraini, adesso potrebbe diventare una guerra tra Russia e Occidente:
Sostiene Quirico:
Ormai si è convinti, rassegnati o entusiasti (nei due campi esistono gli uni e gli altri), che la guerra per procura stia per finire”.
Non ci sono altri modi per definire l'evenualità di una tale decisione: una follia, un assurdità.
Il giornalista Tioni Capuozzo ribadisce:
L'Ucraina non potrà mai vincere questa guerra. L'Europa deve convincere Zelensky a trattare la pace”.
Non è passata inosservata l'immagine del presidente americano Biden che annuncia ad un giornalista la possibilità di un coinvolgimento diretto degli USA nella guerra mentre entrambi mangiano tranquillamente un gelato, mentre il presidente russo Putin elenca le innumerevole testare nucleari a sua disposizione.
E' tempo di Quaresima, tempo di preghiera, tempo di conversione: possa i Signore illuminare le menti e i cuori di coloro che sono chiamati a tali decisioni.

LA CIFRA RECORD DI MILLE MILIARDI DI DOLLARI
A SOSTEGNO DELL’INDUSTRIA MILITARE

Valerio Palombaro, L’Osservatore Romano, febbraio 2024

«La guerra alimenterà sé stessa»: questa frase delle storico romano Tito Livio è particolarmente attuale oggi, in un’epoca in cui il proliferare delle guerre nel mondo innesca una spirale apparentemente ineluttabile di aumento delle spese militari. Una tendenza preoccupante, che nel 2023 ha raggiunto nuovi record, e che riguarda da vicino il mondo della finanza: quasi 1.000 miliardi di dollari (959) sono stati utilizzati in due anni dalle istituzioni finanziarie globali per sostenere la produzione e il commercio di armi. A denunciarlo è il rapporto “Finanza per la guerra. Finanza per la pace”, presentato ieri dalla Global Alliance for Banking on Values (Gabv), l’alleanza mondiale delle 71 banche “etiche” riunitasi per la prima volta in Italia, tra Milano e Padova, dal 26 febbraio a oggi.

«Le banche e l’industria finanziaria non sono semplici intermediari di denaro, ma agenti critici del cambiamento», si legge nella premessa del dettagliato rapporto di 32 pagine. Più della metà dell’investimento totale nell’industria bellica, oltre 500 miliardi di dollari, arriva dagli Stati Uniti. E sono tutte statunitensi le 12 istituzioni finanziarie che più investono nella produzione di armi: una classifica guidata, con 92 miliardi di dollari, dal gruppo Vanguard. Le 15 maggiori banche europee hanno investito in aziende produttrici di armi per un importo pari a 87,72 miliardi di euro. Un trend non dissimile a quello asiatico, mentre tra le prime 100 istituzioni finanziarie ad alimentare l’industria bellica non figurano investitori dall’Africa o dall’America Latina.

Lo scorso anno è stato segnato un nuovo record di spese per la difesa: a livello globale sono stati spesi 2.240 miliardi di dollari, pari al 2,2 per cento del Pil mondiale, con un aumento del 9 per cento sulla precedente rilevazione. In questo scenario il settore finanziario è molto attivo: tra il 2020 e il 2022 ha sostenuto l’industria della difesa con almeno 1.000 miliardi di dollari. E la tendenza si è ulteriormente acuita con lo scoppio delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente, che si vanno ad aggiungere ai tanti conflitti più o meno “dimenticati” che si trascinano dal Sudan al Myanmar solo per citarne alcuni tra i più sanguinosi.

Lo scoppio della guerra in Ucraina, nel febbraio 2022, ha fatto salire alle stelle il valore delle azioni delle imprese produttrici di armi. Un’analisi del «Financial Times» ha mostrato che il portafoglio ordini per nuovi armamenti ha raggiunto livelli record nel 2022 e nella prima metà del 2023. Una tendenza destinata purtroppo ad aumentare nel breve periodo, anche a causa dello scoppio del conflitto tra Israele e Hamas nell’ottobre 2023. Fra i dieci titoli mondiali che hanno registrato i maggiori progressi da inizio 2024 ci sono il produttore tedesco di munizioni Rheinmetall e l’azienda norvegese Kongsberg.

Le banche etiche, d’altra parte, vanno controcorrente. Nella riunione di Milano, ieri, è stato adottato un Manifesto che condanna tutte le guerre e chiede a alle istituzioni finanziarie “mainstream” di invertire la tendenza per investire su una finanza di pace. Un appello quanto mai urgente visto che le spese militari crescono in maniera esponenziale, mentre si fatica a reperire le risorse per servizi essenziali come la scuola o la sanità. Un’analisi dell’International Peace Bureau ha tradotto il costo di specifici armamenti in beni e servizi sanitari: una fregata multiruolo europea (Fremm) vale lo stipendio di 10.662 medici all’anno (media dei paesi Ocse); un caccia F-35 equivale a 3.244 posti letto di terapia intensiva e un sottomarino nucleare Virginia costa quanto 9.180 ambulanze. La metà dei fondi stanziati dai governi a livello globale per le forze armate sarebbe sufficiente per fornire assistenza sanitaria di base a tutti gli abitanti del pianeta e per ridurre di molto le emissioni di gas serra.

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IL PAPA E IL «PRIMATO» DELLA PACE

Il 22 febbraio di due anni fa la Russia invadeva alcuni territori dell'Ucraina e aveva inizio la guerra.
Il teologo Severino Dianich in un suo articolo si pone quelle domande che spesso, in questi due anni, ci siamo posti più volte anche noi: “L’8 marzo del 2022, tredici giorni dopo che la Russia aveva invaso l’Ucraina, dopo averne già occupata la Crimea, un cittadino qualsiasi, non un esperto di strategie militari, non uno storico delle relazioni Russia-Ucraina, non un competente in geopolitica, ma un semplice osservatore dei fatti accaduti negli ultimi otto decenni, che ama conservarne la memoria e rifletterci, postava in rete una sua considerazione: «Chi potrebbe negare – scriveva – a un popolo aggredito il diritto di difendersi anche con le armi? Eppure non posso evitare di domandarmi: quando? sempre? a quali costi? con quali previsioni?». Diceva, quindi, di essere andato a leggersi il Catechismo della Chiesa cattolica e di aver rilevato che, per la dottrina cattolica, neppure la guerra di difesa poteva essere ritenuta giusta a qualsiasi condizione. Fra queste, se ne poneva una che, a dire il vero, è nient’altro che puro buon senso, cioè «che ci siano fondate condizioni di successo» (n. 2309).
Egli quindi si domandava: «L’Ucraina aggredita ha davvero davanti a sé “fondate condizioni di successo”?… Al di là delle propagandistiche proclamazioni della propria futura vittoria da ambedue le parti, è ben difficile pensare che l’esercito ucraino possa prevalere sull’enorme potenza militare della Russia.
Stati Uniti e Comunità Europea stanno fornendo di armi l’Ucraina, contribuendo a prolungare il conflitto e aumentare il numero dei morti, da ambedue le parti, ma con non pochi dubbi sull’esito della guerra”.

Una guerra che, dalle dichiarazioni di allora, quando iniziò il conflitto, sembrava essere una guerra-lampo mentre si è trasformata in una guerra di stallo, quasi una guerra di trincea.
Quel che bisogna indovinare, ma che viene accuratamente nascosto da ambedue le parti, è proprio il dato che dovrebbe essere decisivo, sia per chi decide il da fare, sia per l’opinione pubblica che vorrebbe potersi fare un giudizio corretto, è il prezzo che si sta pagando, il numero dei morti.
Il Sito Vatican News, in un lungo, ben articolato e documentato articolo sulla situazione di Guglielmo Gallone, dà come seriamente credibile un totale di soldati, fra ucraini e russi, di circa 500.000 morti.
Già che si dica 'circa' e non si abbia il numero esatto delle vittime, come se uno più uno meno non cambiasse nulla, è di una vergognosa immoralità. Le vittime militari russe sarebbero quasi 300.000 (120.000 morti e 170.000 feriti), mentre quelle ucraine si aggirano intorno ai 70.000 morti e ai 120.000 feriti.
L'unico dato che viene ritenuto certo è che l'Ucraina ha perso in guerra una intera generazione di uomini.

In questi due anni il Papa mai ha cessato di denunciare l'assurdità della guerra: ne scrive Andrea Riccardi nell'articolo che segue.


CONFLITTO IN UCRAINA
IL PAPA E IL «PRIMATO» DELLA PACE

Andrea Riccardi,in “Corriere della Sera”, febbraio 2024

Due anni di guerra, dall’invasione russa all’Ucraina, hanno messo alla prova la collocazione della Santa Sede, criticata all’inizio dagli ucraini, la parte aggredita. Posizione difficile, anche per la presenza in Ucraina d’una Chiesa cattolica orientale con cinque milioni di fedeli, soppressa violentemente in epoca sovietica.
Francesco ha detto più volte la sua vicinanza al dramma ucraino e ha inviato in missione umanitaria i cardinali Kraejwski e Czerny.
I cattolici ucraini hanno talvolta accusato il papa di poca sensibilità verso la loro situazione. Nemmeno con Mosca i rapporti sono stati facili, per il distacco vaticano dalla narrativa bellica russa. Un colloquio via zoom tra il patriarca Kirill e il papa non è andato bene. L’ha detto al «Corriere».
Il contatto è però restato aperto, seppure ora è prevedibile una risposta ortodossa severa alla decisione vaticana a favore della benedizione alle coppie «irregolari» (un intreccio tra religioso e politico). Roma ha una Chiesa di 350.000 fedeli in Russia, astenutasi da discorsi nazionalisti, praticati invece dalle altre comunità religiose. Un’eccezione: il rabbino capo di Mosca, Goldschmidt, che ha lasciato la Russia, per non sostenere l’impegno bellico russo.

La posizione di Francesco sul conflitto esprime quella di lungo periodo dei papi: da Benedetto XV che, nel 1917, definì la guerra «inutile strage», a Pio XII e a papa Wojtyla. La guerra è «una sconfitta di fronte alle forze del male» (Bergoglio): la Santa Sede non ragiona come un tribunale internazionale, ma cerca la via della pace. Tale posizione sempre ha suscitato critiche (a Wojtyla per la contrarietà alle guerre del Golfo), ma costituisce una presenza originale e costruttiva sullo scenario del mondo. Corrisponde alla natura del cattolicesimo, un’internazionale con fedeli in quasi ogni paese del mondo. Anche da questa strutturazione, oltre che da motivi morali e dall’esperienza secolare, proviene questo «primato della pace».

Nel caso ucraino, Francesco mostra che tale posizione non è impassibilità verso un popolo che chiama «martoriato». Ha preso l’iniziativa, inviando il card. Zuppi, guida di una grande conferenza episcopale europea, nelle capitali ucraina e russa, per un contatto diretto e per vicinanza al dramma del conflitto. A Kiev, il cardinale ha incontrato il presidente Zelensky nel giugno 2023. Poi a Mosca ha parlato con il consigliere presidente russo per la politica estera Ushakov e Kirill.

Quella che Francesco ha chiamato «offensiva di pace» si è allargata a Washington, dove Zuppi ha incontrato il presidente Biden, e a Pechino, dove ha discusso con le autorità cinesi (i contatti sino-vaticani erano invece fino allora per lo più orientati allo stato della Chiesa in Cina). Non è mancata l’attenzione umanitaria. Si è approntato un meccanismo, che ha dato i primi risultati, per identificare e far rientrare i minori ucraini portati in Russia. Ma, al di là dell’aspetto umanitario, cui la Santa Sede ha lavorato anche con lo scambio di prigionieri, la missione Zuppi ha aperto un canale di contatto, che solo la Turchia o i paesi del Golfo avevano. Attraverso tale canale è passato il messaggio che, malgrado l’infuriare della guerra, non si rinuncia alla speranza del dialogo. Del resto, c’è oggi un positivo apprezzamento ucraino dell’azione della Chiesa, come mostrano recenti riconoscimenti del governo ai cardinali Parolin e Zuppi.

Lo scetticismo di qualche settore occidentale o ecclesiastico verso il papa o la missione di Zuppi nasce dalla fatica a capire chi non canta con il coro o contro di esso. Manifesta un’incomprensione di fondo sul Vaticano che, anche come realtà in Europa, da sempre rappresenta una terzietà o un’alternativa alla guerra. Ha valore sul lungo periodo, creando spazi e opportunità. È un valore che, durante la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti di Roosevelt compresero pienamente. Forse lo scetticismo è anche prodotto di una cultura, per cui si fa fatica ad immaginare un futuro diverso dalla guerra. Ma allora vorrà dire una guerra più larga? L’aggressione russa, nella sua gravità, ha eroso la fiducia nel dialogo; ma proprio per questo, l’azione di soggetti, come il Vaticano, può rivelarsi rilevante perché il futuro non sia il tragico abbandono dell’Ucraina (la «dottrina» Trump) o una guerra più grande.

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LE RADICI PROFONDE DELLA GUERRA

Le guerre in corso non cessano e non giunge nemmeno una tregua a dare respiro e speranza a tanti, troppi coinvolti in queste carneficine.
Lo ripetiamo continuamente: “Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra” (Papa Pio XII).
Non ci stanchiamo, quindi, di dare voce a riflessioni e pensieri che cercano di andare alle radici profonde della violenza.
Ancora non smettiamo di ripetere quanto continuiamo a scrivere:
la guerra deforma e deturpa chi la fa. Infatti, chi all'inizio ne è solo vittima, tende in fretta ad assomigliare al proprio carnefice.
La guerra schiaccia tutti sugli stessi comportamenti di assassinio e di massacro. In guerra si diventa tutti uguali dal momento che i versanti si confondono. Così, chi sta dalla parte giusta (ad esempio chi é aggredito), entrato in guerra, assume un’eguale condotta di disprezzo e di massacro della vita
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Siamo di fronte al mistero del male: qui sta la radice profonda della guerra.
Chi non considera la realtà sconvolgente del "male", la sua dimensione diabolica, divisiva, non capirà mai ciò che è la guerra.
Mettendo tra parentesi il mistero del male finirà irrimediabilmente per considerare la guerra come “naturale”, finirà per convivere con le sue diaboliche ragioni.
E' tempo di Quaresima e proprio questo tempo liturgico ci insegna che le vere tentazioni non odorano mai di zolfo ma sempre di incenso, e le ragioni della guerra appaiono sempre a “ fin di bene” come a “ fin di bene” erano le tentazioni diaboliche che tentarono Gesù sul monte.
E' tempo di Quaresima, tempo di conversione, tempo di pregare per la pace, tempo di pregare per un mondo che non sa più fare pace.


LE RADICI PROFONDE DELLA GUERRA

Mons. Angelo Scola, gia Patriarca di Venezia e Vescovo di Milano

Come dire una parola sulla guerra che non sia disperatamente inadeguata? Due volte nel secolo scorso è calata sull’intero globo, portando con sé il suo lugubre corteo di lutti e tuttora sembra in corso una terza guerra mondiale «a pezzi», per riprendere l’espressione di papa Francesco.
Tutti credevano che il primo conflitto, il primo a fregiarsi del titolo di “mondiale”, sarebbe stato una guerra-lampo, ma a ben vedere si spense solo nel 1945. Autentica «guerra dei Trent’Anni del ventesimo secolo» – come ebbe a definirla Raymond Aron -, provocò sconvolgimenti che ancora incidono in profondità in tutto l’Occidente ma anche nel mondo musulmano e nell’Asia orientale.
Eppure non è sufficiente rievocare quelle immagini di allora, come non basta l’elenco delle ferite materiali e psicologiche inferte alle città e ai loro abitanti. Per rifiutare la guerra occorre sforzarsi di pensarla; mentre rinchiuderla nel regno del puro irrazionale significa esporsi al pericolo del suo eterno ritorno.
Vorrei rievocare quella che mi sembra essere la grande intuizione di René Girard, che nel suo celebre saggio «La violenza e il sacro» scrive:
«Per far cessare la vendetta non basta convincere gli uomini del fatto che la vendetta è odiosa; è proprio perché ne sono convinti che si fanno un dovere di vendicarla».
Con queste paradossali parole Girard denuncia il rischio di un pacifismo ingenuo, che s’illuda di chiudere le porte della guerra con la semplice dimostrazione della sua dannosità sociale ed economica.
Finché il conflitto è lontano, presentarne gli aspetti distruttivi svolge opera di dissuasione. Ma quando l’incendio s’avvicina, quegli stessi aspetti distruttivi diventano una potente spinta emotiva per mobilitarsi e rispondere alla minaccia. Non a caso, ogni ostilità tende a presentarsi come la risposta a un’aggressione precedente, con immancabili scambi di accuse su chi abbia cominciato per primo, come dimostra il dibattito storiografico, tuttora aperto, sulle responsabilità nello scoppio della prima guerra mondiale.

Insomma, tutti sanno che la guerra è odiosa. Lo sanno talmente bene che, pur di evitarla, sono disposti… a farla. Questa considerazione può forse spiegare perché l’uomo, in fatto di guerra, sembra non imparare mai dalla sua storia. Istruttiva è la vicenda del Novecento: è innegabile che l’«inutile strage » del primo conflitto mondiale abbia condotto a una messa in discussione della violenza in termini fino ad allora sconosciuti.
Il Novecento è infatti il secolo dei movimenti pacifisti di massa, del magistero di san Giovanni XXIII, del beato Paolo VI e di san Giovanni Paolo II, di personalità politiche della statura di Gandhi o di Martin Luther King. Ma è anche il secolo che ha conosciuto in assoluto più morti militari e civili e che ha vissuto sotto l’imperio della paura; paura dell’annientamento atomico prima, diventata oggi paura di un terrorismo che viene percepito come pericolo mondiale, anche oltre le sue effettive capacità militari.
Il nostro è quindi un tempo profondamente contraddittorio, sospeso tra aspirazioni sempre più nobili e pericoli sempre più brutali. Per realizzare le prime e scongiurare i secondi occorre allora chinarsi sulle radici profonde della guerra. Indagare da dove venga all’uomo la ricorrente tentazione della violenza è quindi essenziale per non ridurre tutto a una questione di congiunture sfavorevoli, cambiando le quali s’instaurerebbe una pace perpetua.

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ISRAELE E IL PARADOSSALE RAPPORTO RELIGIOSO CON LA PALESTINA
Una lettura storico-critica e esegetica dell'Antico testamento

La lettura che qui proponiamo non entra nel merito della questioni politiche interne ai due popoli e nemmeno si occupa delle questioni di politica internazionale che coinvolgono Israele e Palestina.
Questa lettura intende offrire un sintetico contributo allo storico rapporto di quei due popoli con quella terra (parte 1) e poi al “paradosso biblico della Terra di Israele nell’Antico Testamento” (parte 2) attraverso una lettura storico-critica ed esegetica delle Sacre Scritture ebraiche (per noi cristiani: Antico Testamento) con una particolare attenzione al profondo e millenario rapporto di Israele con Gerusalemme e tutta la Palestina: per il popolo ebraico non è in gioco solamente il diritto di ogni popolo ad avere una terra, sancito dal diritto internazionale e che vale ovviamente anche per i palestinesi, ma in gioco c'è una 'promessa' di tipo religioso, messianico che sta al fondamento stesso della storia e della fede ebraica.

Un tema che, se il lettore volesse ulteriormente approfondire, viene più ampliamente trattato in chiave teologico-esegetica nella sezione biblica del Sito che tratta del Deuteronomio e del cammino del popolo di Israele verso la Terra Promessa, terra appunto 'promessa da Dio' e quindi sperata, sognata, invocata, conquistata ma sempre perduta.
Una lettura biblica e teologica che coinvolge anche noi cristiani che con Israele condividiamo l'Antico Testamento quale Rivelazione di Dio.


Parte 1) Israele / Palestina e i palestinesi musulmani e cristiani

Esiste un contributo che, per quanto indiretto, possa essere dato dalla ricerca teologica in merito al rapporto fra terra e popolo ebraico nelle Scritture e in merito al rapporto dell’Islam e dei palestinesi con la medesima terra?

Vale la pena, per una corretta lettura della storia che ha rilievo anche nella comprensione del presente, ricordare che una sola volta Maometto, secondo la tradizione islamica, sarebbe giunto a Gerusalemme.
Essa è chiamata in arabo Al-Quds – cioè “la [città] santa – proprio a motivo del viaggio notturno che il profeta fece portato da una “cavalcatura alata”, dalla Mecca a Gerusalemme, per salire poi “in cielo” in quella notte e ricevere rivelazioni ed essere infine ritrasportato alla Mecca tramite la stessa cavalcatura alata, nota dalle fonti islamiche come Burāq – sulla questione di tale pretesa islamica.

Un aiuto alla comprensione di tale episodio passato dovrebbe essere apportato dalle università che hanno il compito di fornire alle nuove generazioni islamiche gli strumenti critici e scientifici per valutare le fonti e discernere ciò che è storico e ciò che non lo è.

Qualunque cosa si pensi di tale episodio raccontato nelle fonti islamiche, ciò che è certo è che le armate islamiche giunsero a Gerusalemme e la conquistarono immediatamente dopo la morte di Maometto, dopo un assedio di sei mesi nell’anno 637. Ciò avvenne esattamente 5 anni dopo la sua morte. In pochi anni, dal 637 al 640 (l’anno in cui cadde infine Cesarea Marittima, il grande porto, attaccata secondo le fonti da 17.000 soldati arabi), le armate musulmane conquistarono l’intera Palestina e assalirono contemporaneamente l’Egitto.

Un lento processo di islamizzazione portò nei secoli ad una estrema riduzione della presenza cristiana, ma ancora oggi molti dei palestinesi sono rimasti cristiani, resistendo in ben millequattrocento anni di sottomissione – anche a Gaza è superstite una piccolissima comunità cristiana che è erede delle tradizioni antiche da ben prima di quel 637-640 che vide la fine del governo bizantino in quelle terre, e che si è via via arabizzata.

A sua volta il cristianesimo era lì sorto a motivo del Cristo, sotto dominazione romana.
Erano stati i romani “pagani” a togliere giurisdizione alla popolazione ebraica, ponendo fine alla relativa indipendenza con le armi, mentre il cristianesimo vi era giunto non con armato, ma a motivo di una progressiva cristianizzazione avvenuta in forma pacifica all’interno dell’impero che prima aveva perseguitato la fede cristiana e poi l’aveva via via accolta.

La diaspora ebraica si deve, quindi, con evidenza non ai cristiani, ma a Roma, al tempo in cui era ancora pagana.

I cristiani sono gli unici a non chiedere un possesso territoriale in Israele/Palestina, ma chiedono che sia conferito loro il diritto di essere cittadini a tutti gli effetti e non minoranza di serie B.

Comunque ai primi secoli, a partire dal 637, di dominio arabo seguì un periodo di dominio sempre islamico ma delle popolazioni turche a partire prima dai mamelucchi e poi degli ottomani – durato quasi otto secoli – che impoverì estremamente la popolazione araba locale, poiché tutti beni e la cultura vennero “traferiti” a Costantinopoli/Istanbul – non si deve mai dimenticare che le due popolazioni musulmane degli arabi e dei turchi non hanno quasi mai avuto buoni rapporti nei secoli.

Al dominio turco seguì quello brevissimo occidentale, di circa ventinove anni, del Mandato Britannico che, pur non potendo per ovvie ragioni di durata, fare più danni di quello ottomano, nondimeno non ha contribuito allo svilupparsi del paese.

Dal 637 in poi, le popolazioni arabe hanno abitato la terra vivendo prima sotto dominio ottomano, poi sotto quello del Mandato inglese e poi, con forme alterne, sotto la Giordania e l’Egitto e poi con parziali concessioni di libertà israeliana, ad eccezione degli arabi rimasti in Israele dopo il 1948, i cosiddetti Israeli Arabs che sono cittadini israeliani.


Parte 2) Israele/Palestina e le Sacre Scritture ebraiche

Se si guarda alla terra con gli occhi delle Scritture ebraiche e con la storia del popolo d’Israele, il rapporto con la terra è molto più decisivo che quello che ha con essa il popolo palestinese.
Se quest’ultimo non ha una storia religiosa peculiare di rapporto con quella terra – a parte il viaggio notturno del profeta – ha dalla sua, invece, tanti secoli di permanenza, dovuti però all’espulsione di Israele.

Israele, dai luoghi in cui dovette fuggire, ha sempre cantato alla terra d’Israele come al suo grande desiderio. L’espressione con cui si chiude il seder pasquale (la Pasqua ebraica) – “L’anno prossimo a Gerusalemme” – è esemplare di questo anelito che non è mai mancato in alcun tempo e in alcun luogo.

Il Tempio non è per Israele il luogo in cui è avvenuto un fatto religiosamente importante durato una notte, bensì è il centro – in ebraico si dice semplicemente hammaqom, il “luogo”, per eccellenza – di ogni promessa e di ogni attesa.

Ovviamente nella disputa su di esso tutto è complicato non solo dal fatto, unico nella storia, che due religioni guardino allo stesso luogo come sacro, ma ancor più dal fatto che i musulmani si dichiarino figli di Abramo, ma ritengano totalmente false le Scritture di Israele e disconoscano anche storicamente la storia di Israele, per cui non prendono nemmeno in considerazione che quello sia “almeno” anche il luogo di Israele.

Per gli arabi musulmani, la storia biblica di Israele, così come la racconta l’Antico Testamento, è semplicemente falsa per cui nemmeno la leggono – nessun musulmano legge la Bibbia, a differenza dei cristiani che ritengono ispirata da Dio ogni parola dell’AT, perché secondo la rivelazione coranica essa è falsa e falsificata dagli ebrei e dai cristiani. Ciò che dei diversi personaggi biblici è ritenuto vero è ciò che è raccontato di loro nel Corano che fornisce avvenimenti molto diversi da quelli biblici, ne tace molti, e ne aggiunge altri.

In realtà, non c’è alcun dubbio che l’Antico Testamento contenga la promessa di Dio della terra al suo popolo Israele.

Ci sono però considerazioni di tre tipi che vanno evocate per comprendere più criticamente il contributo della Bibbia alla discussione.

A/ Innanzitutto una considerazione che si è sviluppata solo nei moderni studi storico-critici sugli eventi della storia veterotestamentaria.
L’esegesi moderna e ancor più l'esegesi più recente dubita fortemente di molti episodi, soprattutto di quelli precedenti all’esistenza dei due regni di Giuda e di Israele divisi fra di loro.
Nessuno oggi crede più alla conquista di Gerico – solo per fare un esempio – ed i racconti di conquista sono proprio quelli che rendono problematica la lettura della Bibbia anche agli stessi cristiani palestinesi che non vi si riconoscono e che non sanno come interpretarli, al punto che qualcuno chiede che non siano nemmeno letti nella liturgia.

Oggi l’esegesi moderna ha evidenziato che non solo essi hanno bisogno di una lettura allegorica, - come è sempre avvenuto – ma che la conquista, così come è descritta, ad esempio, nel libro di Giosuè, non è mai avvenuta.

B/ Ma gli studi biblici moderno mettono in risalto anche che le tre grandi sezioni della Scrittura ebraica si chiudono tutte in maniera aperta, con una terra che in quel momento non è ancora in pieno possesso di Israele oppure è stata persa e deve essere riabitata.
Questo permette di ricordare come il rapporto di Israele con la sua terra, pur essendo indiscusso, è sempre stato problematico, da un punto di vista biblico e teologico.

Lo ricorda J.L. Ska che ha mostrato, con una lettura di rara profondità, come le tre grandi sezioni della Bibbia ebraica si chiudano tutte in maniera aperta:
-la Torah (in greco Pentateuco) si chiude con la morte di Mosè fuori della Terra promessa e con una Terra che ancira tutta da conquistare e che non è ancora realtà,
-i Nebiim (i Profeti) si chiudono con l’ultimo capitolo di Malachia, che narra di un tempo in cui probabilmente il popolo non aveva ancora ricostruito il Tempio, ed è un annuncio del ritorno di Elia che dovrà purificare Israele nel futuro,
-i Ketubim (gli “Scritti”, corrispondenti ai nostri Libri sapienziali), si chiudono con l’ultimo capitolo del secondo libro delle Cronache che annunzia che Israele in esilio potrà tornare a Gerusalemme su invito del re Ciro di Persia.

Insomma, si potrebbe dire da un punto di vista biblico che la promessa della terra è certa, ma che la Scrittura dice che poi essa è sempre ancora da ottenere, perché è sempre stata persa, così come il Tempio è sempre stato distrutto. Di fatto la storia di Israele, prima della ricostituzione dello Stato di Israele nel 1948, è storia di una terra persa al tempo dei romani, ma, in fondo, anche prima.
È un paradosso di Israele che la terra (che è promessa) e il Tempio (che è il luogo della presenza stessa di Dio) siano nella Scrittura e nella storia coeva al Nuovo Testamento l’una persa e l’altro distrutto.

C/ Un altro grande questione biblica va evocata e precisamente il fatto che ad Israele è certamente promessa quella terra, ma non in esclusiva. Sono numerosissimi i brani che chiedono al popolo eletto di aver cura dello straniero che dimora nei propri confini. Da questo ulteriore punto di vista teologico, non è da escludere a priori una visione dove l’intera terra di Israele possa essere tutta un unico Stato, cioè lo Stato di Israele – cosa ovviamente inaccettabile per Hamas e per molti palestinesi, ma di fatto accettata dai cosiddetti Israeli arabs, palestinesi con passaporto israeliano – dove però i palestinesi non siano cittadini di serie B, bensì cittadini a tutti gli effetti.

Ovviamente tale lettura teologica è differente da quella cristiana la quale, leggendo i testi sulla terra d’Israele in senso allegorico, come annuncio di una vita in piena comunione con Dio, non rivendica il possesso di alcun territorio.

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LA PACE PROFEZIA DEL REGNO

Da più parti, ormai, anche qui in Occidente si levano voci che, a loro volta, sollevano appelli tra politici, intellettuali, analisti e strateghi militari. Si tratta di voci e di appelli che stanno prendendo una direzione che di volta in volta si precisa in modo preoccupante. Si parte da posizioni molto disparate. Talvolta addirittura tra di loro contrastanti. Eppure, prima o poi, le distanze si assottigliano e le diversità si compongono. Si arriva così a costruire una convergenza di pensiero. Si afferma allora che la gente, i popoli, devono giungere a rendersi conto che occorre, anche psicologicamente, prepararsi all'eventualità di una guerra.
La gravità di questa affermazione è evidente: la guerra viene considerata come realtà che non può essere scansata. In questo senso, diventa evidente e del tutto necessario prepararsi anche psicologicamente alla guerra.
Così, il discorso della guerra smette di trattare la realtà di conflitti in atto lontano da se stessi. Passa al prendere in considerazione il fatto che la guerra non è più lontana ma si fa vicina. Ragioni e torti della guerra non coinvolgono più belligeranti lontani. Non sono più realtà per altri e semplice discussione astratta per se stessi.
Tutto questo viene comprovato dal fatto indiscutibile che, ormai, non si considera più la pace come bene necessario che nulla può mettere in discussione. Le voci dissonanti, a partire da quella di Papa Francesco, vengono sbrigativamente giudicate essere voci ingenue, visionarie.
Scrive Mario Giro, già responsabile della Comunità di S. Egidio: “La storia narra che chi decide per la guerra come unica scelta si comporta sempre così allo scopo di farla esplodere, oppure è talmente accecato dalle passioni (nazionaliste) da farla scoppiare senza nemmeno volerlo. In fondo è la stessa cosa: prima della guerra c’è la non-pace, la fine della pace nei discorsi e nelle parole, nella psicologia collettiva, nelle attese dei più. Scriveva l’autore ungherese Sandor Marai nel 1938: «La guerra era ancora una prospettiva indistinta … ma gli avvoltoi delle catastrofi umane, i profittatori dell’economia bellica si tenevano già pronti in attesa di banchettare sulle carcasse delle vittime del gran funerale. Non c’era ancora la guerra e già non c’era più la pace». Ed è ciò che stiamo vivendo in Europa: si crede di poter fare a meno della pace, che la pace non sia più un obiettivo in cui sia lecito sperare, perseguire”.

Quel che allora va chiarito è un punto preciso. E' questione di chiarire in fretta e col massimo di concretezza l'asserto ora emerso: quando nella coscienza si afferma la possibilità che ci sia la guerra, si fa fatale per la coscienza accettare che sopraggiunga il momento in cui la pace finisce. E' vero che la guerra non c'è ancora. Ma, purtroppo, essa è di fatto accettata. Così, questa non-guerra diventa pertanto necessariamente l'anticamera della fine della pace. In altri termini, per un qualche tempo la guerra costituisce un non detto. Ben presto, però, il non detto finisce. Si parte a dirlo.
Qui, gli osservatori attenti comprendono agevolmente che la cronaca degli ultimi anni è fortemente contrassegnata da questo stato di non-guerra che già non è più pace.
Ma poi inevitabilmente deflagra la guerra, scrive ancora M. Giro. Essa è un ingranaggio svincolato dall’umano. Segue una sua propria logica. Una volta iniziata, è molto difficile fermarla, da parte di chi l’ha cominciata, perché molti altri elementi entrano in gioco e rendono quasi impossibile il suo termine. All’inizio c’è sempre una decisione politica ma per terminarla servono tali e tante condizioni che rischiano di renderla permanente.
Un tempo la fine della guerra risiedeva nella vittoria di una delle parti. Lo si pensa ancora. Ma si tratta di un vecchio modo di pensare. Oggi, la vittoria è diventata elusiva e sfuggente. In qualunque conflitto ci sono troppi attori ibridi che non si possono battere perché non si dichiarerebbero mai sconfitti (come Hamas e i terroristi in generale). Infine si può dire anche che la guerra deforma e deturpa chi la fa. Infatti, chi all'inizio ne è solo vittima, tende in retta ad assomigliare al proprio carnefice. La guerra schiaccia tutti sugli stessi comportamenti di assassinio e di massacro. In guerra si diventa tutti uguali dal momento che i versanti si confondono. Così, chi sta dalla parte giusta (ad esempio chi é aggredito), entrato in guerra, assume un’eguale condotta di disprezzo della vita e massacro
".

Queste parole affermano un improrogabile compito. Chiarire al massimo la pericolosità di diventare persone della non-guerra. Persone che hanno smesso di rifiutare la possibilità della guerra perché, pensano e dicono, è qualcun altro a volerla e a imporla. E, intanto, non si accorgono più di essere diventati loro stessi persone che accettano la guerra. Quindi, loro diventeranno persone che a un certo punto si metteranno a ragionare a partire dalla guerra. Loro, giungeranno a non capire più che la guerra "non conviene per niente perché si finisce per assomigliare all’aggressore mentre tutto si confonde, anche le ragioni e i torti, in un bagno di sangue senza risultati”, scrive sempre Mario Giro.

Noi siamo comunque convinti che non è per nulla conveniente terminare qui il discorso.
Noi crediamo che, qui, è necessario imprimere su questo discorso un risvolto tipicamente cristiano. Fare cioè notare che siamo giunti a ritrovarci di fronte a quel buco nero  che rende drammatica la realtà della storia umana. In una parola, tutto ciò ci pone di fronte al mistero del male che, in quanto supremo buco nero, tende ad attrarre a sé tutto per inglobarlo in se stesso. La guerra è una chiara espressione concreta di questo buco nero. Attrae a sé con una forza incontrollabile da tutti. O ci si gira alla lontana, oppure, si finisce per restarne irrimediabilmente inglobati. Chi non considera la realtà sconvolgente del "male", satana, non capirà mai ciò che la guerra, come tale, in ogni caso è e determina. Per questo, finirà per sottovalutare la portata reale del suo male. Mettendo tra parentesi il più di questo male, prenderà in considerazione soltanto aspetti marginali. Non si renderà più conto di cosa sta parlando o di cosa si mette a compiere. Finirà intrappolato in qualcosa di più grande di lui che, lui, follemente supponeva di potere controllare e gestire.
A questo punto, però, emerge grandiosa e anche luminosa la realtà della pace. Noi, ora, vogliamo cantare il mistero divino insito nella pace. Lo facciamo ispirandoci a  sant'Agostino. Nel libro XIX del Civitate Dei, Agostino spiega che la pace è il vero fondamento della creazione. Tutto, infatti, è stato voluto da Dio. Effettivamente, la realtà terrena parte dalla persona di Dio. Oggi troppi lo stanno ignorando o, addirittura, negando. Noi cristiani dobbiamo, al contrario, ricordarlo in continuazione. Queste pagine di Agostino ci interessano e ci ammaestrano. Ma, insieme, ci illuminano e ci rafforzano interiormente. Quando Agostino parla di pace, in realtà ricostruisce il senso profondo della realtà terrena. Egli considera la realtà come insieme di relazioni che Dio ha previsto e secondo esse Dio ha dato vita a tutta la realtà terrena. Per Agostino, pace è la forma che Dio ha dato alla realtà. Dio ha pensato tutta la realtà terrena come relazione. In particolare, ha creato l'uomo e la donna a sua immagine e somiglianza. A loro ha affidato l'universo. Loro sono, pertanto, custodi dell'insieme di relazioni che danno vita alla realtà terrena.

La guerra e, prima ancora, la "non-guerra", contrastano radicalmente con la creazione divina e si oppongono ai compiti assegnati da Dio all'uomo e alla donna, quando li ha resi custodi della creazione. Per questo, Agostino quando parla di pace, si rifà alla creazione. Quindi, al sapere e al volere di Dio. Non fatica a scoprire i vari livelli e i diversi ambiti nei quali si realizza, si sperimenta, si mette in pericolo o si può redimere la relazione tra le persone, la loro convivenza: la casa, (domus), la citta, (urbs), la terra, (orbis), e l’universo, (mundus).
Agostino vede allora i conflitti nelle varie dimensioni politica, economica, istituzionale, culturale e morale semplicemente come cambiamenti di prospettiva impressi dall'uomo, dominato dal potere del male, sulle varie realtà terrene. Ne viene che, per Agostino, la pace si collega al mistero di Dio che prima ha creato l'universo e, successivamente, lo ha affidato alla fragile libertà delle persone.

Per noi è doveroso concludere rifacendoci alle parole di mons. Montini, che Pio XII fece sue: "Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra". Queste parole, se capite correttamente, divengono ben presto molto esigenti per le coscienze. Baruch Spinoza diceva che la pace non è assenza di guerra. E' piuttosto virtù, stato d'animo, disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia. Noi, riprendendo il pensiero di Agostino, aggiungiamo che la pace va cercata, costruita, fermamente voluta, tenacemente custodita anzitutto come testimonianza data a Gesù nel vivere quotidiano che ha detto: “Beati i costruttori di pace (letteralmente, in greco: i ‘facitori’, coloro che fanno qualcosa di positivo) perché saranno chiamati figli di Dio”.


Dall’Iraq all’Ucraina come rischiarare il buio della ragione

Vincenzo Rizzo

La storia ha improvvisamente cominciato a correre, ma in direzione contraria all’uomo. Soffrono gli innocenti, muoiono i giovani, patiscono i popoli. L’invasione dell’Ucraina da diverse direttrici con il lancio di missili russi a fine anno per un valore di oltre 1,3 miliardi di dollari, la disumana e azzardata azione terroristica di Hamas con la massiccia risposta militare israeliana e le sofferenze dei civili palestinesi, le minacce a Taiwan e il rischio reale di uno scontro globale: scenari che mettono in gioco un’antica categoria, quella del tragico.

Cerchiamo, però, di rimuovere il tragico dalla nostra vita, per non vedere lo scatenarsi delle forze irrazionali e il caos regnante. Riusciamo ad anestetizzare le immagini terribili che vediamo in televisione, perché non sentiamo l’odore degli sfollati costretti a non lavarsi, perché non vediamo le lacrime delle madri dei bimbi uccisi dalla furia iconoclasta e perché non sentiamo la voce straziata dei feriti. Non pensiamo agli scenari che possono prodursi o ci distraiamo dalle notizie cattive con il divertissement di pascaliana memoria. Il tragico, tuttavia, nell’ottica greco-classica, sovrasta l’umano. È ciò che supera la dimensione razionale e si afferma triturando volontà, distruggendo intenzioni, portando al lamento straziato per la condizione umana. Robert D. Kaplan, politologo americano, nel suo libro La mente tragica. Paura, destino, potere nella politica contemporanea (Marsilio, 2023) considera il tragico come un elemento interpretativo necessario e decisivo per affrontare il nostro tempo. Scrive il suo lavoro, perciò, con ricchi e dotti riferimenti ai classici greci, a Shakespeare e a Nietzsche, a partire dalla sua sofferta esperienza.

aplan, corrispondente di guerra su più fronti, era stato favorevole all’invasione dell’Iraq. Ma proprio la visione in presa diretta dello scatenarsi di un gioco più grande, più vasto e disumano rispetto a quello pensato e previsto ha generato nella sua coscienza un radicale ripensamento della posizione iniziale. “A spingermi a scrivere questo libro è stata la depressione di cui ho sofferto per anni dopo l’errore di valutazione che avevo commesso rispetto alla guerra in Iraq. Avevo fallito il mio test di realismo, e addirittura sulla questione più importante della nostra epoca! Mi sarebbe per sempre risuonata nella mente l’osservazione del filosofo persiano medievale Abu Hamid al-Ghazali, secondo cui un anno di anarchia è peggiore di cent’anni di tirannide”.

La mancanza di timore per il caos, infatti, ha prodotto Falluja, il bombardamento del santuario di al-Askari a Samarra (luogo sacro sciita), un numero enorme di morti, la nascita dell’Isis. È mancata, per Kaplan, la “lungimiranza apprensiva”, cioè la consapevolezza che le cose non sono sotto il nostro completo controllo e possono volgere al peggio. C’è stata nei decisori dei destini dei popoli una hybris incapace di pensare la fallacia strutturale dell’uomo e la sua inanità (Schopenhauer). Perciò, per analoghi motivi, nella storia, diverse volte e nelle più svariate circostanze sono state superate linee rosse con incosciente tracotanza e senza sapere ciò che si faceva, provocando danni enormi. Altre volte non ci si è saputi fermare, oltrepassando il limite imposto dalla realtà. In Afghanistan dopo il rovesciamento del regime dei talebani “i vertici della Difesa e della Sicurezza interna hanno smesso di pensare tragicamente: hanno inviato un enorme esercito con un’ammuffita burocrazia verticale a occupare un Paese primitivo, dal territorio vasto e montuoso”, non facendo tesoro della grave sconfitta dell’Armata rossa nel periodo sovietico e di tutto quello che aveva prodotto, peggiorando la situazione.

La necessità storica come causa di una guerra, il disegno egemonico, il neoimperialismo o l’affermazione di principi astratti, insomma, fanno entrare nel tempo pulsioni distruttive e autodistruttive non più controllabili.

Nel chiuso cosmo tragico di Kaplan non esiste la redenzione: non è possibile una storia come quella di Sonja e Raskol’nikov in Delitto e castigo. I terribili crimini di Hitler e Stalin, Mao, Pol Pot sono stati il frutto di una cecità inveterata, perciò senza scuse e senza una possibile apertura ultima. Purtroppo, hanno avuto un seguito nel XXI secolo. Le scelte rovinose si sono susseguite, portando all’irruzione dell’irrazionale nella storia. Non un cigno nero alla Taleb, ma una serie di eventi caratterizzati dal buio della ragione. Insomma, per l’autore, Falstaff, Iago, Tito Andronico e le Troiane, con il loro pianto provocato dall’imperialismo, sono ancora in scena e nostri contemporanei con tutto quello che consegue.

Di fronte al caos dionisiaco che minaccia, smembra e devasta ed è perennemente in agguato, per Kaplan bisogna sviluppare una sensibilità tragica priva di orgoglio e in grado di fare ciò che è accettabile, per evitare la catastrofe. Come Nixon e Kissinger, che firmarono con la Cina una tregua con l’obiettivo di controbilanciare la potenza nucleare sovietica, e poi avviarono anche con l’URSS un percorso di disgelo.

In un’ottica di tal genere, il politico esemplare per eccellenza, secondo Kaplan, è stato George Bush senior, capace di accettare il limite e non andare oltre. Un presidente non trascinato da orgoglio, vanagloria e insensibilità tragica. Censurò con fermezza il massacro di Tiananmen, raffreddando il rapporto con Pechino, ma senza rompere le relazioni diplomatiche. E dopo aver liberato il Kuwait non si spinse fino a Baghdad. Ebbe una posizione prudente anche riguardo alla dissoluzione dell’URSS, suscitando polemiche e critiche da parte della stampa americana.

Bush senior, però, aveva conosciuto la guerra e visto la morte. Aveva, perciò, un sapere sulla possibilità della tragedia. Proprio chi non ha mai visto la guerra o fatto esperienza della morte corre il rischio della presunzione definitiva. Il politico di oggi ha dunque più che mai bisogno dei classici e dei tragici. Per Kaplan, perciò, sono più importanti Eschilo, Euripide e gli autori citati, rispetto agli strateghi e agli studiosi di geopolitica. I classici, infatti, mettono in luce il destino dell’uomo in tutta la sua grandezza e in tutta la sua incontrollabilità.

Le tesi di Kaplan sono sicuramente pregnanti e argomentate, ma sarebbe interessante che tutti i politici che decidono le sorti delle nazioni e sono coinvolti nelle grandi crisi attuali o le hanno prodotte con le loro scelte azzardate pensassero al tragico, fino in fondo. Ciò potrebbe ridurre il rischio di trovarsi giocati da un gioco finale più grande di quello pensato prima e macchiato di sangue nazionale e universale. Non bisogna dimenticare, peraltro, a tal proposito, che chi invoca la necessità storica di una scelta chiude il terreno della possibilità, consegnandosi al cieco “ciò che non può essere altrimenti”.

Tuttavia, forse è anche il caso di riprendere la grande e dimenticata lezione di Niebuhr sull’incidenza del peccato nella storia e sugli argini necessari che possono evitare la sua esplosione. D’altro canto la grande tradizione cristiana ritiene che il giudizio sui propri atti cattivi non è solo in un oltre, ma è presente già ora, in fondo al cuore: si chiama dis-grazia. Quest’ultima può cedere però il passo di fronte a un auspicabile spostamento di posizione, a un cambiamento di prospettiva.

È quello che ogni uomo ragionevole augura a sé e a tutti in un tempo che rischia di diventare sempre più incandescente.

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GIORNO DELLA MEMORIA

Il 27 gennaio, giorno della Memoria, giorno dedicato al ricordo della Shoà, dei sei milioni di ebrei trucidati nel cuore dell'Europa, nei campi di sterminio nazisti: vero “scandalo” di un genocidio perpetrato nella civilissima Europa cristiana.
Come è potuto accadere questo?
Come la nostra storia europea ha consentito che si preparasse e si realizzasse tale tragedia?
Elena Loventhal, ebrea sopravvissuta al genocidio, scrive:
La Shoah non mi appartiene perché è per definizione il rifiuto stesso della memoria ebraica: aspirava infatti a creare un’Europa judenfrei, libera da giudei, un presente e un futuro senza ebrei. Durante la guerra a Praga i nazisti raccolsero migliaia di oggetti rubati a case, sinagoghe, persone, con l’obiettivo di creare un museo della razza estinta, di lì a pochi anni.
Dunque il Giorno della Memoria non è la rievocazione di un passato in cui io possa identificarmi bensì del tentativo di negare qualunque presente e qualunque futuro al popolo ebraico. Di fare della sua storia un sottile strato geologico sepolto nel cuore della montagna, un cumulo di cenere buona per concimare i campi, come accadde tutt’intorno ad Auschwitz.

Di anno in anno, il giorno della memoria ci pone di fronte all’orrore dello sterminio. Per lasciarsi interrogare, il rituale della memoria deve fare i conti con la complessità, non adagiarsi sulla comoda convinzione che basti ripetere e accumulare per trasformare il passato in lezione morale, in scuola di civiltà. Nella ufficialità della ricorrenza deve trovare spazio anche una riflessione critica che sia esame di coscienza per ciascuno di noi «come mi sarei comportato io, in quelle circostanze? Avrei tradito, aiutato, subìto, lottato?», ed esercizio di una responsabilità morale che non dia nulla per scontato, che mai consideri ineluttabile quanto è accaduto. Definirlo “il male assoluto” è un tributo al dolore delle vittime, il riconoscimento di un’ingiustizia inaudita”.

Della Shoà ne parla anche Edith Bruck quando racconta del suo impegno nelle scuole per trasmettere ai giovani di oggi il ricordo di quell'orrore indimenticabile:
Finché avrò la forza di parlare racconterò ai giovani la mia storia. Io vado avanti perché la memoria è fondamentale, vitale. Anche solo salvare la coscienza di dieci ragazzi significa che la mia esistenza non è stata inutile”.
Edith Bruck, viene strappata dalla sua casa a 13 anni nel maggio del ‘44, con il padre, la madre e altri familiari e deportata in un ghetto al confine con la Slovacchia. Da lì ad Auschwitz e poi a Kaufering, Dachau e infine a Bergen Belsen fino al 15 aprile del ‘45, quando il campo di sterminio venne liberato dall’esercito britannico.
Oggi la Bruck assiste incredula a un mondo costantemente in guerra e con forza inesauribile non si stanca di denunciare le infinite ingiustizie e avvisa l’Italia e l’Europa affinche l’unicità della Shoah venga preservata.
La strumentalizzazione di chi pensa di: “paragonare la Shoah al dramma di Gaza mi fa soffrire. L’antisemitismo è ancora molto presente nella nostra società: gli ebrei sono accusati di una colpa collettiva. Ci dicono “voi” e ci accusano delle politiche del governo israeliano, mi chiedo cosa c’entri un ebreo italiano o francese con quel che decide Netanyahu”.


VOGLIO INSEGNARVI A NON ODIARE

Edith Bruck, intervistata da Luca Monticelli, 25 gennaio 2024

Quali sono i frutti della memoria?
«La speranza è il frutto più dolce. Questi ragazzi che ho incontrato nelle scuole hanno capito quel che è accaduto e hanno giurato che non diventeranno fascisti. I giovani ascoltano anche con gli occhi, hanno bisogno di sapere perché oggi purtroppo non hanno molti rapporti con i genitori e con i nonni, sanno qualcosa degli orrori della Shoah grazie al cinema, però la fiction non assomiglia mai alla verità. A scuola la storia si studia poco e male, quindi la consapevolezza che riescono ad acquisire è la mia consolazione».

Com’è nata l’idea di fare questo libro?
«Ho sempre ricevuto lettere e disegni, non volevo perderli. Mi dispiace aver dovuto fare una selezione e averne lasciati fuori molti, però non si poteva pubblicarli tutti».

Dalle lettere emerge che i giovani si sentono cambiati dopo averla incontrata e ascoltata.
«La loro voglia di sapere è per me un dovere morale, il loro ascolto mi riempie di speranza, che saranno migliori dei loro predecessori, che vivranno in pace. La mia vita testimonia che c’è sempre una luce nel buio a cui aggrapparsi. Non è mai tutto violenza e odio, mai tutto è perso. A ogni essere umano dobbiamo rispetto, mai rivalsa, vendetta, odio».

Come fa a toccare le corde degli studenti così nel profondo?
«È importante trasmettere le emozioni. Ci emozioniamo insieme, loro piangono e anche io piango. Vogliono sedersi accanto a me e baciarmi, e anche io li bacio. Ogni volta è una cosa bellissima. A loro racconto le luci nelle tenebre, perché non si può descrivere solo la sofferenza e il disastro, molte volte sono io imbarazzata a dire quel che hanno fatto e fanno gli uomini. Non parlo delle cose atroci, che ho visto nazisti giocare a calcio con la testa di un bambino. Alcune cose sono indicibili».

La luce nel buio e la fiducia negli essere umani sono temi ricorrenti nei suoi libri.
«Papa Francesco mi ha detto: “Edith, basta una goccia di bene per migliorare questo mare nero”. E io gli ho risposto che ho fatto una pozzanghera».

Al Pontefice ha raccontato anche del soldato tedesco che ad Auschwitz le ha dato un guanto bucato.
«Quando è venuto a trovarmi a casa il Papa mi ha chiesto: “In quel buco nel guanto cosa c’era?”. “La vita”, gli ho risposto».

Non prova mai rancore o vendetta?
«Mai, sono totalmente libera, non c’è spazio in me per sentimenti di vendetta e odio. È la mia salvezza, io non ho odiato neanche i nazisti, mi facevano pena per la loro disumanità. Ricordo i quattro ragazzini della gioventù hitleriana che nel campo, mentre eravamo alla disinfestazione, ci sputavano nelle parti intime raccogliendo più saliva possibile. Io li guardavo non con odio ma con pena, loro sono stati disumanizzati dalla scuola nazista. Testimonio dal 1959, da quando è uscito il mio primo libro. Non dobbiamo essere pessimisti, io credo che quando noi sopravvissuti non ci saremo più qualcosa rimarrà, i giovani faranno testimonianza per noi».

Quest’anno il Giorno della memoria si celebra in un clima diverso, c’è il tentativo di sovrapporre la Shoah ad altre tragedie. Gli studenti palestinesi hanno annunciato una manifestazione a Roma il 27 gennaio citando Primo Levi. Che cosa ne pensa?
«Nulla è paragonabile alla Shoah, allo sterminio di sei milioni di ebrei, bisogna preservare la sua unicità. È stata una fabbrica di morte programmata a tavolino. I nazisti hanno usato persino i capelli e i denti dei morti ammazzati. Mi fa soffrire sentire certi discorsi, così si attenua la gravità della Shoah».

L’Europa vive una recrudescenza dell’antisemitismo, perché?
«L’antisemitismo è ancora molto presente nella nostra società, dopo l’inizio della guerra a Gaza ho visto subito una colpevolizzazione collettiva degli ebrei, è una cosa tremenda. Ci dicono “voi” e ci accusano delle politiche del governo israeliano, mi chiedo cosa c’entri un ebreo italiano o francese con quel che decide Netanyahu, possiamo essere d’accordo o in disaccordo con la politica israeliana ma perché disegnano le svastiche, le stelle di David e deturpano le pietre d’inciampo? È Hamas che ha detto che vuole uccidere gli ebrei in tutto il mondo. Il guaio è che gli ebrei vengono giudicati nel loro insieme, sempre. Le voglio raccontare un episodio rivelatore, mi capitò con il mio amico Calvino».

Cosa successe?
«Un giorno venne qui a casa e mi disse: “Voi dovete andare in America perché il vostro pubblico di lettori è là”. Io gli risposi: “Cosa vuol dire voi? Voi ebrei?”. Io sono sempre cresciuta con questo “voi”. Se c’è un colpevole tutti gli ebrei sono colpevoli, se c’è un ricco, sono tutti ricchi. Gli ebrei vengono giudicati ovunque, nel bene e nel male, insieme».

Dopo questo libro come proseguirà la sua opera sulla memoria? Continuerà ad andare nelle scuole?
«Vado avanti finché ho la salute e la voce, è importante, dà un senso alla mia sopravvivenza. Queste lettere e questi disegni ripagano di tutta la mia fatica e mi confermano che è utile quello che sto facendo».

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LA GUERRA
Solo la follia vitale del Vangelo è in grado di opporsi alla follia letale del mondo

 


Poche, sintetiche notizie, quasi dei flash. Con pochissime parole vengono, purtroppo, veicolate affermazioni tremende. Si tratta di notizie che sembrano volere gelare ogni speranza di pace. Se un tempo era la parola pace il fattore che ravvivava le coscienze e, proprio per questo, era messa alla base della vita, oggi la parola guerra è cinicamente messa al suo posto. Così futuro non è più pace. Ormai, dicono i potenti, futuro è guerra. Ma passiamo alle notizie.

Al termine della riunione dei capi di Stato Maggiore alleati il Presidente del Comitato militare della Nato, l’ammiraglio Rob Bauer, ha detto:
Le opinioni pubbliche dei Paesi che compongono la Nato 'devono capire' che non si può più dare la pace per 'scontata' nei prossimi anni e che la guerra è un fenomeno che coinvolge tutta la società, che deve sostenere i militari 'con uomini e mezzi”.

In un'intervista, il Ministro britannico della Difesa Grant Shapps ha commentato questa affermazione dicendo: “il mondo è in una fase 'prebellica'. Un grosso conflitto potrebbe scoppiare entro cinque anni in alcune aree chiave contro le principali potenze mondiali in ascesa. Non si tratta di un suo timore, sta rivelando a cosa stiano puntando affinchè iniziamo a prepararci psicologicamente

Quasi a confermare queste dichiarazioni è arrivata la conferma di una esercitazione della NATO, esercitazione anti Russia definita 'Steadfast Defender 2024' che viene cosi descritta: “È l’esercitazione più massiccia da decenni a questa parte”, ha detto il Comandante supremo alleato per l’Europa, il generale Christopher Cavoli. Steadfast Defender inizia la prossima settimana e durerà fino a maggio, con la partecipazione di novantamila soldati provenienti dagli alleati e dalla Svezia. L’alleanza dimostrerà la sua abilità di difendere l’area transatlantica con un trasferimento di truppe dal Nord America, in uno scenario di risposta a una minaccia militare”, ha spiegato.
Cos’è la Steadfast Defender 2024?
Ci sono tutti i presupposti affinché la Steadfast Defender 2024 sia la più grande esercitazione della Nato dalla fine della Guerra Fredda. L’obiettivo è quello di simulare una risposta rapida semmai dovesse esserci un’aggressione da parte della Russia, difendendosi da una coalizione nemica guidata dallo Stato di Occasus. Una scelta linguistica non casuale: in latino, il termine “occasus” – deriva dal verbo “occĭdĕre”, che significa “cadere, tramontare” – si traduce con tramonto, declino, rovina e, dunque, vuole indicare un’entità fittizia che rappresenti e incarni la Federazione Russa. La Steadfast Defender 2024, inoltre, coinvolgerà più di quarantamila truppe, tra le 500 e le 700 missioni di combattimento aereo e più di 50 navi. Inoltre, coinvolgerà i territori di Germania, Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia. A partecipare saranno 32 Paesi, inclusa la Svezia, nonostante il suo ingresso nell’Alleanza Atlantica debba ancora essere ratificato
”.

La gravità di queste affermazioni è evidente. Meno evidente è, invece, la gravità ancora più grande di una concomitanza davvero sorprendente. Queste notizie stanno passando sulla testa della gente quasi inosservate. Vengono infatti semplicemente affogate tra le molte altre notizie quotidiane. Oppure, queste notizie vengono passate quasi come affermazioni ovvie, normali. Ma intanto affermano che la guerra ormai diviene sempre più prossima e sempre più vicina. Accettarla è così l'unica reazione razionale. E' chiaro il fatto che queste affermazioni sono completamente omogenee e, quindi, in linea con la logica che oggi pretende di dominare il mondo. Di diventare prima possibile. Poi, accettabile. Infine, unica. Oggi, si conduce l'uomo a riscoprirsi capace di guerra. Artefice di risposte aggressive e implacabili. Portatore di forze espressione di una potenza che, inizialmente, ragiona in termini di occhio per occhio e dente per dente. Ma, ben presto, finisce per considerare questa stessa limitazione alla pari di una debolezza colpevole e fatale.

Un tempo, si credeva che la guerra riguardasse solo un passato lontano oppure Paesi lontani. Oggi si afferma tranquillamente, invece, che la guerra bussa ai nostri confini. L'attuale nostro tempo è ormai diventato la 'nuova epoca' nella quale la guerra deve prendere il posto della pace. Questa muova epoca che familiarizza con la guerra, senza rendersi davvero conto di cosa la guerra è e di cosa la guerra produce, deve finalmente interpellare sul serio la nostra coscienza di cristiani. E deve compierlo ponendo noi cristiani di fronte a scelte evangeliche. Quindi, assolutamente radicali.
Così, alla logica corrotta e perversa del mondo, il cristiano è chiamato dal Signore ad opporre la follia del Vangelo. Deve farlo, del tutto consapevole di parlare di follia a un mondo in cui cresce sempre più la convinzione che il Vangelo non è in grado di vincere i poteri dominanti questo mondo.

In Palestina, dove vive, il Cardinale Pizzaballa (Patriarca di Gerusalemme per la Chiesa Latina) di continuo tocca con mano questa 'follia'. La vede testimoniata, vissuta ogni giorno proprio da quei cristiani che stanno attualmente vivendo nella Striscia di Gaza. L'ha raccontata nella post-fazione di un libro su san Francesco con queste parole.
Purtroppo, sembra non essere cambiato molto in questa Terra dal tempo in cui la visitò il Poverello di Assisi: «So che in Terrasanta, dov’è nato, vissuto e morto il Principe della pace, questa non c’è, è ferita da tutti...». È così ancora oggi: la pace, di cui tutti parliamo, sembra essere la grande estranea di questo tempo. E avremmo bisogno anche oggi di un pazzo che, come il Poverello di Assisi, voglia «andare laggiù a predicarla e, se possibile, incontrare il sultano d’Egitto per annunciargli il Vangelo... e annunciare la pace anche quiSapeva san Francesco che probabilmente il Vangelo non avrebbe cambiato le sorti decise dai potenti del suo mondo, ma sarebbe stato comunque un seme gettato nel cuore degli uomini, che poco alla volta, in tempi e modi che non possediamo, avrebbe portato il suo frutto. Perché «il Vangelo è tutto» e «il mondo è nostro, se non ci appesantiamo con i pensieri terreni.... Con questa consapevolezza san Francesco è stato capace di varcare confini mentali, prima ancora che religiosi, politici o militari. Non gli sembrò strano, quindi, decidere di incontrare il sultano, il nemico da eliminare. Una pazzia, in effetti, per quei tempi, che però ancora oggi ricordiamo e celebriamo. Perché quella che chiamiamo pazzia, in fondo, è anche il desiderio che abita il cuore di ogni uomo, in ogni tempo: il desiderio della pace.
Il viaggio di Francesco in Terrasanta, dicevamo, non ha risolto alcuno dei problemi politici del tempo. Ma ha indicato un metodo, che ancora oggi è la via maestra per chi vuole costruire contesti di pace, anche qui, oggi, nel tormentato e conflittuale Medio Oriente: l’incontro.
Promuovere, ricercare, costruire, custodire il desiderio di incontro.
In fondo, se ci pensiamo bene, vuol dire vivere seriamente il Vangelo, e assumerlo come criterio fondamentale per le scelte di vita. Come lo fu per san Francesco
Il serio desiderio di incontro comporta necessariamente dare fiducia, accettare di fare posto a un’altra voce oltre che alla propria. Non di rado richiede anche di rinunciare o mettere da parte qualcosa di proprio, una visione, un’opinione, un’attesa...
In questi nostri contesti di conflitto quasi permanente, dove la religione, la politica, l’identità nazionale si mischiano continuamente, creando così un ginepraio quasi inestricabile, incontrarsi richiede coraggio e pazzia. Di generazione in generazione, infatti, narrazioni diverse e opposte le une alle altre alimentano il sospetto e la sfiducia reciproca tra gli abitanti di questa Terra, e coltivano nella coscienza di tanti lo spirito di conquista, di violenza, di disprezzo per chi è diverso da sé. Sono narrazioni che inquinano il cuore di tanti, che a causa di tutto ciò faticano a comprendere ogni possibile proposta di incontro, e confondono sempre più spesso la pace con la vittoria.
Era l’equivoco del tempo di Francesco, ed è anche il nostro oggi. Forse non solo in Medio Oriente.
La pace, dunque, quella vera, quella costruita su un sincero desiderio di incontro, di accoglienza e di fraternità, richiede necessariamente anche un cammino di conversione. Si tratta di cambiare il proprio modo di pensare, di liberare il cuore dallo spirito di violenza, conquista e rivalsa. La pace esige anche che si faccia verità nelle relazioni, che si arrivi a riconoscere il male compiuto e subìto, cosa mai facile e sempre dolorosa. Ma la verità diventa completa quando incontra anche il perdono. Sono necessari l’uno all’altra.
Sono sempre più convinto che in questo contesto così complesso la vocazione e la missione principale della piccola comunità cristiana e, in primis, dei figli di san Francesco che da secoli la abitano sia proprio questa: custodire il desiderio di incontro, coltivare la libertà nei confronti di tutti, superare i confini etnici, religiosi e identitari di vario genere che, pur non scritti, sono tuttavia rigidissimamente scritti nella coscienza di queste popolazioni. Proprio come fece Francesco d’Assisi. Non si tratta di cancellare le proprie appartenenze, che sono comunque necessarie. Ma di non renderle solamente delle fortezze inespugnabili, baluardi inaccessibili, presidi da difendere.
Sono tanti gli uomini e le donne di ogni fede che ancora oggi, anche qui in questa Terra martoriata, sono capaci di una simile testimonianza. Ma ci serve anche la testimonianza di una comunità, che sappia vivere, al suo interno innanzitutto, e in contesti aperti e condivisi, questa libertà o, per restare in tema, questo coraggio e pazzia, che è poi la stessa cosa. E la nostra piccola comunità cristiana, senza potere e politicamente irrilevante, potrebbe fare la differenza. È il mio sogno ed è la pazzia che vorrei condividere con tutta questa piccola e amata Chiesa di Gerusalemme.
La differenza cristiana, infatti, non consiste nelle nostre forze, nelle nostre proprietà, nel nostro eventuale prestigio. La differenza cristiana sta nelle nostre scelte di riconciliazione, di dialogo, di servizio, di vicinanza, di pace. Per noi l’altro non è un rivale, è un fratello. Per noi l’identità cristiana non è un baluardo da difendere, ma una casa ospitale e una porta aperta sul mistero di Dio e dell’uomo, dove tutti sono benvenuti. Noi, con Cristo, siamo per tutti. Il Poverello di Assisi, otto secoli fa, ci ha mostrato che questa pazzia è comunque possibile. Sta a noi, ora, decidere se scegliere con coraggio di vivere questa evangelica follia.

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LA GUERRA E LA SUA QUANTO MAI INSOSTENIBILE GIUSTIZIA
ovvero
L'INCREDIBILE INUTILITA' DI CERTI DISCORSI

Con la denuncia di genocidio nei confronti di Israele depositata presso la Corte internazionale dell'Aja, il Sud Africa ha trasformato la guerra tra Israele e Hamas in un problema politico e giuridico. La causa scatenante di questo procedimento è legata all'altissimo numero di vittime provocato dai bombardamenti israeliani su Gaza.
La storia recente ha conosciuto certamente due genocidi: quello 'armeno' del 1915 ad opera della Turchia di Ataturk e la 'shoa ebraica' ad opera del nazismo nell'ultima guerra mondiale. Quello armeno non è mai stato riconosciuto tale e mai nessuno ha osato portare a giudizio la Turchia.
Questi due atroci fenomeni storici sono considerati genocidi in quanto l'azione di sterminio di armeni ed ebrei mirava ad eliminare completamente una razza, una religione, un popolo. Se questa è la definizione del termine genocidio, l'azione militare di Israele svolta in territorio palestinese si presta male a essere definita come un genocidio. La giornalista Anna Foa, in un suo articolo pubblicato su Avvenire, mostra le molte contraddizioni di questo processo rispetto a questioni pratiche sia di natura giuridica che politica.
Riteniamo importante sollevare al riguardo questo genere di contraddizioni.
Vogliamo, però, compierlo in modo accorto. Soprattutto pragmatico. Infatti, in questi lunghi e terribili mesi, distruzione sangue disperazione sofferenze atroci morte sono il pane quotidiano servito a centinaia di migliaia di persone. Ciò fa giustamente indignare. Qui, però, un punto da non sottovalutare affatto è la possibilità concreta che questo scempio umano finisca per esporre un'altra folla di persone innocenti a terribili ritorsioni progettate sbrigativamente come risposta dovuta. Possibilità che, del resto, si è improvvisamente materializzata attraverso quanto di orrendo e disumano lo scorso 7 ottobre Hamas e frange terroristiche a lui collegate hanno realizzato. Prima che indignare, questa azione terroristica dovrebbe fare pensare. In particolare, temere. Con cinismo estremo, più di mille innocenti persone sono state trasformate in uno spazio di tempo ridottissimo in vittime sacrificali di un culto orribile della giustizia da ripristinare con tortura e morte.
Se si vuole procedere in modo accorto e, soprattutto, pragmatico va subito definito cosa la denuncia deve individuare come crimine e come lo deve proporre all'attenzione. Al riguardo, va detto con chiarezza che un rischio va accuratamente evitato: invece di agire, si perde tempo in inutili discussioni. Proprio come canta la sferzante denuncia di Tito Livio al Senato romano. Afferma Livio, mentre a Roma si continua a discutere, Sagunto è espugnata.
Il discutere inutile è senz'altro richiamato dal gravissimo massacro di civili ebrei inermi. Questo atto ha cercato di presentarsi come possente denuncia di mali insostenibili in atto tra i palestinesi di Gaza prodotti dal governo di Israele. Tuttavia, proprio per il modo plateale e satanico con cui questa denuncia è stata lanciata sullo scenario mondiale, essa è immediatamente precipitata in un discorso inutile. A provarlo sta anzitutto la sconsiderata azione militare israeliana. Osservandola, si capisce che la popolazione palestinese di Gaza non aveva alcun bisogno di una denuncia del tipo di quella di Hamas.
Del resto, neppure gli ebrei di Israele necessitano di una denuncia del terrorismo islamico tipo quella sollevata dalla folle azione militare attuata dai vertici israeliani, altrettanto satanica quanto lo è stato il blitz di Hamas.
Il discutere inutile si configura, ancora una volta, come il parlare e l'agire dei vertici che, proprio mentre parlano, si allontanano all'infinito dal popolo che rappresentano. Impostano questioni a tavolino. Progettano azioni sconsiderate. Le attuano con azioni clamorose a cui fanno seguire lunghe situazioni di stallo. Intanto i civili inermi subiscono malefatte e pagano con il loro sangue.
Purtroppo la storia recente ci ha abituato a terribili riproposizione del discutere inutile. Sono così ritornanti che, ormai, non ci si sorprende più di nulla. In particolare, non ci si scandalizza più di nulla. Si subisce. Si accetta. In ultima analisi, si acconsente.
Nel 1945 gli Stati Uniti hanno sganciato su Hiroshima e Nagasakj due testate nucleari. Volevano piegare la capacità bellica del Giappone, denunciandone insieme i crimini di guerra perpetrati. Purtroppo il loro discorso ha finito per colpire due intere città senza risparmiare donne, vecchi e bambini e senza contare gli effetti distruttivi delle radiazioni nucleari sulla popolazione sopravvissuta in tutta quella zona.
E che dire del discorso sul ripristino della giustizia infranta dal nazismo portato avanti dal Processo di Norimberga che giudica alcuni gerarchi nazisti fautori in prima persona di oggettivi e indiscutibili crimini immensi? Tra i governanti che decidono il processo sta anche  Stalin che, essendo passato da alleato di Hitler ad alleato degli Stati Uniti e dell'Inghilterra, è nel frattempo divenuto a pieno diritto  'giudice' del nazismo. Eppure, Stalin ha ordinato l' Holodomor, il massacro di milioni di contadini ucraini sterminati per fame. Secondo lo storico Nolte, questo massacro è come la prova generale della Shoah. La furia russa si abbatte sui kulaki, i contadini proprietari di fondi da loro stessi coltivati, che con la loro semplice esistenza bloccano le collettivizzazioni forzate decise dal Partito Bolscevico. Altrettanto sorprendente è il caso del massacro di Katyn. Qui nel 1940 i russi uccidono con un colpo di pistola alla testa e gettano in fosse comuni 22.000 cittadini polacchi. Il primo ministro inglese Churchill e il Presidente americano ne sono a conoscenza ma, volutamente, prima ostacolano e poi silenziano le indagini perchè ormai la Russia alleata deve sedersi al tavolo di Norimberga. Il massacro è pertanto attribuito a una azione criminale dei nazisti compiuta nel 1941.  L'inutilità del discorso di denuncia di Norimberga sta nel fatto che il ripristino della giustizia è qui pensato e attuato come semplice attacco all'ideologia nazista. Il discorso non riguarda la vita delle popolazioni. Non ricostruisce un vitale ordine mondiale. Si limita a condannare una ideologia, condannando solo alcuni aspetti dell'agire di un gruppo dominante. L'esito pratico di questo discorso è la guerra fredda, la proliferazione delle armi nucleari, la sostanziale cronica sterilità dell'ONU, il divario crescente e pericoloso tra nord e sud del mondo, l'espandersi incessante dei conflitti locali senz'altro alimentato dall'industria delle armi sempre più onnipotente e perversa. E si potrebbe proseguire a lungo.
A ben guardare, la storia è colma di inutili discorsi. In modo particolarmente colorito, Hegel afferma che la storia è molto simile al banco di un macellaio.
Tuttavia per noi cristiani, la storia ha registrato una infinità di discorsi utili. Al centro di questa utilità, per noi cristiani si ritrova la vita di Gesù nato poveroemarginato, condannato come malfattore, crocifisso. Gesù non ha mai parlato a vuoto, perché in nome del Padre trasforma di fatto uomini e le loro esistenze. Li fa diventare pescatori di uomini. Cioè, li rende capaci di portare uomini e donne a ricevere da Lui conversione prima della coscienza e poi della vita reale. Questo Dio, così, riesce a salvare la vita di tutti, creando forme concrete di novità che fanno ripartire la vita e la orientano da "un'altra parte".
Questo inedito, ma concreto, orizzonte di vita è fortemente richiamato, per esempio, dall'Enciclica 'Fratelli tutti di Papa Francesco. Un discorso certamente non inutile.


L’ACCUSA DI GENOCIDIO A ISRAELE, PERICOLOSO ASSIST AGLI ESTREMISMI

Anna Foa, in Avvenire, gennaio 2023

Il deferimento alla Corte internazionale dell’Aja, su richiesta del Sudafrica, di Israele sotto l’accusa di genocidio per quanto sta avvenendo a Gaza propone una serie di problemi sia giuridici che politici.

Il primo, giuridicamente il più importante, è se sia o meno possibile definire con l’etichetta di “genocidio” la guerra di Gaza, con l’altissimo numero di morti civili che causa, un numero che il segretario di Stato americano Blinken giudica non da oggi troppo alto, e i trasferimenti di centinaia di migliaia di palestinesi in seguito ai bombardamenti israeliani.

Nell’elaborazione di Raphael Lemkin, il giurista ebreo polacco che nel 1944, rifugiato negli Stati Uniti, coniò per primo il termine “genocidio”, descrivendo ciò che stava succedendo agli ebrei europei ma con lo sguardo rivolto anche allo sterminio degli armeni nel 1915, e nella successiva Convenzione internazionale sul genocidio, del 1948, ad oggi ratificata da 152 Paesi fra cui Israele stessa, volta a prevenirlo e a fornire il mondo, attraverso i tribunali internazionali, dei mezzi per reprimerlo, si intende per genocidio una serie di atti commessi intenzionalmente «con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». La domanda è quindi se l’operazione israeliana su Gaza assuma le caratteristiche di un’azione volta intenzionalmente a sterminarne la popolazione o a «sottoporla a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale».

Il Sudafrica ha portato a sostegno di questa interpretazione le dichiarazioni di alcuni ministri del governo Netanyahu, in particolare Ben Gvir e Smootrich. È sufficiente, in un contesto in cui per nove mesi mezza Israele si è battuta scendendo in piazza ogni settimana proprio contro questo governo e in particolare contro questi ministri estremisti religiosi, fanatici, razzisti? Questo è ciò a cui il Tribunale internazionale dovrà dare innanzi tutto risposta. Bastano queste dichiarate intenzioni a caratterizzare come intenzionale e rivolta a distruggere i palestinesi – non Hamas ma i palestinesi – l’azione militare che ha determinato migliaia di vittime civili portata avanti da Israele con l’obiettivo dichiarato di distruggere Hamas e salvare gli ostaggi? Obiettivo finora non raggiunto, mentre si accumulano le vittime civili palestinesi.

Forte e giustificato è il sospetto che nel corso di questi tre mesi l’intenzione di distruggere Hamas e liberare gli ostaggi si sia mutata, nel governo Netanyahu, in quella di sbarazzarsi attraverso l’espulsione di una larga parte dei palestinesi e di farla finita con l’idea stessa della creazione di uno Stato palestinese. Ma questa deprecabile e cieca intenzione di ricostruire la grande Israele basta a caratterizzare come “genocidio” la terribile guerra di Gaza? E non fa da contraltare a quella espressa da Hamas di sbarazzarsi dello Stato di Israele e di creare una grande Palestina “dal fiume al mare”?

E se si discute della possibilità di caratterizzare sotto l’etichetta di genocidio l’azione di Israele a Gaza, come caratterizzare l’attacco terroristico del 7 ottobre, con 1.200 ebrei, e non solo perché c’erano fra loro palestinesi, beduini, lavoratori provenienti da altre parti del mondo, massacrati in quanto ebrei in nome di Hamas, che è certamente un’organizzazione terroristica ma è anche al governo a Gaza? E la presa degli ostaggi, vecchi, donne, bambini? Certamente, l’etichetta di fenomeno genocidario se non di genocidio – ed esistono differenze giuridiche – può essere perlomeno discussa a proposito del 7 ottobre. Non è però nell’agenda attuale del Tribunale dell’Aia.

Non sono un giurista ma una storica. Dubito comunque che dal punto di vista strettamente giuridico l’etichetta di genocidio possa essere applicata a quanto avviene a Gaza. Il che non toglie che sia necessario arrivare al più presto a fermarlo e a trovare soluzioni politiche e non militari a Gaza. Questo coinvolge il problema del dopoguerra, per il quale i pareri dei membri del governo Netanyahu sono discordi, alcune come abbiamo detto fuori dalla realtà – ma che non può essere lasciato alle decisioni di un governo che ha delle gravissime responsabilità politiche e militari negli eventi svoltisi a partire dal 7 ottobre e che sembra aver perso la fiducia del popolo israeliano. Che fare di Gaza? Chi la governerà? Se Netanyahu e i suoi ministri restano al potere in Israele, solo un accordo internazionale, che ponga in qualche modo Israele sotto tutela, può risolvere la situazione.

E arriviamo a quello che a mio avviso è uno dei noccioli del problema dell’accusa di genocidio. Può il deferimento di Israele al tribunale internazionale spingere in direzione di un accordo internazionale, che fermi la guerra, che blocchi se non distrugga Hamas e porti alla creazione di uno Stato palestinese dotato di nuovi leader (per esempio Marwan Barghouti, liberandolo dal carcere) e di nuove responsabilità politiche? Se così fosse, allora potrebbe essere un passo verso la soluzione del conflitto o almeno verso un più attento monitoraggio internazionale delle perdite civili palestinesi e dell’espulsione degli abitanti di Gaza.

O non si tratta invece di un tentativo propagandistico, che non porterà a nessuna soluzione ma che avrà l’effetto di sollevare ondate di indignazione – e di antisemitismo – nei confronti di Israele e di cancellare ulteriormente la consapevolezza dell’evento genocidario del 7 ottobre? Con il risultato concreto di esacerbare il conflitto invece di contribuire a fermarlo e di ricompattare intorno al peggiore governo che Israele abbia mai avuto il sostegno degli israeliani? Temo che questo, e solo questo, possa esserne l’effetto, anche se mi auguro che le cose non stiano in questo modo.
A vincere la guerra della propaganda, se non quella militare, sarebbero in quel caso Hamas da una parte, e il governo Netanyahu dall’altra, con obiettivi opposti ma simili. A lungo termine, si arriverebbe come nelle intenzioni di Hamas, a mettere in dubbio l’esistenza stessa di Israele in quanto Stato genocidario. E in Israele a consolidare il governo nella sua convinzione che tutto il mondo sia composto di antisemiti, che ne vogliono la distruzione.

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La guerra cambia sempre di più faccia

Nel seguire gli avvenimenti relativi alle guerra tra Russia e Ucraina, e ultimamente, tra Israele e Hamas, abbiamo più volte evidenziato il fatto indiscutibile che i mass-media, collaterale alla gestione operativa sul campo di azione delle fasi operative fisiche dei conflitti, stanno acquisendo un sempre più crescente ruolo di gestione nella società delle operazioni belliche in atto sui campi di battaglia. In passato, questo ruolo era etichettato col termine alquanto generico di propaganda. Serviva a incrementare ora l'ardore che trasforma la partecipazione in eroismo, ora la costanza necessaria al riuscire a sopportare il protrarsi della durezza dei conflitti. Procedeva dicendo alcune cose e nascondendone altre. Oppure procedeva ampliando o deformando i contorni della realtà fino a riscoprire in modo del tutto artificiale il reale stato delle cose. Così la informazione poteva diventare disinformazione. Negli ultimi decenni, tutto ciò è evoluto con incrementi fortemente accelerati. Soprattutto, il fenomeno della propaganda ha davvero fatto un salto di qualità. Si deve ormai dire che le tecniche di comunicazione da artigianali sono diventate scientifiche. In particolare, l'azione di guerra ha finito per interessare un campo di azione molto più ampio del campo di battaglia fisico. Alle armi che agiscono sui corpi usate dai soldati ora si affiancano altri strumenti offensivi assai più attivi e letali che agiscono sulle coscienze è sono dirette al controllo delle coscienze creando nei singoli precise e concrete percezioni di conflitto. Ormai, il soldato vive la guerra che combatte sul campo. Il cittadino vive la guerra sul campo del suo immaginario che, si noti, non è meno concreto dell'altro. Così, come si sceglie un campo di battaglia e, lì, si scatena la guerra; alla pari, si scelgono campi di battaglia in porzioni di società nelle quali le cronache di fatto ricostruiscono negli animi scenari di guerra che, in un qualche modo, fanno vivere in guerra. Ma, alla pari, si possono scatenare combattimenti micidiali e tenerli nascosti in modo tale che tutti vivano "in pace" anche se sono concretamente in atto sanguinosi conflitti.

Quello che appare sempre più chiaro è il fatto che la guerra sta ingigantendo le sue forme. Le moltiplica. Le rende funzionali a un sacco di interessi e, così, finisce per espanderle davvero all'infinito. Per questo, la guerra non è più combattuta solo sul campo di battaglia. Viene fatta scatenare in altri campi. Diventa la guerra fatta con le armi della disinformazione. Queste manipolano le informazioni. Giungono a espanderle negli animi fino al punto di costruire in essi visioni ideali molto precise. Creano visioni della realtà compiute. Queste diventano poi, facilmente, idee che a loro volta servono a trasformare i modi  di percepire la vita. Fanno sprigionare in animo un seguito concreto di emozioni e di atteggiamenti che, ben presto, fanno nascere scelte e subito dopo comportamenti pratici. Ciò che deve ormai colpire l'attenzione delle persone è il fatto che la guerra ha davvero cambiato faccia. Un tempo, si limitava a interessare i rapporti tra gli Stati, determinando scontri tra di loro. Oggi a scontrarsi non sono più solo gli Stati. Ora lo scontro contrappone tra di loro anche gruppi di interesse. Così tende a moltiplicarsi all'infinito. La sua pericolosità, perciò, aumenta. Ciò è doloroso, devastante. Moltiplica infatti danni e, quindi, sofferenze. Si pensi, per esempio, ai disastri che le cosiddette guerre economiche stanno concretamente originando in società all'apparenza in pace.
Indubbiamente, tutto non può essere vissuto come semplice esercizio di paura, di ansia, di paralisi, di sofferenza. Oggi, i cristiani devono lasciarsi sfidare da questo stato di cose. Più a fondo, devono scoprire nel tesoro della loro fede in Gesù ispirazioni morali e anche forze operative che consentano loro di fronteggiare in modo inedito la realtà sconvolgente della guerra. Se loro sono vulnerabili, Gesù non lo è. Se loro possono perdere o morire, Gesù è il risorto per sempre. Devono allora rifarsi concretamente a Gesù per poi affrontare la realtà della guerra con le armi della fede, come raccomanda san Paolo. A loro spetta, per esempio, il compito di affermare che non esistono solo gli armamenti. Esistono valori e interventi non riducibili alla politica, all'economia, agli armamenti. Si tratta dei valori divini che Gesù ha portato sulla terra e che la pratica della fede trasmette e a fa vivere.

In ogni caso, però, ai cristiani diventa assai utile approfondire in modo accorto queste problematiche. Al riguardo, seguono interessanti riflessioni.


La guerra e la comunicazione mediatica
(guerra informatica e guerra cognitiva)

Roberto Trinchero

Si definisce guerra cognitiva una forma di conflitto organizzato in cui soggetti o gruppi differenti si confrontano sul piano della capacità di produrre, mettere in relazione ed eludere elementi di conoscenza in un contesto conflittuale.
La guerra cognitiva mira a costruire e rendere stabili rappresentazioni mentali generalizzate, ossia idee e modi di pensare diffusi nell’opinione pubblica che orientano emozioni, atteggiamenti, ragionamenti, scelte e comportamenti dei soggetti. Tale concetto è simile a quello di guerra dell’informazione (information warfare), anche se denota uno spettro più ampio di significato perché non abbraccia solo conflitti tra Stati, ma anche tra gruppi di interesse.

1. La mente del pubblico come campo di battaglia
Nella guerra cognitiva l’obiettivo primario dei belligeranti non è quello di occupare territori ma di occupare la mente dei soggetti, allo scopo di averne un controllo, inducendo rappresentazioni della realtà che portano a particolari atteggiamenti, scelte, comportamenti. Concetto base della guerra cognitiva è che in uno scontro tra fazioni contrapposte non si vince solo con l’uso della forza (altrimenti il forte vincerebbe sempre contro il debole…), ma anche grazie alla capacità di utilizzo più intelligente della conoscenza (come nel conflitto tra Davide e Golia).

Proprio per questo, la guerra cognitiva si serve dell’apporto di numerose discipline che studiano i processi conoscitivi e comunicativi (pedagogia, psicologia, sociologia, antropologia, semiotica, tecnologia, informatica, …).
Attori della guerra cognitiva possono essere istituzioni (es. governi, agenzie governative, servizi di intelligence), imprese, gruppi di interesse, singoli cittadini, i quali entrano in conflitto con altre istituzioni, imprese, gruppi di interesse, singoli cittadini, su un terreno di scontro che è quello della pubblica opinione.

Una tipica azione di guerra cognitiva può riguardare ad esempio (Harbulot, Moinet, Lucas, 2002) l’individuare una serie di fatti oggettivi in grado di gettare cattiva luce su un’azienda concorrente (es. illeciti più o meno gravi, collusioni con personaggi o organizzazioni discutibili, comportamenti non deontologici, azioni contrarie al senso morale del cittadino medio, ecc.) e diffonderli al momento giusto con l’uso dei media (mal-informazione), in svariate forme, anche servendosi di soggetti terzi, realmente o apparentemente indipendenti (es. giornalisti, scienziati, magistrati, Ong, …) più o meno consapevoli di essere strumenti di attacco cogni- tivo. Scopo di tale attacco è quello di destabilizzare intenzionalmente il bersaglio. Esso avviene quindi in tempi non casuali, allo scopo di minare l’immagine del bersaglio stesso in momenti chiave (es. elezioni o referendum, nomina di un soggetto a leader politico o a una carica istituzionale, quotazione in borsa di un’azienda, difficoltà economiche della stessa o tentativo di acquisto da parte di concorrenti, ecc.), alimentando una polemica pertinente (perché basata su fatti oggettivi) e prolungata sui media. Gli attaccanti si limitano alla raccolta preliminare di informazioni (che può durare anni) e all’attivazione della polemica, che una volta innescata può procedere da sola grazie alle dinamiche che guidano la diffusione dell’informazione (fonti che riprendono altre fonti, commenti, contrattacchi, ecc.). Più la polemica è fondata su basi oggettive, meno è facile dimostrare che sia l’esito di un attacco cognitivo. Anche laddove queste basi oggettive non esistano o siano ambigue o risibili, la polemica innescata e amplificata dai media porta un danno di immagine immediato all’avversario, che può anche essere prolungato nel tempo a causa dei tempi necessari ad effettuare le indagini del caso per stabilire se un dolo vi sia effettivamente stato.

2. Strategie e modalità di guerra cognitiva
La guerra cognitiva si serve di numerose strategie, spesso utilizzate in modo coordinato:

a) la pubblicità denigratoria, ossia il diffondere messaggi il cui scopo esplicito non è informare o persuadere della bontà del proprio prodotto ma mettere in cattiva luce il prodotto concorrente;

b) la deception (letteralmente inganno), ossia il nascondere i fatti realmente accaduti attraverso depistaggi sistematici per sostituirli con un narrazione ad hoc;

c) la dis-informazione e la mal-informazione, ossia il diffondere notizie infondate (nel primo caso) o vere (nel secondo caso) in un momento preciso, al fine di danneggiare l’immagine pubblica di un avversario o di influenzarne le scelte;

d) l’intossicazione, ossia il fornire all’avversario informazioni sbagliate allo scopo di fargli prendere decisioni errate;

e) la propaganda, ossia l’esercitare un’attività di persuasione coordinata e sistematica allo scopo di convincere il maggior numero possibile di persone della bontà di idee, ideologie o prodotti e della malvagità di idee, ideologie e prodotti concorrenti.

L’idea della guerra cognitiva non è ovviamente nuova. Sun Tzu, Churchill, Hitler, Stalin, Mao, e molti altri, avevano già capito l’importanza di utilizzare consapevolmente l’informazione allo scopo di manipolare alleati e nemici. Vi sono però due differenze sostanziali che caratterizzano la nostra epoca.
La prima fa riferimento all’epurazione del concetto di “violenza fisica” dal concetto di “guerra”. La cultura occidentale della nostra epoca ha – giustamente – stigmatizzato il concetto di “violenza fisica”, ripudiando quindi anche la guerra tradizionale, che vi fa necessariamente ricorso. La guerra cognitiva non si serve della violenza fisica quindi spesso non viene percepita come “guerra” in senso stretto, ma come denuncia di malcostume e “scoperta della verità”.

Una guerra cognitiva è “giusta” o “sbagliata” solo in relazione ai principi etici di chi la giudica, non in relazione a principi culturali condivisi. Fare una campagna sui media tesa a rendere pubbliche informazioni sulla vita privata di un avversario politico, ad esempio, è a tutti gli effetti un atto di guerra (cognitiva) contro quella persona, e tale atto potrebbe essere eticamente accettabile sia per chi non condivi- de le idee di quel politico sia per chi le condivide.

Usare la violenza fisica contro quel politico sarebbe invece eticamente inaccettabile per chiunque. Da qui la percezione che la guerra cognitiva, solo perché non fa ricorso alla violenza, non sia una guerra a tutti gli effetti.
La seconda fa riferimento al fatto che la guerra cognitiva è ovviamente possibile solo se si ha accesso come pubblicatori ai mezzi di informazione.
In passato questo accesso era limitato alle istituzioni o ai grandi gruppi di pres- sione. Con l’avvento di Internet e soprattutto dei social network (informazione con diffusione istantanea e tempo di reazione praticamente nullo), tutti possono diventare pubblicatori, quindi, tutti possono dichiarare guerre cognitive a tutti: potenzialmente siamo tutti soggetti al rischio di (cyber)bellum omnium contra omnes. Diffamazione sui social network, diffusione di dati privati, uso di dati e pro- dotti dell’ingegno altrui come se fossero propri, stalking cyberbullismo possono assumere la forma di piccole guerre cognitive. Singoli soggetti possono screditare personaggi celebri pubblicando foto, video (anche deepfake), lettere, intercetta- zioni inerenti la loro sfera privata, attaccandoli quindi con le armi della dis-informazione, della mal-informazione e della propaganda e rischiando tutto sommato molto poco rispetto al danno potenziale che possono arrecare.

Sorte analoga può toccare a giovani bersagliati da cyberbulli sui social network: pubblicare sistematicamente sui social offese, insulti, commenti derisori, fotogra- fie e filmati tesi a mettere in ridicolo un compagno di classe significa dichiarare guerra cognitiva a quel compagno, gettando cattiva luce su di lui e portandolo all’esclusione dal gruppo. Anche imprese, borse e governi non ne sono immuni: gruppi organizzati di poche decine di persone con un vasto seguito di followers (i cosiddetti influencer) possono lanciare attacchi mediatici di risonanza mondiale e farli traballare o comunque metterli in cattiva luce. Gli utenti di social network e di app di messaggeria istantanea possono diventare, più o meno consapevolmente, ingranaggi della “macchina della micro-propaganda” ossia diffusori virali di messaggi volti a modificare le opinioni delle persone su una data azienda, prodotto o personaggio politico, suscitando in loro reazioni emotive immediate e un conseguente calo di popolarità e consenso, che si traduce in minori guadagni per le aziende e prestigio per i politici. L’aumento dell’informazione disponibile anche grazie a sistemi diffusi di rilevazione (smartphone, telecamere stradali, tracciabilità di dispositivi di comunicazione mobile e carte di credito, intercettazioni, hacke- raggio di siti web, ecc.) offre poi ai cyberbelligeranti una messe di materiale su cui lavorare e i mezzi di comunicazione istantanea gli strumenti per rendere virali i messaggi.

3. Difendersi dalla guerra cognitiva
Oltre che straordinario veicolo di opportunità, le tecnologie comunicative possono quindi anche essere straordinario veicolo di conflittualità, e di questo ogni buon cittadino dovrebbe essere consapevole. Gli effetti del conflitto generalizzato sono tutt’altro che trascurabili. Nelle democrazie la costruzione di rappresentazioni mentali generalizzate nell’opinione pubblica è particolarmente importante, dato che può spostare voti preziosi per far vincere o far perdere le elezioni all’una o all’altra parte politica, e la novità è che non è più necessario il controllo dei mezzi di informazione tradizionale (stampa, tv) per poterlo fare, dato che chiunque può diventare grazie ai social network un opinion maker più o meno seguito o lanciare attacchi cognitivi in Rete che la Rete stessa amplificherà e reificherà. L’acquisizione di consapevolezza delle possibilità associate alla guerra cognitiva ha già avviato una profonda rivoluzione culturale.

A livello di singoli Stati (e di organizzazioni internazionali preposte alla difesa, quali la Nato), è sempre più chiaro che l’informazione è un’arma a tutti gli effetti e come tale va integrata nella strategia di difesa nazionale (Gagliano, 2012, 2013, 2015), anche attraverso azioni mirate di perception management, ossia costruzione dell’immagine desiderata dello Stato nell’opinione pubblica mondiale.

A livello aziendale, la guerra cognitiva è stata inglobata nel più ampio contenitore di guerra economica tra imprese (Denécé, 2001), e definita come scontro tra diverse capacità di ottenere, produrre e/o ostacolare determinate conoscenze.
A livello di dibattito politico assistiamo quotidianamente, da anni, a fuochi incrociati di delegittimazione degli avversari sulla base di “evidenze” riguardanti vita privata, frequentazioni, comportamenti passati, azioni perpetuate da amici e famigliari. A livello sociale, una delle più grosse paure di adolescenti e giovani è quella di essere screditati o messi in cattiva luce sul mondo della Rete: “Cosa succederà se digitando il mio nome su un motore di ricerca appaiono informazioni che mi fanno fare una figuraccia?” si chiedono in molti; per loro essere messi al bando sul Web è peggio che essere messi al bando nel mondo “fisico”, perché ormai la vita nel Web è la vita reale.

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Fare posto a Gesù, fare posto a ogni uomo

Natale è dire sì a Dio perché Gesù nasca nei nostri cuori. Solo da qui può nascere un cammino di Giustizia e di Pace”.
E' la sintesi dell'omelia tenuta dal Cardinale Pizzaballa Patriarca Latino di Gerusalemme durante la messa di Natale, parole dette nel cuore della guerra in corso tra Israele e Hamas, parole indirizzate a quello sparuto migliaio di cattolici che ancora vivono in Palestina e che sono quotidianamente sotto il fuoco di entrambi i contendenti.


Fare posto a Gesù, fare posto a ogni uomo

Pierbattista PizzaballaCardinale, Patriarca latino di Gerusalemme

Carissimi,

il Signore vi dia pace!

Vorrei stanotte dare voce a un sentimento profondo che credo proviamo tutti e che trova eco nel Vangelo appena proclamato: “perché non c’era posto per loro” (Lc 2,7). Come per Maria e Giuseppe, anche per noi, oggi qui, sembra che non ci sia posto per il Natale. Siamo tutti presi, da troppi giorni, dalla dolorosa, triste sensazione che non ci sia posto, quest’anno, per quella gioia e quella pace che in questa notte santa, proprio a pochi metri da qui, gli angeli annunciarono ai pastori di Betlemme.

In questo momento non possiamo non pensare a tutti quelli che in questa guerra sono rimasti senza nulla, sfollati, soli, colpiti nei loro affetti più cari, paralizzati dal loro dolore. Il mio pensiero va a tutti, senza distinzione, palestinesi e israeliani, a tutti quelli colpiti da questa guerra, a quanti sono nel lutto e nel pianto e attendono un segno di vicinanza e di calore. Il mio pensiero, in particolare, va a Gaza e ai suoi due milioni di abitanti. Davvero quel “non c’era posto per loro” esprime bene la loro situazione, oggi nota a tutti e la cui sofferenza non cessa di gridare al mondo intero. Nessuno più ha un posto sicuro, una casa, un tetto, privati dei beni essenziali di vita, affamati, e più ancora esposti ad una violenza incomprensibile. Non sembra esserci posto per loro non solo fisicamente, ma nemmeno nella mente di coloro che decidono le sorti dei popoli. È la situazione in cui da troppo tempo vive il popolo palestinese, che pur vivendo nella propria terra, si sente dire continuamente: “non c’è posto per loro”, e attende da decenni che la comunità internazionale trovi soluzioni per porre fine all’occupazione, sotto la quale è costretta a vivere, e alle sue conseguenze. Mi sembra che oggi ciascuno sia chiuso nel suo dolore. Odio, rancore e spirito di vendetta occupano tutto lo spazio del cuore, e non lasciano posto alla presenza dell’altro. Eppure, l’altro ci è necessario. Perché il Natale è proprio questo, è Dio che si fa umanamente presente, e che apre il nostro cuore ad un nuovo modo di guardare il mondo.

Non che il mondo sia sempre stato ospitale con Cristo: non è di oggi la costatazione che della fede cristiana, e del Natale cristiano in particolare, ci siano ormai poche tracce nella nostra cultura secolarizzata e consumista. Quest’anno però, soprattutto qui, ma anche nel resto del mondo, il fragore delle armi, il pianto dei bambini, le sofferenze dei profughi, il lamento dei poveri, le lacrime di tanti lutti in tante famiglie sembrano rendere stonati i nostri canti, difficile la nostra gioia, vuote e retoriche le nostre parole.

Sia chiaro: la venuta di Cristo nel nostro mondo ha aperto per noi e per tutti “la via dell’eterna salvezza”, che niente e nessuno potrà mai più chiudere. La fede, la speranza e l’amore della Chiesa di Dio sono indefettibili e riposano sulla Promessa fedele del Signore, e non dipendono dai tempi che mutano e dalle circostanze, più o meno avverse, che ci circondano.

È altrettanto evidente, però, che noi facciamo fatica, soprattutto oggi, soprattutto qui, a trovare un posto per il Natale nella nostra terra, nella nostra vita, nel nostro cuore. Quella via, aperta da Cristo, rischiamo di perderla tra le strade distrutte, tra le macerie della guerra, tra le case abbandonate. Il nostro cuore appesantito può non riuscire a sintonizzarsi con l’annuncio del Natale. Troppo dolore, troppa delusione, troppe promesse mancate affollano quello spazio interiore, in cui il Vangelo del Natale possa risuonare e ispirare azioni e comportamenti di pace e di vita.

Chiediamoci allora: dove è il Natale quest’anno? Dove cercare il Salvatore? Dove può nascere il Bambino, quando in questo nostro mondo sembra che non ci sia posto per Lui?
È stata la domanda di Maria e di Giuseppe, di fronte alla difficoltà di trovare alloggio quella notte, come abbiamo ascoltato. È stata la domanda dei Pastori, mentre cercavano il Bambino. È stata la domanda dei Magi, mentre inseguivano la stella. È stata la domanda della Chiesa tutte le volte che ha smarrito la strada. È la nostra domanda di stasera: quale è oggi il luogo del Natale?

E a risponderci sono gli Angeli. Quella notte, infatti, e in ogni notte, Dio trova sempre un posto per il Suo Natale, anche per noi, qui, oggi, nonostante tutto, anche in queste drammatiche circostanze, noi lo crediamo: Dio può fare posto anche nel più duro dei cuori.

Luogo del Natale è innanzitutto Dio. Il Natale di Cristo avviene in principio nel Cuore misericordioso del Padre. Il Suo amore infinito e inesauribile genera eternamente il Figlio e lo dona a noi nel tempo, anche in questo tempo. È nella Sua buona e santa volontà che è stata decisa la salvezza dell’uomo. “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv3, 16-17).
Nelle attuali circostanze, noi, la Chiesa tutta, deve tornare a Dio, al Suo amore, se vuole ritrovare la gioia vera del Natale, se vuole incontrare il Salvatore. Prima e oltre ogni spiegazione sociale e politica, la violenza e la sopraffazione dell’altro trovano la loro ultima radice nell’aver dimenticato Dio, contraffatto il Suo Volto, usato in modo strumentale e falso il rapporto religioso con Lui, come in questa nostra Terra Santa avviene troppo spesso. Non può chiamare Dio “Padre” chi non sa chiamare “fratello” il suo simile. È ancora più vero però che non ci si può riconoscere fratelli se non si ritorna al vero Dio, riconoscendolo come un Padre che ama tutti. Se non ritroviamo Dio nella nostra vita inevitabilmente smarriremo la strada del Natale e ci ritroveremo soli a vagare nella notte senza méta, in preda ai nostri istinti violenti ed egoisti.

Anche il “sì” di Maria e di Giuseppe è però il luogo del Natale. La loro obbedienza e fedeltà è la casa in cui il Figlio è venuto ad abitare. La volontà di Dio non è un potere che sottomette e piega, ma un Amore che dispiega tutta la sua forza soltanto se accolto in fedele e generosa libertà, la libertà vera, che non è arbitrio ma responsabilità amorosa per la vita nostra e degli altri. Il Figlio di Dio, generato dal Padre, entra nel tempo attraverso la porta aperta dell’umana libertà. Dovunque un uomo e una donna dicono “sì” a Dio, lì è Natale! Dovunque qualcuno è disponibile a mettere la propria vita a servizio della Pace che viene dall’Alto e non soltanto a badare ai propri interessi, lì nasce e rinasce il Figlio.
Se vogliamo dunque che sia Natale, anche in tempo di guerra, occorre che tutti moltiplichiamo i gesti di fraternità, di pace, di accoglienza, di perdono, di riconciliazione. Dirò di più: dobbiamo tutti impegnarci, a partire da me e da chi, come me, ha responsabilità di guida e di orientamento sociale, politico e religioso, a creare una “mentalità del sì” contro la “strategia del no”. Dire sì al bene, sì alla pace, sì al dialogo, sì all’altro non deve essere solo retorica ma impegno responsabile, disposto a fare spazio, non a occuparlo, a trovare un posto per l’altro e non a negarlo. Il Natale è stato reso possibile dallo spazio che Maria e Giuseppe hanno offerto a Dio e al Bambino che veniva da Lui. Non sarà diversamente per la Giustizia e la Pace: non ci sarà giustizia, non verrà la pace senza lo spazio aperto dal nostro “sì” disponibile e generoso.

Non sarebbe Natale senza i Pastori. Pure il loro vegliare nella notte appartiene al Vangelo. E sono essi i primi a trovare il Bambino. L’evangelista Luca non indugia tanto sulla loro condizione sociale quanto sulla loro interiorità. Erano i pastori, quella notte, gente sveglia, abituati all’essenziale, capaci di azione, disponibili al nuovo, senza troppi calcoli o ragionamenti e perciò pronti al Natale. In un tempo inevitabilmente segnato da rassegnazione, odio, rabbia, depressione, abbiamo bisogno di cristiani così perché ci sia ancora posto per il Natale! A questa mia amata Diocesi, ai suoi presbiteri, ai seminaristi, ai religiosi e alle religiose, ai laici e alle laiche impegnate, a tutte le comunità parrocchiali con i loro gruppi e le loro associazioni, sento di dover ricordare che noi siamo eredi di quei pastori. So bene quanto è difficile restare svegli, disponibili all’accoglienza e al perdono, pronti a ricominciare sempre di nuovo, a rimettersi in cammino anche se è ancora notte.
Solo così però noi troveremo il Bambino. Ma solo questa è la testimonianza che assicura al Natale ancora uno spazio in questo tempo e in questa terra, che da qui si irradia nel mondo intero. Noi siamo qui e intendiamo continuare a essere i pastori del Natale. Coloro, cioè, che pur in condizioni povere e fragili, hanno trovato il Bambino, ne hanno sperimentato la grazia e la consolazione, e vogliono annunciare a tutti che il Natale è, oggi come ieri, vero e reale.

Carissimi, ho nel cuore un desiderio che si fa preghiera: Che la nostra volontà di bene, resa concreta dal nostro “sì” responsabile e generoso, dal nostro impegno ad amare e a servire, sia lo spazio nel quale Cristo possa nascere sempre di nuovo!

Lo chiedo per me stesso e per la mia Chiesa di Terra Santa e per ogni Chiesa: che essa sia per tutti casa, spazio di riconciliazione e perdono per quanti cercano gioia e pace! Chiedo a tutte le Chiese nel mondo, che in questo momento guardano a noi non solo per contemplare il mistero di Betlemme, ma anche per sostenerci in questa tragica guerra: fatevi latori presso i vostri popoli e i loro governanti del “si” a Dio, del desiderio di bene per questi nostri popoli, per la cessazione delle ostilità, perché tutti possano ritrovare davvero casa e pace.

Prego che Cristo rinasca nel cuore dei governanti e dei responsabili delle nazioni, e suggerisca loro il Suo stesso “Sì” che Lo ha portato a farsi amico e fratello nostro e di tutti, perché si adoperino sul serio per fermare questa guerra, ma soprattutto perché riprendano le fila di un dialogo che porti finalmente a trovare soluzioni giuste, dignitose e definitive per i nostri popoli. La tragedia di questo momento, infatti, ci dice che non è più tempo per tattiche di corto respiro, di rimandi ad un futuro teorico, ma che è tempo di dire, qui e ora, una parola di verità, chiara, definitiva, che risolva alla radice il conflitto in corso, ne rimuova le cause profonde e apra nuovi orizzonti di serenità e di giustizia per tutti, per la Terra Santa ma anche per tutta la nostra regione, segnata anch’essa da questo conflitto. Le parole come occupazione sicurezza e le tante altre parole simili che da troppo tempo dominano i nostri rispettivi discorsi, devono essere rafforzate da fiducia e rispetto, perché questo è ciò che vogliamo che sia il futuro per questa terra e solo questo garantirà stabilità e pace vere.

Rinasca allora Cristo in questa terra, Sua e nostra, e riparta da qui il cammino del Vangelo della pace per tutto il mondo! Rinasca nel cuore di chi crede in Lui, muovendolo alla testimonianza e alla missione, senza la paura della notte e della morte! E rinasca anche nel cuore di chi ancora non crede, come desiderio di pace e di bene, di verità e di giustizia!

Nasca Cristo anche nella nostra piccola comunità di Gaza. Ero solito passare qualche giorno con voi, carissimi, prima di Natale. Quest’anno non è stato possibile, ma non vi abbandoniamo. Siete nel nostro cuore e tutta la comunità cristiana di Terra Santa e nel mondo si stringe intorno a voi, che sentiate per quanto possibile il calore della nostra vicinanza e del nostro affetto.

Rinasca infine Cristo nel cuore di tutti, perché per tutti sia ancora Natale!
Buon Natale!

Pierbattista Pizzaballa, Cardinale, Patriarca latino di Gerusalemme

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NATALE E LE GUERRE DIMENTICATE

Ricevendo nel 2022 i redattori della rivista Mondo e Missione, Papa Francesco aveva detto: “Le guerre dimenticate sono un peccato”.
A distanza di poco più di un anno, oltre al conflitto tra Russia e Ucraina e alle già molte guerre dimenticate si è aggiunto quello a Gaza tra Israele e Hamas.
Delle due guerre a noi più vicine già scriviamo, ma ora, unendoci alla preghiera di Natale di Papa Francesco, vorremmo almeno citare i molti fronti caldi ancora aperti nei vari Continenti – a partire dall’Africa – di cui non si parla abbastanza o non si parla affatto.
Sono guerre lontane da noi, non sono alle porte dell'Europa e forse per questo risultano 'dimenticate', non fanno audience.
Ma sono tutti parte di quel grande puzzle che il Pontefice più volte ha definito “la terza guerra mondiale a pezzi che affligge il mondo”.
Anche questo Santo Natale è dunque segnato da guerre note e meno note, ma tutte portatrici di distruzione, fame, malattie e morte: “Con la guerra tutto è distrutto!” ricorda il Papa.
Ecco dunque, nel giorno in cui il calendario cristiano commemora 'i Santi Innocenti' un breve (e certamente incompleto) elenco di queste guerre dimenticate con un breve accenno alle situazioni che i nostri fratelli cristiani vivono in quei Paesi martoriati.


Preghiera per la pace che Papa Francesco ha proposto per questo Santo Natale:

Signore Dio di pace, ascolta la nostra supplica! Donaci Tu la pace, insegnaci Tu la pace, guidaci Tu verso la pace. Apri i nostri occhi e i nostri cuori e donaci il coraggio di dire: ‘mai più la guerra!’; ‘con la guerra tutto è distrutto!’. Infondi in noi il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace. E che dal cuore di ogni uomo siano bandite queste parole: divisione, odio, guerra! Signore, disarma la lingua e le mani, rinnova i cuori e le menti, perché la parola che ci fa incontrare sia sempre ‘fratello’, e lo stile della nostra vita diventi: shalom, pace, salam!”.


LE GUERRE DIMENTICATE

La Siria ancora divisa dopo 12 anni di guerra

Il primo pensiero non può non andare alla Siria, terra martoriata da 12 anni di guerra, esattamente dal marzo 2011. I ribelli islamisti di Al Nusra che combattono il regime del presidente siriano Bashar al Assad controllano ancora alcune zone del Paese, tra cui Iblid al confine con la Turchia. La cittadina è vicina ai tre villaggi cristiani della Valle dell’Oronte. Qui la popolazione cristiana locale ha subito negli anni moltissimi soprusi, come espropriazioni, furti, rapimenti, occupazioni di case e terre. Inoltre, i riti possono essere celebrati solo dentro la chiesa e i luoghi di culto non devono avere all’esterno croci, campane, statue e immagini sacre.

Il Natale in Siria
Che Natale sarà in Siria? “La lotta continua in noi, tra di noi e intorno a noi, e l’Erode dell’epoca alimenta la guerra ogni giorno e sotto ogni cielo”, scrive mons. Hanna Jallouf, vicario apostolico di Aleppo dei latini, nel suo messaggio natalizio ai cristiani siriani: “Siamo vittime di strategie più grandi di noi, ma il Natale ci mostra l’opera di Dio, ci mostra chi siamo e cosa dovremmo essere come cristiani. Dobbiamo essere un segno umile della forza dell’amore, della pace e della verità”.

Iraq: dopo 20 anni dalla guerra c'è ancora disperazione

20 anni dopo la guerra in Iraq, iniziata il 20 marzo 2003 da una coalizione guidata dagli Stati Uniti alla quale partecipò anche l’Italia, la situazione nel Paese è ancora disastrosa. Centinaia di migliaia di persone hanno perso la vita a causa di decenni di guerra civile e dell’ascesa del sedicente Stato islamico e del suo regno del terrore. La maggior parte dei giovani è disoccupata; i miliardi di entrate derivanti dal prezzo record del petrolio non passano alla popolazione ma vengono presi da élite corrotte; le milizie dell’Isis dominano ancora alcune parti del Paese.
Milioni di iracheni stanno lottando per avere prospettive future.

Il Natale in Iraq
Tra le preoccupazioni derivanti dal clima politico carico di tensioni e conflitti la nascita di Cristo viene a ricordarci con forza il messaggio di speranza, di pace, fratellanza, amore, solidarietà di Dio”.
Comincia così il Messaggio di Natale del patriarca caldeo, card. Louis Raphael Sako. “Il Natale – spiega Mar Sako – è foriero di speranza. Che dovrebbe essere tradotta dagli iracheni rifiutando le differenze, consolidando l’appartenenza nazionale e cercando insieme di costruire uno Stato civile, uno Stato di cittadinanza, di giustizia e di diritto. Uno Stato i cui cittadini vivono in libertà, dignità, sicurezza e uguaglianza”.

Somalia

In Somalia un ventennio di guerre civili e assenza del controllo statale hanno permesso a gruppi terroristici come Al-Shabaab di insediarsi all’interno del Paese. Oggi il Paese africano si trova ad affrontare innumerevoli sfide. Dal 2021 vive una situazione di impasse politica a causa del termine del mandato del presidente Mohamed Abdullahi Mohamed e del continuo rimandare le elezioni presidenziali e parlamentari. Questo ha portato a nuove violenze con i terroristi che cercano di indebolire il governo e assoggettare nuove zone.
Inoltre, il Paese si trova ad affrontare forti crisi climatiche. Oltre allo stato di emergenza causato dalla maxi invasione di locuste, si teme che la situazione possa peggiorare a causa dell’arrivo quest’anno di El Niño, con conseguenti inondazioni che potrebbero spingere altre centinaia di migliaia di persone verso l’insicurezza alimentare. Questo Natale, la situazione umanitaria nel Paese rimane profondamente preoccupante, con quasi quattro milioni di persone che affrontano la fame e circa 1,2 milioni di sfollati a causa delle recenti alluvioni.

Libia

La Libia è uno dei Paesi più instabili e pericolosi del mondo, spiega Affari Internazionali': la sistemica instabilità politica e la costante crisi economica la pongono tra i 20 stati più fragili al mondo secondo il Fragile State Index. Il Paese è privo di un’autorità centrale dallo scoppio della guerra civile nel 2014, durante la quale due governi si sono contesi la leadership della Libia facendo affidamento su diverse milizie irregolari.
Le Nazioni Unite riconoscono il Governo di Unità Nazionale (GNU), i cui principali sponsor finanziari e militari sono la Turchia e il Qatar. Il GNU ad oggi controlla solo parte della Tripolitania (la regione nord-occidentale del Paese). La maggior parte della Libia è invece nelle mani del Governo di Stabilità Nazionale (GNS), che fa affidamento sulla forze militari del generale libico Khalifa Haftar, il quale a sua volta riceve supporto materiale e finanziario dall’Egitto, dagli Emirati Arabi Uniti e, indirettamente, dalla Russia tramite i mercenari della Wagner, presenti anche in molte altre regioni dell’Africa.

Il Natale in Libia
Nonostante un cessate il fuoco permanente accordato dalle due parti nel 2020,i negoziati mediati dalla missione UNSMIL dell’ONU non hanno portato ad un trattato di pace vero e proprio. Anche se la frequenza degli scontri armati è diminuita, non vi è ancora un esecutivo capace di garantire l’ordine e la pubblica sicurezza.

Anche questo Natale, la situazione per la popolazione civile resta dunque tragica: i libici devono far fronte sia alla devastazione del conflitto armato che alla penuria di beni di prima necessità. A questi due mali vi si è aggiunta più di recente la catastrofe naturale dell’uragano Daniel che ha investito il Mediterraneo e ucciso migliaia di persone. La Libia resta inoltre uno dei principali hub della tratta di esseri umani, laddove numerosi migranti africani in cerca di miglior vita in Europa diventano vittima dei trafficanti.

Il Myanmar, il colpo di Stato e i Rohingya

Il Myanmar, noto anche come Birmania, è stato teatro il 1 febbraio del 2021 di un colpo di Stato militare che ha rovesciato il governo di Aung San Suu Kyi. I mesi successivi sono stati segnati da grandi proteste contro la giunta e da forti repressioni militari, sia contro la popolazione civile, sia contro le minoranze religiose, come quella dei Rohingya che vive nella parte settentrionale del Paese, nello stato di Rakhine. Secondo i rapporti delle Nazioni Unite, i Rohingya sono una delle minoranze più perseguitate nel mondo.

I cristiani in Myanmar
Siamo come agnelli in mezzo ai lupi”: sono le parole, accorate e commosse, del vescovo Celso Ba Shwe, Pastore della diocesi di Loikaw, nel Myanmar centrosettentrionale. Come confermato all’Agenzia Fides, il complesso della cattedrale di Cristo Re di Loikaw – cuore della cristianità nel paese – è stato occupato dall’esercito birmano che lo usa come campo base militare. Il Vescovo, i sacerdoti e i suoi collaboratori, scacciati dalla loro residenza abituale si trovano a vivere da sfollati. Quello che si apprestano a vivere sarà per loro un Natale da profughi, nella precarietà e del disagio. “Finché saremo agnelli, vinceremo e, anche se saremo circondati da numerosi lupi, riusciremo a superarli – sottolinea il vescovo Ba Shwe - Facciamo il possibile per comportarci come buoni agnelli, preoccuparci gli uni degli altri, incoraggiamoci a vicenda, per mostrare amore e fare il bene”.
 

L’Armenia vive il peggior Natale della sua storia recente

L’Armenia vive il Natale più difficile della sua storia recente. Il 19 settembre 2023 l’Azerbaigian ha lanciato un’offensiva militare su larga scala nella regione del Nagorno-Karabakh, a maggioranza armena. Il risultato è stata una schiacciante e rapidissima vittoria azera che ha portato al disarmo delle forze della Repubblica dell’Artsakh.
E che ha provocato al contempo l’esodo di decine di migliaia di abitanti armeni dalla regione. Quasi tutta la comunità armena che viveva nell’ex Regione autonoma del Nagorno-Karabakh (in Azerbaigian) è scappata in Armenia. “La regione cesserà di esistere entro la fine dell’anno”, evidenzia Caritas Italiana che aggiunge: dopo tre decenni di conflitti e guerre [con il governo azero, ndr] sono arrivate in Armenia circa 100.000 persone secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr), su una popolazione stimata di circa 120.000 abitanti. Non sono riusciti a fuggire solo poche centinaia di persone, principalmente malati e anziani”.

Africa in pezzi: la Repubblica Democratica del Congo e il Sud-Sudan

Di guerre dimenticate in Africa ce ne sono tante, come quella del delta del Niger dove i contrasti etno-politici proseguono dai primi anni Novanta.
Nella Repubblica Democratica del Congo siamo di fronte ad una guerra dimenticata da oltre trent’anni. Lo sfruttamento illegale delle risorse naturali e minerarie, ma soprattutto lo scontro in costante deterioramento con i paesi limitrofi nella zona orientale, peggiorano la stabilità del Paese.
Anche in Sud Sudan la situazione è drammatica. Il Paese nasce nel 2011 dopo cinquant’anni di guerra e un referendum dove il 98,8 per cento della popolazione vota per la separazione dal Sudan. Ma dopo neanche tre anni scatta una nuova guerra civile, un conflitto che si trasforma in guerra tribale tra i due gruppi etnici del Paese: i Dinka e i Nuer. Dopo più di dieci anni e diversi tentativi a favore la pace, persistono le schermaglie tra etnie e la fine della guerra sembra sempre più lontana.

”, “Anni di guerre e conflitti non sembrano conoscere fine mentre i processi di riconciliazione sembrano paralizzati e le promesse di pace restano incompiute. Questa estenuante sofferenza non sia vana; la pazienza e i sacrifici del popolo sud sudanese, di questa gente giovane, umile e coraggiosa, interpellino tutti e, come semi che nella terra danno vita alla pianta, vedano sbocciare germogli di pace che portino frutto" fu  l’auspicio del Papa espresso al termine del suo viaggio apostolico lo scorso febbraio in Congo e Sud-Sudan.

Il conflitto in Sudan: record di sfollati interni

Uno dei più recenti conflitti aperti quest’anno è quello del Sudan, in Africa. Dopo il primo (2019) ed il secondo colpo di Stato (2021) il Paese è stato colpito dal terzo golpe per ragioni politiche ed economiche il 15 aprile del 2023. Lo scontro ha diviso il Paese a metà e vede contrapposti i due gruppi di membri del Consiglio di sovranità di transizione: da una parte l’esercito sudanese e dall’altra le Rapid Support Forces. Del conflitto ne hanno parlato sporadicamente i media la scorsa estate, poi è stato completamente eclissato dal conflitto tra Hams e Israele. Eppure, il conflitto si sta allargando a vaste parti del Paese e la gente fugge in territori vicini o in altre Nazioni. La scorsa settimana i combattimenti hanno raggiunto Wad Madani (180 chilometri a sudest di Khartum) importante centro di smistamento degli aiuti umanitari e rifugio per gli sfollati in fuga dagli scontri nella capitale.
Questo Natale segna un triste primato per il Sudan: il Paese ha raggiunto infatti il più alto numero di sfollati interni del mondo. Si tratta di almeno 7,7 milioni di persone, tra cui – si stima – almeno 3,3 milioni di bambini. Il numero è quasi raddoppiato da aprile, quando il devastante conflitto ha spaccato il Paese in due. La drastica riduzione della produzione alimentare nazionale e la grave carenza d’acqua lasciano le famiglie sfollate in una situazione disastrosa. Nel silenzio generale.

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ORMAI LA GUERRA E' SOLO ORRORE
due incredibili testimonianze

Nell'imminenza del Natale, riteniamo imprenscindibile rivolgere ancora una volta lo sguardo sulle guerre in atto in Ucraina e a Gaza. Siamo comunque perfettamente consapevoli del fatto che sulla terra la guerra si sta facendo "senza fine" perché continua a scoppiare in infinite parti.
Dobbiamo ancora una volta guardare a queste guerre perché, ormai, esse hanno raggiunto forme di distruzione di massa che sprofondano squallidamente nell'assurdo, tanto sono laceranti e, soprattutto, disumane. La loro fattispecie satanica deve turbare. Si pensi: nemmeno la festa religiosa del Natale riesce a interrompere l'orrore della sua violenza mortifera. Chi ha pianificato questo orrore e lo sta attuando, con una perfezione stracarica di scienza e di risorse, ha deciso che debba assolutamente procedere martellante nelle sue dinamiche ed esasperato nel suo folle cinismo. Questa pazzia, in parte patologica e in parte satanica, è evoluta al punto di rifiutare anche una breve tregua natalizia.
Dobbiamo fermarci. Fare entrare in un silenzio sufficientemente prolungato la nostra coscienza. Dobbiamo impedire che eventi tanto disastrosi ci sfiorino senza mai impattare sul serio sulla nostra coscienza. Un cristiano non può limitare le sue considerazioni a fuggevoli momenti. Lo Spirito Santo, infatti, gli proibisce di procedere da superficiale. Non può essere una persona sempre molto tendente all'indifferenza. Qui, ci si deve rendere conto che l'insensibilità si sta facendo colpa molto grave. I cristiani la chiamano perciò peccato grave.
Urge ritrovare in se stessi l'intelligenza e le forze dell'umanità che rende prima onesti e, subito dopo, generosi e solidali con chi è sconvolto dal male che nel frattempo si è fatto tragedia. Questa umanità deve rendere cogente il bisogno personale di assicurare respiri di vita a tutti coloro che, civili assolutamente innocenti, un giorno si sono improvvisamente ritrovati coinvolti in micidiali situazioni di guerra. Chi è cristiano, quindi spirituale, deve in un qualche modo vivere sulla sua pelle il dramma di chi procede sapendo che da un momento all'altro può arrivare una bomba, un missile, un drone che in un istante fanno ritrovare senza casa. Il dramma di chi ha cominciato a vivere giorni nei quali la fame non ha cibo. La sete non trova acqua. Ferite o malattie sussistono senza medicine.
Ora seguiranno due note. Una fa rimbalzare notizie dall'unica e piccola parrocchia cattolica situata nella Striscia di Gaza. La seconda, di seguito, propone alcune considerazioni sulla situazione attuale dell'Ucraina. Vorremmo che queste due note si trasformino in semi che il Signore semina nelle nostre coscienze perché essi, crescendo, divengano pianta capace di produrre frutti vitali. Oggi, travolti dalla virulenza di queste tragedie in atto, è davvero fondamentale riscoprisi una pianta creata dal Signore. Sapere che ogni pianta diffonde attorno a sé ossigeno. Riconoscere che, se la quantità di ossigeno di una singola pianta è molto limitata, l'insieme delle piante crea una quantità di ossigeno, così grande, da fare vivere il pianeta.
Si può, allora, concludere che chi sa attivare in se stesso spirito di attenzione e senso di consapevolezza, diventa un servo del Signore sempre pronto a servirlo nel fare la sua parte. La sa individuare nel concreto del mondo in cui viene a ritrovarsi. La ama. La vive con entusiasmo e con gioia. In tal modo, è cosciente di dare vita a una testimonianza luminosa ed efficace di persona credente. Sa diffondere amore attorno a sé. Insieme, sa rendere importante la sua preghiera. Quasi senza accorgersene, diventa una persona di cui, chi è martoriato dalle violenze senza fine, ha un infinito bisogno.

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testimonianza uno


Gaza, quel che non si sa
dell'assedio della piccola comunità cristiana

«I carri armati che si trovano nei pressi della nostra chiesa - dice suor Nabila Saleh, della Congregazione delle Suore del Rosario - stanno sparando in continuazione. Indirizzano i loro colpi verso tutto ciò che è ancora in piedi. I soldati setacciano il territorio. Non abbiamo né luce, né acqua, non abbiamo nulla. Soltanto tanta paura. Ora tutto il complesso della parrocchia della Sacra Famiglia è circondato da soldati israeliani.
Ma non si è spenta la speranza che il Signore e la Madonna non ci abbandoneranno
».
Nel sottofondo della conversazione si sentono i colpi esplosi dai carri armati. La suora balbetta, piange. Non riesce più a raccontare quello che sta accadendo e il colloquio si interrompe all'improvviso ... Non c'è più contatto telefonico.

Il giorno dopo la tragica uccisione di due donne, la situazione nelle vicinanze della parrocchia latina di Gaza è sempre più drammatica. La cronaca, purtroppo, deve registrare una triste pagina che riguarda i cristiani della Striscia. Sabato scorso, infatti, due donne sono state uccise da un cecchino israeliano. Madre e figlia. Si chiamavano Nahida Khalil Anton e Samar Kamal Anton, entrambe cristiane. Vivevano all'interno della struttura della chiesa parrocchiale latina di Gaza assieme ad altre settecento persone che lì hanno trovato un rifugio. La loro casa è stata completamente distrutta dalle ruspe dell'esercito israeliano, qualche giorno dopo che i militari con la stella di David avevano avviato l'operazione di terra contro i miliziani di Hamas.

Nahida e Samar stavano recandosi in bagno quando un soldato, con il suo fucile di precisione, colpiva prima Nahida e poco dopo Samar. Altre sette persone sono rimaste ferite, una è in gravi condizioni. Facevano parte della piccolissima comunità cattolica all'interno della Striscia. Ammazzate senza alcuna motivazione. Senza nessuna colpa. Le hanno uccise a sangue freddo. «Si tratta di una campagna di morte contro la più antica comunità cristiana del mondo. Samar era la cuoca della casa delle Suore di Madre Teresa di Calcutta», ha detto Hammam Farah, parente delle due palestinesi cristiane uccise, in una comunicazione su X.

Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca della Chiesa Madre, immediatamente informato di quanto stava accadendo in parrocchia, si è messo in contatto con il Gabinetto di guerra del governo di Benjamin Netanyahu chiedendo la sospensione dell'azione militare. Ma inutilmente.
I militari hanno proseguito nelle loro operazioni. L'ordine che avevano ricevuto non è stato revocato. E anche i carri armati sono entrati in azione. Uno ha sparato contro la casa delle Suore di Madre Teresa. All'interno della struttura, oltre alle religiose, vivono 54 bambini con gravi problemi fisici. Molti dei quali sopravvivono con il respiratore. Ora questi piccoli sono in cerca di un nuovo rifugio. Distrutto anche l'unico generatore di corrente e una suora è rimasta ferita. «Nessuno ci aveva avvertito dell'operazione militare», dicono in Patriarcato.
Le operazioni militari sono proprio a ridosso dei locali della chiesa della Sacra Famiglia e c'è molta paura tra i cristiani che hanno trovato rifugio in quel luogo. «Sono momenti di panico; c'è terrore, soprattutto tra i bambini e gli anziani. Ma perché ci stanno uccidendo? Non siamo terroristi. Dopo la tragica morte di Nahida e Samar siamo tutti seduti per terra. Nessuno di noi si alza. Abbiamo veramente tantissima paura», dice una fonte di Gaza che non vuole rivelare la sua identità per il timore di ritorsioni. Sembra che i cecchini israeliani abbiano l'ordine di sparare su qualsiasi cosa in movimento.

Kamel Ayyad, portavoce della chiesa ortodossa di san Porfirio, struttura colpita da un attacco israeliano, durante il quale persero la vita ben diciotto persone, tra cui diversi bambini, è molto preoccupato; se gli israeliani continueranno a bombardare le chiese e ad ammazzare i fedeli «molti cristiani - ha dichiarato - sono intenzionati a lasciare Gaza, per l’America, il Canada o il mondo arabo, alla ricerca di un’esistenza più sicura».
I carri armati, intanto, proseguono la loro avanzata seminando morte e distruzione sia al nord, ormai raso al suolo quasi completamente, sia nel sud di Gaza dove i militari hanno intensificato le azioni di guerra. Ed è proprio in una di queste operazioni che tre ostaggi israeliani sono stati uccisi. Sventolavano un drappo bianco e urlavano, in lingua ebraica, di essere dei prigionieri di Hamas. Ma inutilmente. Sono stati ammazzati. Uccisi dal "fuoco amico" mentre credevano di avere ormai riconquistato la libertà. Il portavoce dell'esercito, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha spiegato la dinamica: «Nel corso dei combattimenti un'unità dell'esercito ha assimilato per errore tre israeliani con dei miliziani. Ha aperto il fuoco nella loro direzione e sono rimasti uccisi. Subito - ha aggiunto il portavoce - abbiamo avuto il sospetto di un errore. I loro corpi sono stati trasferiti in Israele per il riconoscimento».
L'esercito ha subito avviato un'inchiesta per stabilire l'esatta dinamica dell'accaduto. La notizia della morte dei tre ostaggi ha causato proteste e scontento in tutto Israele. Decine di persone hanno manifestato davanti al Quartier generale militare di Tel Aviv. I dimostranti esibivano cartelli con i nomi e le foto di molti altri ostaggi, chiedendone l’immediato rilascio.

Settantadue giorni dopo quel tragico attacco di Hamas, sono quasi 19.000, secondo le autorità di Gaza, i palestinesi uccisi; oltre 1.200 tra civili e militari gli israeliani morti in quel tragico 7 ottobre, e almeno 110 soldati ebrei sono caduti nei combattimenti di terra iniziati il 27 ottobre. Un bilancio pesantissimo.
Ma anche in Cisgiordania il clima sta per superare il livello di guardia. Pare che a Jenin i soldati israeliani agiscano ormai senza regole di ingaggio. È di qualche giorno fa la notizia che un militare, insieme ad altri commilitoni, dopo essere entrato in una moschea della città ha preso e attivato un microfono per recitare una preghiera ebraica. Gesto che i musulmani hanno giudicato come una provocazione. Del resto a Jenin si continua a morire. Anche ieri, domenica, un giovane è stato ucciso. Laith Abu Al-Nimr è morto a causa delle ferite provocate dai frammenti di un proiettile sparato da un drone contro un gruppo di giovani che si trovava nel quartiere orientale della città. Il numero dei palestinesi uccisi in Cisgiordania sale a 294. A Gerusalemme le forze di sicurezza impediscono a decine di uomini e giovani di pregare nella moschea di al-Aqsa, dando, invece, la possibilità ai coloni ebrei ultraortodossi di entrare nella spianata per recitare le loro preghiere.

Di fronte a tutta questa sofferenza il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei latini rivolge un pressante invito ai cristiani a «pregare per tutte le vittime innocenti. La sofferenza degli innocenti davanti a Dio ha un valore prezioso e redentivo, perché si unisce alla sofferenza redentrice di Cristo. Che la loro sofferenza avvicini sempre di più la pace e non contribuisca a generare altro odio!».

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testimonianza due

La grave situazione in Ucraina

L'Ucraina è ormai in grave difficoltà nella guerra contro la Russia, una guerra che sta dissanguando entrambi; ma mentre la Russia sembra non risentire delle sanzioni imposte dall'Occidente, l'Ucraina appare in grave crisi. Fonti giornalistiche riferiscono che Kiev sta reclutando donne, anziani, ragazzi minorenni e disabili da inviare al fronte.
'Questa è una guerra combattuta dai poveri', dichiara un avvocato di Kiev che prefrisce mantenere l'anonimato con il giornalista che lo intervista.
Ma, nonostante la censura del Governo ucraino, affiorano notizie che parlano di problemi gravi dovuti a reclutamento forzato, alla mancanza di libertà politiche, ala dilagante corruzione e allo scontro tra chi ancora segue Zelensky e chi ormai lo contrasta apertamente.

L'intervista del prof. Ghini ordinario di slavistica all’Università degli studi di Urbino spiega bene la situazione ucraina.
Zelensky non è più così saldo in sella e l’Ucraina deve sciogliere ancora molti nodi, anche per entrare nella Ue: il reclutamento, appunto, è sempre più massiccio, il rispetto delle minoranze non è garantito, la corruzione, nonostante qualche epurazione, resta un problema, ai partiti di opposizione è stato messo il bavaglio e la libertà di stampa soppressa. In un contesto in cui la superiorità russa sembra sempre più schiacciante forse il presidente che ha incitato alla resistenza, ora in dissidio con il capo di stato maggiore dell’esercito Zaluzhny, non è più l’uomo giusto al posto giusto”.

L’Ucraina ha problemi di rifornimenti per sostenere la guerra ma sembra che debba affrontare anche delle divisioni interne tra vertici militari e vertici politici: qual è la situazione?
Il fatto nuovo è che è venuto allo scoperto un dissidio aperto tra i vertici della governance ucraina, Zelensky e Zaluzhny. E anche Klitschko, sindaco di Kiev, ha criticato il presidente. Una situazione emersa nonostante la censura dei mass media, che invece è un fatto vecchio, così come l’abolizione dei partiti. Se il dissidio è stato portato alla luce del sole, quindi, vuol dire che c’era la volontà di renderlo pubblico nonostante tutto.

Il primo problema da affrontare è la necessità di rinfoltire le fila dell’esercito e quindi di avere più persone a disposizione per combattere: come si sta muovendo il governo?
Continua il reclutamento e si allarga alle fasce deboli della popolazione: sui canali Instagram si parla da tempo di reclutamento forzato e di arruolamento di persone invalide e anziane. Non sto dicendo che prendono i disabili e li mandano in prima linea, ma qualche caso è documentato: o c’è stato un errore da parte dei reclutatori oppure non sanno più da che parte girarsi. E il reclutamento a tappeto per le donne è una eventualità sempre più concreta.

Anche i rapporti con i Paesi vicini non sono proprio idilliaci: quali sono gli ostacoli da superare con la Polonia e con le altre nazioni confinanti?
Il grosso problema è quello del blocco delle merci da parte della Polonia e della Slovacchia che si sentono minacciate dalle esportazioni a bassissimo costo dell’Ucraina di prodotti alimentari anche di bassa qualità. Da mesi i polacchi stanno facendo passare pochissimi camion al giorno.

Uno dei nodi da sciogliere in Ucraina, contestato anche dall’Occidente, è quello della corruzione. Ci sono stati ministri esautorati per questo motivo: basta per sistemare la situazione?
Il tema della corruzione è fondamentale per entrare in Europa, che è sempre stata critica su questo punto, anche prima del 2014 e del 2022: quella messa in atto da Zelensky, però, non sembra essere una vera soluzione. Il ministro Reznikov, sospettato di corruzione, è stato preso e mandato a Londra a fare l’ambasciatore: non è un modo per risolvere le cose. Il problema è sistemico: l’onnipotere dei vertici militari non garantisce dalla corruzione. In tutte le situazioni dove viene diminuito il controllo democratico e anche del quarto potere, quindi dei giornalisti e dei media, la corruzione aumenta.

In Ucraina, appunto, oggi non c’è libertà politica e neanche libertà di informazione: quanto pesano questi due elementi?
Eliminare i partiti che c’erano prima, aumenta o diminuisce la corruzione? Non c’è più controllo da parte della stampa, i giornalisti stranieri non possono fare il loro lavoro, l’opposizione politica non esiste più: chi fa il controllo? Libertà politica e di informazione sono anche requisiti per entrare nella Ue. Un contesto in cui va inserito anche il blocco delle elezioni. Non mi risulta che sia necessario che una situazione bellica precluda le elezioni politiche. In Gran Bretagna nella Seconda guerra mondiale ci sono state, si possono fare anche se in condizioni precarie. Forse anche da questo dipende l’abbassamento della popolarità di Zelensky: non vuole confrontarsi con l’elettorato.

La frattura fra Zelensky e Zaluzhny significa anche un modo diverso di intendere la guerra? Da una parte c’è chi la vuole continuare, dall’altra chi è disposto ad aprire trattative di pace?
Una rottura “strisciante” c’era già stata: basta pensare all’ordine di ritiro da Bakhmut firmato da Zaluzhny e bloccato da Zelensky, che non ha voluto una ritirata in una città che in quel momento era diventata iconica. In generale l’esercito ucraino non ha mai attuato delle ritirate strategiche, come invece hanno fatto i russi. Una ritirata strategica significa risparmiare vite e a me sembra che nessuno voglia risparmiare vite ucraine. Si è tornati a parlare delle trattative di pace che potevano concretizzarsi già a marzo 2022, prima a Minsk e poi in Turchia: perché ci si è fermati? Anche l’Unione Europea, ora che gli Usa si stanno tirando indietro, dovrebbe chiedersi cosa vuole fare, se è veramente un obiettivo realistico quello di battere una potenza nucleare.

Senza Zelensky al potere l’Ucraina penserebbe a una soluzione diplomatica?
È assolutamente possibile che ci sia qualcun altro che sta trattando direttamente con i russi, scavalcando Zelensky. Non mi pare però che i russi siano disposti in questo momento a trattare, sui canali russi non leggo niente del genere.
Putin ha detto che è disponibile a trattare, anche se alle sue condizioni.
Tutti i canali di informazione russi (e anche Putin) però dicono che Odessa è una città russa. Questo vorrebbe dire chiudere all’Ucraina lo sbocco sul Mar Nero, sarebbe una scelta pericolosa, credo. Non so neanche se è saggio dal punto di vista geopolitico. Non concederlo a un Paese grande come l’Ucraina è un problema, c’è da pensarci. È punitivo. E quando le contrattazioni finiscono così, chi perde prepara sempre una controffensiva.

Il dissidio interno al governo ucraino, quindi, riguarda la gestione della guerra come le prospettive di pace?
Sì. Sono emerse divergenze fra l’esercito ucraino e i consiglieri della Nato: questi ultimi volevano che la controffensiva fosse concentrata su un punto solo, mentre Zaluzhny ha voluto che fosse distribuita su tre fronti, il che ha portato a una dispersione delle forze e a un fallimento dell’operazione. Il problema più grave per l’esercito ucraino è quello della logistica: ogni carro armato richiede una manutenzione continua e per giunta con pezzi ad hoc.

L’Ucraina, insomma, non è per niente granitica nell’affrontare questa guerra?
I russi hanno costituito almeno un battaglione di ex soldati ucraini, di prigionieri che hanno accettato di combattere dall’altra parte. D’altronde o le repubbliche separatiste del Donbass erano guidate da burattini manovrati da Putin oppure c’era una volontà popolare che spingeva in queste direzione. È un punto da chiarire. Se vale la seconda ipotesi vuol dire che una parte della popolazione era una minoranza russa e non è improbabile che oggi sia filorussa.

Zelensky ora ha i giorni contati?
Churchill è stato un grande primo ministro in guerra, però quando c’è stata la pace lo hanno mandato via. Zelensky è identificato esclusivamente con la resistenza ucraina, una volta che si constata che con la Russia non si può vincere, è ancora l’uomo giusto?

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PACE IN TERRA PER COSTRUIRE UN FUTURO

In queste pagine ospitiamo notizie e riflessioni sulle guerre attualmente in corso, o almeno alcune tra le tante guerre oggi presenti nel mondo, quelle a noi più prossime.
Oggi la terra appare martoriata dalle guerre, dalla violenza, dall'ingiustizia.
Eppure il bambino Gesù nasce per rappresentare per tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo il testimone che Dio intende venire incontro a chi vive sulla terra. In quanto è Redentore, Gesù nasce per redimere chiunque lo accoglie. Nasce, perciò, per fare ripartire la vita dopo avere fatto meravigliosamente rinascere gli uomini. Forse, proprio questo suo splendido agire non è percepito da diversi cristiani in modo corretto e consapevole. Pensano alla verità. Non pensano però che Gesù ha assunto carne e cuore. Alla pari, non pensano che Gesù chiede loro di fare in modo che la verità assuma la loro carne e il loro cuore per diventare una vita dinamica, gioiosa, innovativa. Un bene che si diffonde  e sa non rimanere un pensiero evanescente. I cristiani non si limitano a costituire persone portatrici di certezze. Loro sono uomini e donne che anche nel mutare delle circostanze della vita riescono sempre a restare gente generosa, entusiasta, capace di sacrificio a imitazione di Gesù. Se questo non accade, bisogna dire che i cristiani sono persone sostanzialmente "vecchie" molto simili alla gente "vecchia" che li attornia. Sono "vecchi" soprattutto perché non hanno il sentore di essere stati chiamati da Gesù a cambiare la vita attorno a loro. Loro persistono nel rinnovare  il vecchio che pullula ovunque nel mondo. Sono gente perfettamente funzionale al permanere del vecchio. Hanno voglie cariche di vecchio. Alla pari, pieni di vecchio sono i loro sogni, i loro progetti, il loro lavoro, le loro fatiche.
La celebrazione del Natale coincide con tutto il nuovo che la nascita di Gesù ha portato sulla terra. Ricostruendo l'uomo dal di dentro, Gesù dà un carattere di infinita stabilità a quella novità di vita che sa rendere un fattore sorpassato il male che genera guerre ora piccole ora grandi. Lo mette da parte. Poco importa, se chi sta attorno al cristiano è un "vecchio" che sa e vuole soltanto perpetuare il "vecchio". Anche se le circostanze lo obbligano a procedere da solo, il cristiano non viene meno. Paga di persona, per tutti, il prezzo della vita "nuova". Lui ha fede. Argina il "vecchio". Mette, così, al riparo dalla degenerazione il futuro. Lui mette al sicuro pace. E sa perfettamente resistere essendo del tutto consapevole che lui sta seguendo Gesù e, con Lui, sta vincendo il mondo che da sempre è immerso nel male che è davvero pieno di morte.


PACE IN TERRA PER COSTRUIRE UN FUTURO

di Mariapia Veladiano, scrittrice, laureata in filosofia e teologia, ha lavorato per più di trent’anni nella scuola, come insegnante e poi come preside.

Come si parla del Natale se tutto, intorno a noi, sembra dichiarare il tradimento di ogni nostra speranza di uomini e donne?
Pace in terra” cantano gli angeli. E dove. Nemmeno la terra promessa, la Terra che chiamiamo Santa, conosce qualcosa che somiglia alla pace. E del resto si può dire che mai, proprio mai la terra, nemmeno la Terra Santa, abbia conosciuto la pace. Gesù nasce dentro la violenza di un mondo poverissimo e non trova nemmeno un posto minimamente adeguato in cui essere accolto e poi, dopo che niente, assolutamente niente di male ha fatto per tutta la vita, muore della morte violenta e vergognosa di chi è colpevole, della colpa più antica e moderna, aver contestato il potere, aver agito a favore dei poveri in nome di Dio.
Aiuto, di che cosa si parla? La vertigine del Cielo che incontra la terra.
Di un Dio che si fa bambino, si affida alle mani delle donne e degli uomini e se loro non lo accudiscono muore, proprio davvero muore.
All’epoca di Gesù più o meno quattro bambini su dieci morivano ancora bambini, appunto. Ma non è morto di mancato accudimento Gesù, perché ha trovato Maria, Giuseppe, Elisabetta, quanti lo hanno accudito.
Quindi si può. E poi? La sua nascita non è stata divisiva, diremmo oggi. Intorno a lui si sono ritrovati pastori e Re Magi.
Ma Gesù che nasce non è separabile dalla strage degli innocenti.
Il Natale non è una magia che fa sparire il male.
È un evento potentissimo che tiene insieme i capi della storia: Dio è con noi, il male esiste e solo la conversione dei nostri cuori è una speranza per il mondo. Gli innocenti della strage muoiono perché i re del mondo, Erode o chi per lui, vogliono salvare il proprio smisurato potere. Dis-umanizzano avversari e nemici, disumanizzano i bambini.
Oggi capita che chi grida rabbia e vendetta sia “normale” e chi grida il bene e l’amore sia “buonista”, esagerato, sospetto.
Ma parlare dobbiamo, in nome della speranza. Che cosa resta se non coltiviamo la speranza. Nella giustizia come imperativo assoluto. Nell’amore che solo può guarire le nostre ferite e quelle di chi ci ha ferito. Ci sono mille motivi per cercare vendetta. Tanti hanno una buona buonissima ragione.
C’è chi per decenni ha subito, è stato ignorato dai grandi del mondo che hanno spartito le ragioni con l’accetta dell’economia, c’è chi ha avuto così tante persecuzioni e così tanti morti innocenti che mai, proprio mai sarà possibile pareggiare il conto, c’è chi vive da sempre nel cono d’ombra della storia ed è così povero e così disperato che può pensare che tutto sia preferibile al morire lentamente di fame e malattie. Anche il terrorismo e la strage.

In un testo famoso e bellissimo il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer si poneva il problema del successo. È Dieci anni dopo, del 1943. Dieci anni dopo l’ascesa al potere di Hitler, ovvero il trionfo della “grande mascherata del male”, come la chiama. Quando “capita che i mezzi cattivi portino al successo”, cioè che il male prevalga sul bene, proprio allora non si può né essere “semplice spettatore” né “arrendersi e capitolare”. “Chi parla di soccombere eroicamente davanti a un’inevitabile sconfitta, fa in realtà un discorso molto poco eroico, perché non osa levare lo sguardo al futuro” (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Queriniana: Brescia 2002, pp. 21-27).

Ecco, il futuro. Dov’è la nostra fede nel futuro?
Di cristiani, certo, ma anche di persone non credenti che vivono in una comunità, mettono al mondo figli, lavorano e amano. Stiamo tutti perdendo in un momento quello che abbiamo cercato di costruire in secoli di storia e lavoro: i diritti umani per tutti, la pace come bene assoluto, la terra come casa comune.
Ci sono stati tempi in cui queste parole non avevano senso. Ora ce l’hanno ma qualcosa ci corrode la speranza che si possa afferrare la mano di chi sta cadendo vicino a noi e salvarci, noi e lui. Che poi è un bel modo di vivere anche il presente, a pensarci.

Il Natale ci consegna lo scandalo della povertà e della violenza fra gli uomini e insieme la luce della speranza.
Perché tanti, ricchi e poveri, hanno saputo vivere lontani dalle logiche di violenza e anche noi possiamo ancora ogni giorno farlo.

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LA PACE TRA GIUSTIZIA E VIOLENZA

Il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato uno studio da cui emerge che i bombardamenti indiscriminati in corso da parte di Israele a Gaza hanno provocato il più alto numero di civili uccisi come mai accaduto in precedenza in una guerra negli ultimi anni.
Bombardamenti che hanno provocato finora oltre 17.700 morti in maggior parte donne e bambini, stando alle cifre fornite dal Ministero della salute della Striscia di Gaza. I bambini uccisi sarebbero più di 7000.
Secondo la ricerca di Haaretz, nel corso delle tre precedenti campagne militari condotte da Israele a Gaza, nel periodo 2012-2022, il rapporto tra le morti civili e il totale delle persone uccise negli attacchi aerei si aggirava intorno al 40%. Ma in questa occasione, con l’operazione 'Swords of Iron' (Spade di Ferro), si registra l’impennata al 61%, e così Haaretz parla di uccisioni “senza precedenti”. Il giornale israeliano sostiene che le cifre ci raccontano del più alto bilancio di morti tra civili in tutti i conflitti verificatisi nel mondo nel corso del XX secolo, in cui quelle dei non militari rappresentavano circa la metà dei morti.
Ma non è solo il quotidiano israeliano ad interrogarsi sulla guerra in corso: l’ex capo dei servizi segreti israeliani Ami Ayalon in un’intervista alla Stampa ha detto:


Credo che questa sia una guerra giusta. È una guerra di difesa. Chiunque mi dirà che sbaglio, gli ricorderò cos'è la guerra. (…) Quello che manca a Israele è l'obiettivo politico. Sto combattendo, sto uccidendo, sto morendo per creare una realtà migliore per i palestinesi e gli israeliani? Se sì, sosterrò questa guerra. Se no, non ho una storia da raccontare ai miei figli e ai miei nipoti”.


Ayalon non è un pacifista. Crede senza dubbio nella guerra. Ma non in questa guerra, se alla fine non creerà una situazione migliore.
Anche nella dottrina classica della 'guerra giusta' che più volte abbiamo citato, il tema dell’obiettivo, dello scopo proporzionato al danno, è fondamentale. Alla guerra di Gaza oggi manca una chiarezza di prospettiva sul fine, sullo scopo.
Nell'intervista Ayalon prosegue: si vogliono ancora due popoli e due Stati? O no? Non a caso l’ex capo dei servizi cita la guerra del Kippur di 50 anni fa. Quel conflitto, vinto dall’esercito israeliano, aprì la strada al riconoscimento di Israele da parte dell’Egitto, che arrivò 5 anni dopo e che poi costò la vita ad Anwer El Sadat e l’esclusione del Cairo dalla Lega Araba per dieci anni. Ma mise in moto un processo fondamentale per il mondo arabo e per Israele.
I dubbi sulla guerra a Gaza non sono solo legati al numero delle vittime civili, alla crisi umanitaria, alla guerra che è sempre un’avventura senza ritorno. Ma alla mancanza di un chiaro fine e di una prospettiva sul dopo. Che non sia la semplice permanenza di Benjamin Netanyahu al potere.
Per questo la pressante richiesta di un nuovo cessate il fuoco viene dal Papa, dall’Europa, dall’Onu ed è oggi realistica e concreta.

Sul fronte Ucraino invece sembrerebbe aprirsi qualche spiraglio.
Uno Zelensky molto stanco chiede soldi agli Usa, ma non tutti sono d'accordo nel sostenere ancora questa guerra: negli Usa ormai si è già entrati in clima elettorale e ci sono altre priorità.
Gli esperti ammettono che per l'Ucraina il 2023 è stato un anno disastroso: rivalità e divisioni interne, freddezza degli alleati americani ed europei, mancanza di armi e mancanza di soldi: si calcola poi che una intera generazioni di uomini è rimasta uccisa al fronte e ormai si reclutano riservisti, donne e ragazzi minorenni.
L'offensiva ucraina sostenuta da aiuti ingenti e le sanzioni economiche occidentali avrebbero dovuto sconfiggere Putin ma sono entrambe fallite.
Insomma, una situazione che pone la necessità di avviare trattative di pace: “l’Ucraina non ha più la priorità su altri temi” dice il Generale Morabito fondatore dell’Igsda e membro del Collegio dei direttori della NATO Defense College Foundation, in questa intervista:

Zelensky è volato in America per chiedere di sostenere la guerra contro la Russia. Stavolta però, a differenza dell’anno scorso, la sua visita è stata in tono dimesso. Al di là delle dichiarazioni di Biden, gli Usa, anche per le scelte dei repubblicani, non sono più un alleato così sicuro?
La realtà dei fatti è che la controffensiva è fallita in modo quasi totale, non ha raggiunto nessuno dei risultati che si era prefissata. Per sostenere lo sforzo anche in inverno le forze armate ucraine hanno bisogno di armi e di migliore tecnologia dagli Usa o dagli altri alleati occidentali. Il principale referente e fornitore è l’amministrazione Biden, che però ha problemi interni e non riesce a far approvare gli aiuti, anche se li ha legati a quelli per Taiwan e Israele. E per farli “passare” i repubblicani chiedono di frenare i migranti illegali che arrivano dal Messico.

Stando così le cose, la verità è che, al di là di Biden, c’è una metà del Congresso americano che ha altre priorità rispetto all’Ucraina e il primo problema è l’immigrazione. L’interesse per quella guerra non c’è più?
L’Ucraina non ha più la priorità su altri temi. L’ha avuta sicuramente all’inizio del conflitto, quando c’è stata l’aggressione dei russi, ma oggi non appare più così. A meno di un anno dalle elezioni, minare i risultati della politica estera di Biden può favorire i repubblicani nelle urne e la situazione al confine messicano, che appare critica, rimane una leva importante per l’opposizione alla Casa Bianca.

È un calcolo politico?
È assolutamente un calcolo politico, per ottenere qualcosa sul fronte del Messico e indebolire Biden. Non si discute della necessità di contenere la Russia, ma del modo in cui si porta avanti tale politica.

Per Zelensky il problema non è solo avere i fondi ora. Se i repubblicani dovessero vincere le presidenziali con Trump, per quello che sappiamo la guerra con la Russia finirebbe subito: gli Usa probabilmente non sosterrebbero più Kiev. Anche questo preoccupa il presidente ucraino?
La politica dei repubblicani fa pensare a un’America che pensi più a sé stessa, ai suoi problemi interni, e solo dopo ad essere una potenza egemone a livello mondiale. Poi bisognerà vedere cosa succederà a elezioni completate. Nulla va dato per certo. Per ora siamo all’America first dei repubblicani.

Alla fine Biden cercherà di ottenere comunque questi fondi? Secondo qualche analista potrebbe far arrivare comunque gli aiuti attingendoli da un altro capitolo di spesa.
Per adesso avrebbe concesso 200 milioni di dollari, una goccia nel mare, ma comunque soldi, che poteva corrispondere senza passare dall’approvazione del Congresso. Inoltre ha firmato un documento per cui Usa e Ucraina possono produrre armamenti insieme, anche se non ne sono ancora noti i dettagli. Nei sondaggi, al momento, è perdente, deve poter vantare qualche risultato nella sua opera di governo da presentare agli elettori.

Dovrà cedere alle richieste dei repubblicani?
Un “do ut des” deve esserci per forza: se i repubblicani non cedono, deve farlo lui, perché ha bisogno di portare a casa qualcosa di positivo per Kiev. Non può passare agli elettori il messaggio per cui sarebbe il presidente perdente che non è riuscito a supportare fino in fondo l’Ucraina. Anche la sua teoria secondo la quale la Russia, una volta vinto in Ucraina, attaccherebbe un Paese Nato, è tutta da dimostrare, ma serve a mettere pressione ai repubblicani.

Sta di fatto che l’Ucraina, se il Congresso dice no a nuovi fondi, non ha molte speranze di poter contrastare la Russia: significherebbe sconfitta sicura?
L’Ucraina è già in crisi e i fondi dovrebbero servire per resistere: il conflitto ormai ha preso una piega a favore di Mosca. I soldi e la conseguente disponibilità di armi e tecnologie richieste servirebbero a mantenere le posizioni e a non cedere.

Americani e ucraini starebbero contrattando anche un cambio di strategia dopo la controffensiva fallita. Ma mentre gli Usa spingono per una tattica conservativa, Kiev vorrebbe ancora riconquistare territori: realisticamente è possibile?
Oltre alle armi per attaccare servono gli uomini. Bisogna vedere se ci sono disponibili ulteriori risorse umane. L’età media dei combattenti ucraini sale ogni giorno. Poi bisogna tenere conto che ci sono voci secondo le quali Biden e Zelensky avrebbero preso in considerazione l’ipotesi di tenere dei colloqui di pace con i russi in Svizzera a gennaio.

In quel caso il Congresso potrebbe anche soprassedere sugli aiuti?
Non è così. Una cosa è sedersi al tavolo della pace in una posizione d’inferiorità, altra farlo forti di un supporto militare da parte dell’Occidente che permetterebbe di proseguire il conflitto. Andare a trattare senza fondi e sostegno economico-militare vuol dire andarci da sconfitto. Il supporto politico-diplomatico è fuori discussione e ci sarà.

Zelensky, acclamato l’anno scorso, quest’anno è arrivato a Washington con toni molto più dimessi. In quest’anno ha comunque perso molta dell’autorevolezza che si era guadagnato spronando la sua gente a opporsi ai russi?
Tutte le promesse e gli annunci che aveva fatto sulla controffensiva e sulla resistenza sono, purtroppo, caduti nel vuoto. Fa discutere anche il fatto che si sia recato in Argentina all’insediamento di Milei senza una logica: non è un Paese dal quale può ricevere aiuti. Dà l’idea di una persona che non è centrata. Comincia a essere stanco, anche la moglie ha detto che non vuole una sua ricandidatura.

Intanto sul campo di battaglia i russi sembrano che stiano prendendo sempre più piede nella zona di Kharkiv e di Donetsk. È così?
I report dicono che in questo momento l’Ucraina non riesce a reggere l’urto e sta perdendo terreno. L’artiglieria russa blocca le iniziative ucraine. E l’artiglieria in guerre di posizione come questa ha un ruolo importante, soprattutto ora che viviamo la stasi invernale. Mosca avrebbe disponibilità di munizioni, mentre quelle di Kiev scarseggiano.

La Russia ha ripreso ad attaccare anche nella capitale: perché?
Nei conflitti si cerca di sfruttare il momento favorevole. Se i russi vedono che non è un momento favorevole per l’Ucraina cercano di approfittarne. Le condizioni meteo, la mancanza di risultati sul terreno, la stanchezza morale dopo quasi due anni di conflitto giocano a favore di Mosca”.

Due guerre differenti per motivazioni, contesti, storiche rivalità, ma un comune enorme spargimento di sangue.
Due guerre che, come ancora ribadiamo, suscitano alla coscienza credente drammatiche domande sulla inestirpabile violenza che abita la storia dell'uomo, sull'uso della forza necessaria per realizzare la giustizia, sul significato e il ruolo del pacifismo e della non violenza: "c’è bisogno della forza per fermare la violenza, e insieme della non violenza per fermare ogni conflitto sanguinoso. La forza deve salvare le vittime di oggi, la nonviolenza deve metterci in guardia dalle vittime di domani".
Così scrive, in un articolo del 2022, Luigi Alici, già Presidente dell' Azione Cattolica Italiana: una riflessione preziosa anche per la guerra a Gaza e per ogni guerra.

La profezia della pace nell’oltraggio alla giustizia

Luigi Alici è professore emerito di Filosofia morale. È stato Presidente nazionale dell’Azione Cattolica dal 2005 al 2008.

Ci sono alcuni momenti cruciali nella storia, quasi sempre – ahimé – fatti di lacrime e sangue, rispetto ai quali non possiamo esitare, restare indifferenti o addirittura prendere abbagli madornali. A volte si tratta di eventi improvvisi (come una pandemia da coronavirus), a volte di azioni premeditate, come un atto di guerra, frutto di processi lenti e complessi dei quali ci è sfuggito il movimento e la direzione.

Ciò che conta, in entrambi i casi, è impostare una riflessione partendo dal lato giusto. E il lato giusto è la morte ingiusta di vittime innocenti: nel caso dell’aggressione militare all’Ucraina, le vittime sono uomini, donne, bambini, cittadini di uno Stato democratico legittimamente costituito, che nel 1991 aveva votato per l’indipendenza del proprio Paese con una maggioranza del 91% e che in 30 anni ha avuto sei presidenti democraticamente eletti, a fronte di un dittatore a vita, che è al potere da 22 anni.

Uomini, donne, bambini inermi sventrati dalle bombe, gettati in fosse comuni, separati violentemente dai propri cari, che a loro volta sono stati bombardati, affamati, privati della casa, del cibo, dei diritti più elementari di autodeterminazione, contro ogni principio etico e di diritto internazionale.

Se non si parte dall’ingiustizia patita, ogni altra strada che si prende diventa equivoca e fuorviante. C’è un tratto antropologico inquietante che accomuna i “no-vax” di fronte alla pandemia, e i “no-Russia-no-Ucraina” di fronte all’invasione ordinata da Putin; l’analogia più immediata è l’assoluta indifferenza dinanzi alle vittime.
Raramente negli atteggiamenti negazionisti ho sentito piangere i morti, avvicinarsi con empatia e compassione alla schiera interminabile di vittime innocenti; ancor più raramente, si sente il timbro della compassione nella prosopopea dei sapientoni, che cercano pretesti nei massacri del Donbass (come prima si cercavano nei laboratori cinesi), per dichiararsi fuori.

Un singolare partito trasversale, per fortuna minoritario, anche se molto attivo sui social, che è fatto non solo di gente comune, ma anche di intellettuali, giornalisti, uomini politici; persino scienziati, preti, vescovi e qualche patriarca che forse non stanno al posto giusto.
La tesi che li accomuna parrebbe sempre la stessa: le cose non stanno come vi vengono raccontate, c’è chi approfitta di eventi tutto sommato marginali, gonfiandoli e stravolgendoli per imporvi sacrifici e restrizioni da cui “loro” (che forse ne sono i veri responsabili) trarranno i più grandi benefici.

Nessuno dimentica l’equivoco lasciapassare agitato dai “benaltristi”, che trovano sempre un alibi per non essere dalla parte di nessuno: “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”.
Ieri si è sentito qualcosa di analogo: “Né con la Cina né con l’Organizzazione Mondiale della Sanità”; e oggi: “Né con la Russia né con l’Ucraina”.
Cecità e risentimento sono alla base di un mix letale di indifferenza individualistica, sempre pronta a cercare un capro espiatorio oppure a minimizzare ostinatamente quanto sta accadendo.

Nel caso della pandemia il grande alibi era fabbricato in nome delle libertà individuali, che non dovrebbero piegarsi a nessuna ragione comunitaria; oggi si è trovata un’altra bandiera dietro cui rifugiarsi: il pacifismo.

Ma la pace è un valore troppo alto ed esigente, e non può essere usato per legittimare l’ingiustizia e diventare la maschera più odiosamente opportunistica del menefreghismo. Almeno per tre ragioni fondamentali:

1 - Anzitutto, non si può piantare l’albero della pace sul terreno paludoso di un egoismo rozzo e viscerale, digiuno di nozioni fondamentali di etica pubblica, geopolitica, diritto internazionale, fermo a un mix di stereotipi datati, fatti di nazionalismo e antiamericanismo vecchia maniera, ammantati di false sicurezze e privi delle categorie interpretative adatte alla novità della situazione che stiamo vivendo.
Il fenomeno della vera e propria guerra di aggressione che si sta consumando in Ucraina, senza essere stata dichiarata (essendo semplicemente una “operazione militare speciale”), porta allo scoperto questi macroscopici limiti di analisi storica, che esigerebbero un ben altro spirito di umiltà, di ascolto e di attenzione. L’equilibrio è una grande virtù dei saggi, l’equilibrismo è il vizio degli opportunisti.

2 - In secondo luogo, non si può difendere la pace senza riuscire a distinguere la forza dalla violenza. La violenza è abuso di una forza ingiusta (e per questo illegittima), la forza è l’uso proporzionato di un diritto di resistenza, che non deve mai trasformare la difesa legittima in eccesso di legittima difesa. In questo difficile discernimento solo una istituzione terza (l’Onu o altre organizzazioni internazionali) può interporsi e impedire sconfinamenti da una parte e dall’altra. Senza tutto questo, dichiararsi equidistanti tra l’aggressore e l’aggredito, mettendo sullo stesso piano il carnefice e la vittima, significa solo una cosa: complicità con il più forte. È esattamente quello che accade quando vediamo un omone che sta stuprando una ragazza e tiriamo dritti, in nome della neutralità!

3 - Infine, una parola di apprezzamento verso il vero pacifismo: quello di chi crede nella non violenza ed è disposto a pagare di persona per testimoniarla. Il testimone autentico di pace è capace di gesti profetici, che possono apparire nell’immediato follemente irrazionali e inconcludenti, ma che invece ricordano, nel momento in cui tutti se ne stanno dimenticando, che bisogna guardare più lontano, essere meno miopi e più lungimiranti, creare le condizioni perché domani si possa rileggere insieme quello che è accaduto come una follia indegna dell’umanità, da cui dovremo lasciarci ammaestrare.

Per questo c’è bisogno della forza per fermare la violenza, e insieme della non violenza per fermare ogni conflitto sanguinoso. La forza deve salvare le vittime di oggi, la nonviolenza deve metterci in guardia dalle vittime di domani.
Senza dimenticare le conseguenze mostruose che abbiamo dovuto pagare per aver sottovalutato l’escalation hitleriana, oggi siamo messi drammaticamente di fronte a questa altalena tra impegno e disimpegno. L’unica cosa che non possiamo fare è far finta di niente e voltarci da un’altra parte. La storia ci guarda.

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CERCARE UN ANTIDOTO AL FANATISMO IMPERANTE

I confini oltre i quali si apre il barato dell'odio e della violenza senza limiti sono stati ormai superati.
Non vi è più alcun limite umanitario a difesa degli inermi e degli innocenti, una lunga storia di diritti internazionali e diritti umani semplicemente gettata nel cestino.
A fare da contorno poi a queste guerre vi è il tifo da stadio di piazze piene di manifestanti schierati o con l'uno o con l'altro contendente, una inarrestabile ideologizzazione della realtà ad uso e consumo dei social e del circo dell'informazione mediatica che copre e nasconde il dolore di una madre, il grido di un ferito o la morte di un malato senza più un ospedale.
Scrive Luca Ricolfi, Presidente della Fondazione IULM:


“Chi ha provocato la strage di civili e di malati all’ospedale di Gaza?
È stato un bombardamento dell’esercito israeliano o un lancio fallito di un razzo di Hamas?

Per Lucio Caracciolo, uno dei più autorevoli studiosi di questioni internazionali, ci sono tre soggetti che conoscono la verità (Usa, Israele, Hamas), ma questa storia è destinata a restare 'avvolta in una nube di tragica leggenda'. In assenza di testimoni indipendenti sul terreno, Hamas potrà continuare a dare la colpa all’esercito israeliano, Israele a darla ad Hamas.
E noi? Noi siamo impotenti. O meglio, siamo divisi in due campi. Quello di coloro che credono di sapere, e quello di coloro che sanno di non sapere.
Al primo campo appartengono gli schierati, convinti di poter scegliere fra le due versioni in base alle proprie convinzioni fondamentali: non può che essere stato Israele, non può che essere stato Hamas. E' questo che oggi serpeggia ovunque, nei cortei degli studenti filo-palestinesi, nei media assetati di vendetta, nelle folle che in Medio Oriente assaltano le ambasciate occidentali e inneggiano alla distruzione di Israele.
Al secondo campo, quello di coloro che sanno di non sapere, appartiene la maggior parte della gente comune, ma anche una piccola minoranza di studiosi, scrittori, giornalisti, cui mi sento di appartenere anch’io. Per noi è tragico quel che è successo, ma è anche terribile il modo in cui se ne parla. È terribile che, in omaggio al dovere di cronaca, vengano accostate notizie e pseudo-notizie, fonti autorevoli e fonti prive di ogni credibilità. È terribile che il 95% dell’informazione nei media più seguiti (tv e social) non sia informazione ma spettacolo. Dove l’ospite è invitato perché si sa già che parte farà, come se un talk show fosse un combattimento fra cani. Dove è evidentissimo che nessuno vuole scoprire come sono andate le cose, e che nessuno modificherà mai la propria idea ascoltando quella degli altri.
Da dove viene questa mancanza di interesse per la verità, anche quando una verità fattuale esiste, come nel caso della tragedia di Gaza?
Che cos’è che ha intossicato il mondo dell’informazione?”.

E dunque, la guerra continua.
La situazione è ben descritta da R. Radaelli sulla Rivista Vita & Pensiero:


“I corpi dei bambini uccisi non hanno bandiera. Sono una sconfitta per tutti, quale sia la loro nazionalità o appartenenza religiosa. E sarebbe osceno fare differenze. Ma le migliaia di piccoli uccisi – molti nel brutale, inumano attacco voluto da Hamas il 7 ottobre scorso, moltissimi nella terribile risposta di Israele, qualcuno infine, come il piccolo Kfir, l’ostaggio più piccolo rapito dai terroristi palestinesi, ucciso sembra dalle bombe del suo stesso Paese – testimoniano come le leadership di entrambi gli schieramenti abbiano sempre scelto la violenza e la prova di forza rispetto alla via delle trattative e del tentare una convivenza fra i due popoli. Sui motivi che hanno spinto Hamas ad attuare la carneficina del 7 ottobre scorso sono stati versati fiumi di inchiostro: sappiamo che vi sono state motivazioni locali, regionali, internazionali.
È servita a Hamas per rilanciare la questione palestinese, che tanto Israele quanto le monarchie arabe del Golfo si erano illuse di poter ignorare mentre firmavano i tanto decantati, ma tanto fragili Accordi di Abramo.
È servita per umiliare definitivamente la debole e corrotta Autorità nazionale palestinese, il cui declino di popolarità e irrilevanza cresce a ogni nuovo morto palestinese sotto le bombe israeliane. È servita all’Iran, che sostiene Hamas, per scompaginare l’alleanza regionale che lo voleva isolare e marginalizzare.
Ma il clamoroso fallimento della sicurezza nel sud di Israele – finora considerata inscalfibile – ci racconta anche di come la deriva ideologica e fanatizzante dell’ultradestra al potere nello stato ebraico abbia lacerato e indebolito quel Paese. Sono evidenti le responsabilità di Netanyahu – un politico populista e privo di scrupoli – che ha dato spazio, troppo spazio, nel governo a esponenti del cosiddetto “partito dei coloni”, personaggi come il ministro della sicurezza Itamar Ben-Gvir e il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, dichiaratamente razzisti e xenofobi.
Da qui le scelte di spostare il grosso delle forze di sicurezza in Cisgiordania, sguarnendo la frontiera di Gaza; fatto ancor più rilevante, il governo di ultradestra ha spinto Israele in una contrapposizione interna lacerante, testimoniata dai mesi di oceaniche manifestazioni contro il governo. E il crollo dei consensi ai partiti di governo rilevato da tutti i sondaggi ci dice come il popolo israeliano li consideri corresponsabili del disastro.

Eppure, proprio la gravità estrema della situazione e il terribile conto dei morti, ormai a decine di migliaia, ha spinto parte della comunità internazionale a cercare di frenare le fazioni più estreme di entrambi gli schieramenti.
[…] Non vi sono grandi margini alla speranza in Terra Santa, ma proprio il lugubre conto dei morti e le immagini strazianti dei tanti bambini uccisi in queste settimane, deve spingere la comunità internazionale e tutti noi ad agire – ognuno nel proprio ambito – per spingere alla moderazione e alla ricerca di un futuro meno tetro.
Come scriveva Papa Francesco nella sua “Fratelli tutti”, dobbiamo tutti noi essere “artigiani della pace”.
Crederci e impegnarsi per non lasciare campo agli estremisti e ai violenti di entrambi gli schieramenti”
.

Occorre cercare antidoti al fanatismo imperante: è quello che cercava di fare lo scrittore israeliano Amos Oz nel suo libro "Cari fanatici" che qui Vincenzo Rizzo recensisce:

Lo scrittore israeliano (1939-2018), nelle sue pagine, sottolinea con forza un imperativo categorico valido per tutti. Non causare sofferenza è l’espressione più alta dell’umano. Nessuno deve aprire e colpire il punto debole che ci accomuna tutti: il dolore.
Non si tratta, però, di far venire meno la giustizia, ma di pensarla fino in fondo.
Purtroppo, però, chi è fanatico non guarda l’altro da sé come un volto unico. È chiuso in un blocco a cui ritiene di appartenere, ma da cui è invece inglobato. Confermato dal conformismo del suo blocco, il fanatico depone il cuore per nasconderlo in un bunker.
Si può, tuttavia, cercare di fare uscire l’umano dal suo chiuso rifugio.
Oz ci prova, raccontando un aneddoto riguardante lo scrittore israeliano Sami Michel.
In un lungo viaggio un autista disse a Sami Michel che bisognava uccidere tutti gli arabi
. Lo scrittore, in modo serrato e stringente, chiese chi avrebbe dovuto farlo: milizia, esercito, pompieri o civili? L’autista rispose che tutti gli ebrei avrebbero dovuto concorrere al disegno criminale.
Al suo incalzante domandare, l’autista disse che ognuno avrebbe dovuto uccidere gli arabi a lui prossimi. Lo scrittore, nella sua riduzione all’assurdo della falsa tesi, domandò allora che cosa si sarebbe dovuto fare se qualcuno si fosse dimenticato di uccidere un neonato. Messo alle strette dalla domanda radicale, l’autista disse che lo scrittore era crudele, proprio perché aveva posto quella domanda.
La domanda, dunque, è un fatto cogente, che smaschera con il suo dubbio radicale l’inganno in cui vive il fanatico.
La menzogna che occupa il pensiero del fanatico è però più antica di ogni religione. Ha “un fondamento intrinseco nella natura dell’uomo, un gene cattivo: chi tira bombe, chi uccide immigrati in Europa, chi assassina donne e bambini ebrei in Israele, chi brucia una casa con dentro un’intera famiglia palestinese nei Territori occupati da Israele, chi profana sinagoghe, chiese, moschee e cimiteri, tutti costoro sono diversi da Al Qaeda e dall’Isis per quello che fanno e per la natura del loro operato, ma non per la natura dei loro misfatti
. Oggi si parla di “crimini d’odio” ma forse sarebbe meglio dire “crimini di fanatismo”: ne avvengono quasi quotidianamente anche contro i musulmani”.
Insomma, i fanatici non hanno in comune una religione, ma un modo falsificato di approcciarsi alla realtà. Preferiscono “sentire” anziché pensare. Sono affascinati dalla morte. Il pensiero della morte propria e dell’altro travolge la loro immaginazione.
Bisogna liberare il mondo dall’altro da sé, dal problema, anzi bisogna liberarsi dal mondo in cui c’è l’altro.
La violenza, dunque, purifica e cambia tutto. Per questo si è anche disponibili al sacrificio. 'Chi è disposto con entusiasmo a sacrificare sé stesso non fa nessuna fatica a sacrificare gli altri'.
Non causare sofferenza, dunque, è l’antidoto al fanatismo
.
Le sofferte parole di Oz ci interpellano, proprio oggi, nel profondo del nostro essere. Sono una provocazione nel buio del crimine antiumano e nel deserto delle macerie causate dai bombardamenti.
E chissà se l’incompresa e drammatica sofferenza di un bambino innocente riaprirà i nostri cuori e quelli di chi vuole la morte”.

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COSTRUIRE LA PACE: VOCI E TESTIMONIENZE

In un nostro articolo pubblicato ieri nella Sez. Dibattiti-1 facevamo notare come il femminismo che riempie le piazze in questi giorni per la legittima e sacrosanta denuncia della violenza sulle donne abbia però anche imboccato una china ideologica: tutta la nostra solidarietà alla giusta indignazione contro i femminicidi, perplessità invece per un femminismo a senso unico e gli slogan pro-Hamas e anti-Israele.
Al di là del conflitto interminabile tra Israele e Palestinesi, tutti sappiamo che il massacro terroristico compiuto da Hamas il 7 ottobre scorso sui civili ebrei, sulle donne, su bambini, su giovani ragazzi e ragazze, è stato l'atto più vile e famigerato che si ricordi.
Sorprende quindi l'unilateralità ideologica di buona parte di quel femminismo che è sceso in piazza arrivando ad inneggiare per Hamas.
Ci sembra dunque doveroso pubblicare una pagina del sito" Mosaico"  della Comunità Ebraica di Milano che riporta le parole della Presidente delle Comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni.


Un 25 novembre contro la violenza sulle donne, ma non sulle israeliane: la rabbia e il disagio del mondo ebraico italiano
 

Ci uniamo in un abbraccio che esprime speranza, anche di pace, al silenzioso grido di tutte le israeliane che il 7 ottobre hanno subito crimini di guerra, violentate e stuprate in quanto donne, israeliane, ebree. Non una israeliana di meno. Questo a loro devo”.
Si conclude con questo chiaro appello a ricordare anche le donne israeliane vittime di stupro da parte dei terroristi di Hamas la lettera della presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei) Noemi Di Segni pubblicata su un quotidiano italiano il 25 novembre scorso giorno della lotta contro la violenza sulle donne.
Una lettera di denuncia, la sua, nei confronti di un silenzio assordante da parte dell’opinione pubblica e di molte organizzazioni, prime fra tutte quelle femministe, davanti agli stupri e alle indicibili violenze subite dalle donne israeliane il 7 ottobre, dopo l’attacco dei terroristi di Hamas, di cui stiamo venendo a conoscenza grazie alle testimonianze di alcune donne sopravvissute e ai video filmati dagli stessi terroristi durante la barbarie. Sui media italiani se ne sta parlando solo in questi giorni in modo molto timido: l’abbiamo fatto noi di Mosaico a cui ne sono seguiti altri (ma in realtà non molti).

Se sono assassinate barbaramente, ridotte ostaggi, stuprate a causa del loro essere Israeliane, mamme o ragazze ebree, mi sento violentata assieme a loro – scrive Di Segni -. Se ci sono donne che inneggiano alla violenza perpetrata su altre, per me sono venute meno alla nostra vocazione di generare la vita e preservarla ad ogni costo.
Se questi delitti sono perpetrati nella medesima mattinata, da centinaia di terroristi, e le istituzioni preposte o protese alla tutela dei diritti delle donne sono mute o propagandano una menzognera realtà, trasformando chi esercita la violenza in vittima è mio dovere gridare e chiedere a voce alta che la legittimazione a rappresentare qualsiasi istanza sia ritirata e rivista.
Qualsiasi sostegno istituzionale, politico, finanziario, qualsiasi partecipazione a queste organizzazioni che evidentemente perseguono un’agenda politica tutta diversa dalla loro tradita missione e che per me diventano così complici del crimine
”.

Ma la lettera è anche un appello accorato alla solidarietà fra donne, che non deve vedere distinguo di nessun tipo: una solidarietà nei confronti di 

ogni donna palestinese che possa aver subito qualsiasi violenza di genere e se davvero sta a cuore il valore delle loro vite e ci si vuole adoperare per la loro salvezza non lo si fa con la diffamazione di tutta Israele quale Stato occupante, nazificando la narrazione, generalizzando una visionaria violenza senza poter precisare nessun nome e nessun atto. Lo si fa invece denunciando i veri criminali, i veri mandanti — Hamas e altre organizzazioni terroristiche”.
Solidarietà anche verso “le donne — di qualsiasi fede — che subiscono violenza all’interno delle mura domestiche nei confronti delle quali si usa quella ‘ragione’ religiosa a giustificazione delle limitazioni delle proprie libertà e diritti basilari (lavoro, studio, anche svago, privacy), asservendole ai propri desiderata sessuali o perpetrando su di loro violenze psicologiche, fisiche, ribadisco il mio impegno all’interno del mondo ebraico e nel dialogo con altre religioni a difendere e definire percorsi di educazione, di formazione dell’identità specialmente nell’età evolutiva, che salvaguardino quei valori religiosi di vita, di dignità”.

È insomma un appello “non selettivo” quello della presidente dell’Ucei, contrario a quello che è invece avvenuto ieri nelle città italiane: manifestazioni di associazioni per la difesa delle donne, tranne che per quelle israeliane.

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COSTRUIRE LA PACE: VOCI E TESTIMONIANZE

E' difficile parlare del conflitto tra Israele e i Palestinesi, o forse, bisognerebbe dire del conflitto tra Israele e Hamas o tra Hamas e la attuale politica israeliana che non è condivisa da tutti gli ebrei. Come scrive Kristof nell'articolo che pubblichiamo, non siamo di fronte a chi da una parte ha ragione e chi, dall'altra, ha torto: siamo di fronte a due ragioni: “la tragedia del Medio Oriente è che questo è lo scontro di un lato giusto e di un altro lato giusto”. Ma tutta la storia di quella terra è terribilmente complessa, una storia che andrebbe riletta con cura. E quindi inevitabile una domanda: si può volere la pace se non si è mai ammessa una sola colpa nella propria storia? E' una domanda che riguarda tutti coloro che sono in guerra perchè, scrive ancora Kristof “nella vita niente è tutto bianco o tutto nero”. Questo vale a maggior ragione per il conflitto tra Israele e Palestinesi. Se si ha il coraggio di guardare alla storia, si vedrebbe come da quanti secoli gli arabi abbiano prima conquistato con le armi una terra non loro e poi l’abbiano governata secondo propri criteri e poi ancora gli stessi arabi siano stati sottomessi da altri musulmani, i turchi, che li hanno impoveriti e schiavizzati per secoli, fino alla fine della prima guerra mondiale.

La dimenticanza del dominio di musulmani su musulmani, di turchi su arabi, porta come conseguenza una semplificazione delle responsabilità, come se tutti i torti derivassero dai Mandati Europei avviati dopo la seconda guerra mondiale con la creazione, nel 1948, dello Stato di Israele. L'Occidente ha certamente le sue colpe che non si vogliono negare, ma non è che gli altri popoli siano tutti delle 'anime belle'! E quindi si dovrebbe avere l'onestà di ammettere la volontà di tutti i paesi arabi di distruggere lo Stato di Israele dopo la seconda Guerra mondiale: solo in tempi recenti la Giordania e l’Egitto hanno riconosciuto la legittimità dell’esistenza di Israele.

La guerra del 1967 fu voluta dal mondo arabo contro Israele e la sconfitta araba legittimò da parte di Israele l'annessione di Gerusalemme e Cisgiordania riducendo il territorio palestinese ad una striscia di terra. E che dire degli attentati terroristici antiebraici e delle stragi provocate alle Olimpiadi di Monaco del 1972 così come delle stragi di Fiumicino del 1973 e del 1985 fino all'ultimo del 7 ottobre scorso: il più sanguinario, il più vile. Ma il popolo palestinese fu anche artefice di sanguinose rivolte in Giordania, rivolte che provocarono il 'settembre nero' quando il Re e gli arabi di Giordania soffocarono nel sangue la presenza degli arabi di Palestina. Tali violenze proseguirono poi anche in Libano provocando un processo di decadenza in un Paese che fino ad allora aveva visto la pacifica convivenza di popolazioni e religioni diverse: il Libano, la Svizzera del Medioriente, sprofondò pian piano in una crisi che lo vede oggi immerso in una profonda difficoltà economica e politica. Ma nemmeno Israele è esente da responsabilità: si dovrebbe ammettere una politica finalizzata a rendere sempre più difficile e ostile la comune vicinanza con i palestinesi, si dovrebbe parlare della progressiva e voluta difficoltà nel collegamento fra i villaggi palestinesi, della diseguale distribuzione dell’acqua, della progressiva costruzione di insediamenti intorno a Gerusalemme e poi nella striscia di Gaza, insediamenti mirati a sottrarre territorio ai palestinesi per annetterlo al proprio, dei kibbutz costruiti volutamente nei pressi dei villaggi arabi quasi a voler renderne sempre più difficile la convivenza, del muro costruito per separare ogni possibile convivenza. E ritorna ancora la domanda posta all'inizio: si può volere la pace se non si è mai ammessa una sola colpa nella propria storia? Perché ci sia la pace, bisogna ammettere i propri torti, anche quando si ha ragione su molte e magari importantissime questioni. C'è mai stata una 'purificazione della memoria' come c'è stata nella Chiesa con Papa Giovanni Paolo II?

 

La catena di errori del disastro di Gaza

Nicholas Kristof, novembre 2023

Con il massacro bilaterale in corso in Medio Oriente, che continua a sprigionare veleni che acutizzano l’odio in tutto il mondo, permettetemi di delineare quelli che reputo essere tre falsi miti che infiammano il dibattito. Il primo mito da sfatare è che nel conflitto in Medio Oriente vi siano un lato giusto e un lato sbagliato (anche se si è in disaccordo su quale è l’uno e quale è l’altro).
Nella vita niente è tutto bianco o tutto nero.
La tragedia del Medio Oriente è che questo è lo scontro di un lato giusto e di un altro lato giusto. Ciò non giustifica il massacro e la brutalità di Hamas o la distruzione da parte di Israele di interi quartieri di Gaza.
Dietro al conflitto, tuttavia, vi sono legittime aspirazioni che meritano di essere soddisfatte.

Gli israeliani meritano il loro Paese, costruito dai profughi scampati alle tenebre dell’Olocausto; hanno creato un’economia hi-tech che conferisce potere alle donne e rispetta i al proprio interno i diritti civili, dando nel contempo ai suoi cittadini palestinesi più diritti di quanti la maggior parte delle nazioni arabe dia ai loro stessi cittadini. I tribunali, la libertà dei media e la società civile di Israele sono di ispirazione per l’intera regione, ma di fatto vi sono due pesi e due misure: i critici stigmatizzano gli abusi di Israele e spesso ignorano le violenze prolungate contro i musulmani, dallo Yemen alla Siria, dal Sahara occidentale a Xinjiang.
Nello stesso modo, i palestinesi meritano un Paese, libertà e dignità, e non dovrebbero essere sottoposti a una punizione collettiva.

Abbiamo raggiunto una soglia straziante: in sole cinque settimane di guerra è stato ucciso l’uno per cento della popolazione di Gaza. Per comprendere questo dato, in percentuale e in prospettiva, corrisponde a più della popolazione americana rimasta uccisa durante tutta la Seconda guerra mondiale nel corso di quattro anni. Una grande maggioranza dei palestinesi uccisi era formata da donne e bambini, secondo il ministero della Sanità di Gaza controllato da Hamas, e un indicatore della ferocia e della natura indiscriminata di alcuni bombardamenti aerei è che sono rimasti uccisi più di cento dipendenti delle Nazioni Unite, numero che – secondo le Nazioni Unite – è superiore a quello di tutte le morti di suoi dipendenti registrate dalla sua fondazione.
Forse, ciò dipende dal fatto che, come ha detto un portavoce dell’esercito israeliano all’inizio del conflitto, «l’attenzione è stata data ai danni, non alla precisione».

«Siamo persone normali che cercano di fare la loro vita» mi ha detto a telefono un ingegnere di Gaza che disprezza Hamas e vorrebbe che fosse destituita dal potere, e secondo cui i combattenti di Hamas sono nei tunnel al sicuro, mentre lui e i suoi bambini sono tra le persone maggiormente esposte ai pericoli. «Siamo noi civili a pagare il prezzo».
A prescindere dal lato verso cui siete più propensi, ricordate che l’altro è fatto di essere umani disperati che sperano soltanto che i loro figli possano vivere e prosperare in una loro nazione.

Il secondo mito da sfatare è che con i palestinesi si possa procrastinare all’infinito la soluzione dei problemi che li riguardano, che essi possano essere sistemati da Israele, dagli Stati Uniti e da altri Paesi. Questa è stata la strategia del Primo ministro Benjamin Netanyahu. Questo è stato il suo modo di evitare uno Stato palestinese.
E per un certo periodo ha funzionato. Proprio come la pentola a pressione funziona, fino a quando esplode. È difficile conoscere “cosa sarebbe successo se”, sapere se uno Stato palestinese sarebbe stato meglio ai fini della sicurezza degli israeliani.
In ogni caso, in retrospettiva la mancanza di uno Stato palestinese non ha reso sicuro Israele. E i rischi potrebbero aggravarsi qualora l’Autorità Palestinese sprofondasse in seguito alla sua corruzione, alla sua inefficacia e alla mancanza di legittimità.

Il presidente israeliano Isaac Herzog ha detto che uno dei miliziani di Hamas che hanno perpetrato gli attacchi del 7 ottobre aveva con sé istruzioni per usare armi chimiche e questo ci deve rammentare il rischio da cui per anni ci hanno messo in guardia gli esperti di terrorismo in relazione ai gruppi estremisti che potrebbero ricorrere all’uso di agenti biologici e chimici.
Israele ha il diritto di sentirsi preoccupato in ogni caso, ma temo che il modo migliore di garantirne la difesa possa non essere quello di procrastinare le aspirazioni dei palestinesi, bensì quello di onorarle con la soluzione dei Due Stati.

Questa non è soltanto una concessione agli arabi, ma un pragmatico riconoscimento del vero interesse di Israele, e di quello del mondo intero.

Il terzo mito da sfatare è quello comune a entrambe le parti in conflitto, che la pensano suppergiù in questi termini: peccato che dobbiamo affrontare questa carneficina, ma dall’altra parte capiscono soltanto la violenza. Me ne parlano amici favorevoli alla guerra a Gaza che mi considerano benintenzionato ma malconsigliato, quasi fossi un ingenuo che non riesce a capire la triste realtà per cui l’unico modo di mantenere Israele al sicuro è polverizzare Gaza e sradicare Hamas a qualsiasi costo in termini di vite umane perse.

Hamas di fatto capisce soltanto la violenza, ed è stata efferata nello stesso modo sia nei confronti degli israeliani, sia nei confronti dei palestinesi, ma Hamas e i palestinesi non sono la stessa cosa, proprio come i coloni violenti in Cisgiordania non rappresentano tutti gli israeliani.
Io sono favorevole a colpire Hamas in maniera chirurgica e selettiva e sarei felice se Israele riuscisse a porre fine all’estremismo a Gaza. Fino a questo momento, però, temo che l’efferatezza e la mancanza di precisione dell’attacco di Israele abbiano concretizzato l’obiettivo di Hamas: far degenerare la questione palestinese e trasformare la dinamica in Medio Oriente. Hamas è indifferente alle perdite di vite umane palestinesi.
Da questo punto di vista, Hamas forse sta vincendo.

A cinque settimane dall’inizio di questa guerra, non vedo niente da cui desumere che l’esercito israeliano abbia danneggiato Hamas in maniera significativa. Vedo, però, che ha ucciso un gran numero di civili, ha messo la lotta palestinese al primo posto dell’agenda globale, ha dissipato il rigagnolo di simpatie manifestate all’inizio a Israele, ha incalzato la gente di tutto il mondo a scendere in piazza per manifestare a favore della Palestina, ha distolto l’attenzione dagli israeliani rapiti e ha mandato in frantumi qualsiasi possibilità per Israele di normalizzare a breve termine le relazioni con l’Arabia Saudita.
Il mio amico Roy Grow, esperto di relazioni internazionali al Carleton College scomparso nel 2013, aveva l’abitudine di dire che un obiettivo cruciale delle organizzazioni terroristiche è far sì che l’avversario reagisca in maniera sproporzionata. Paragonava questo modus operandi al jujitsu, per cui le organizzazioni terroristiche usano tutto il peso dei loro avversari contro di loro. Proprio quello che ha fatto Hamas.
Ogni lato ha disumanizzato l’altro, ma le persone sono complesse e nessuno dei due è un monolite.

Ricordiamo, poi, che le guerre non riguardano i popoli, ma le persone. Si tratta di persone come Mohammed Alshannat, un dottorando di Gaza che sta spedendo messaggi disperati ai suoi amici che li condividono con me e che ha acconsentito a farmeli pubblicare per dare un’idea della vita a Gaza di questi tempi. «Sono in corso forti bombardamenti nella nostra zona» ha scritto in un messaggio in inglese. «Per salvarci dobbiamo correre e scappare. Ho perso due miei figli nell’oscurità. Io e mia moglie abbiamo trascorso la notte intera a cercare i bambini in mezzo a centinaia di bombe. Miracolosamente, siamo sopravvissuti e al mattino li abbiamo trovati svenuti. Pregate per noi. La situazione qui è indescrivibile».

Se esiste una strada da percorrere per arrivare alla pace – che si tratti di due Stati o di uno – inizia sicuramente dal nostro saper andare aldilà degli stereotipi. Gli israeliani non sono Netanyahu e i palestinesi non sono Hamas.

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LETTERA DA GERUSALEMME

Abbiamo già pubblicato una lettera di don Morlacchi, già collaboratore parrocchiale di Sant’Ippolito e che nel 2018 si è trasferito a Gerusalemme come sacerdote fidei donum della diocesi di Roma presso il Patriarcato latino di cui è Patriarca il vescovo Pizzaballa.
Lettera confidenziale scritta nel mezzo del conflitto in corso a Gaza: da Gerusalemme le contrapposizioni italiane e d europee verso la guerra in corso non possono che apparire incomprensibili, avulsi dalla realtà:
Ciò che mi colpisce di più, nella maggioranza dei reportage sui giornali, e nella quasi totalità dei post diffusi sui media, è la tendenza a schierarsi acriticamente da una parte o dall’altra del conflitto”.
E poi l'antisemitismo che si riaffaccia in Europa e la difficoltà persino a provare dolore e pietà per i massacri che colpiscono i civili palestinesi:
Perché solidarizzare con il dolore delle mamme e dei papà di Gaza dovrebbe implicare una connivenza con Hamas, o un latente pregiudizio antiebraico?”.
E poi ancora la situazione dei cattolici palestinesi:
Un bomba ha fatto tremare la chiesa mentre i parrocchiani pregavano il Rosario. Ma la preghiera è proseguita, e i fedeli hanno continuato a invocare la pace senza odiare nessuno. Non cedono alla logica della violenza e della vendetta (…). La guerra farà il suo corso, è inevitabile. Ma poi si dovrà comunque ricostruire e ricominciare a vivere, uno accanto all’altro. La consapevolezza cristiana che il male si vince solo con il bene mi sembra una chiave importante per un futuro possibile”.


Lettera da Gerusalemme

di Don Filippo Morlacchi, sacerdote' fidei donum' della diocesi di Roma presso il Patriarcato latino

È passato più di un mese dal 7 ottobre (…) In Italia arrivano abbondanti notizie da Israele e da Gaza. Ciò che mi colpisce di più, nella maggioranza dei reportage sui giornali, e nella quasi totalità dei post diffusi sui media, è la tendenza a schierarsi acriticamente da una parte o dall’altra del conflitto. Il fenomeno sarebbe comprensibile, da parte di chi è più coinvolto dagli eventi; ma questi estremismi mi sembrano generalizzati. Sui social media tutto viene esasperato e banalizzato, e diventa occasione per un grossolano tifo da stadio. Il tono categorico con cui tante persone esprimono la propria interpretazione dei fatti mi lascia interdetto. (…)

Il primo fenomeno di questi ultimi giorni che mi pare doveroso registrare e interpretare è il rigurgito di antisemitismo che sta dilagando in Italia e tutto il mondo. A Roma la commemorazione del 16 ottobre 1943 – data del tragico rastrellamento del ghetto, e della conseguente deportazione di più di mille ebrei romani nei campi di sterminio – sta diventando un appuntamento tradizionale che favorisce la costruzione di una memoria condivisa. È triste apprendere che, solo pochi giorni dopo la commemorazione, a Trastevere alcune targhe commemorative di ebrei vittime della Shoah – le cosiddette “pietre d’inciampo” – sono state vandalizzate. Simultaneamente sono ricomparse stelle di Davide e svastiche sui muri e nei cimiteri di numerose città europee. Alcune manifestazioni di solidarietà verso i palestinesi si sono trasformate in palcoscenico per l’esibizione di gesti antisemiti. Si tratta di comportamenti ingiustificabili, oltre che stupidi: da condannare senza appello. Comprensibilmente molti ebrei sono indignati e preoccupati, perché temono il riaffiorare dell’atavico pregiudizio antisemita. È sicuramente una preoccupazione legittima. Il pregiudizio antiebraico è profondamente radicato, e riemerge anche dopo periodi di latenza. Osservando le imponenti manifestazioni filo-palestinesi che hanno affollato le piazze di mezzo mondo in queste settimane, alcuni commentatori hanno scritto che l’antico antisemitismo sta assumendo il volto ipocrita della difesa dei diritti dei più deboli. È un’opinione sulla quale riflettere: è possibile, infatti, che le prese di posizione “pro-Palestina” siano generate da un antisionismo fazioso, e non da sincero amore per la giustizia. Ho letto appelli al cessate il fuoco e inviti alla pace che mi suonavano ideologici e fasulli, redatti da persone schierate acriticamente, senza adeguata conoscenza della situazione. Ed è anche possibile che in qualcuno, o forse in molti, la critica alle politiche di Israele – di per sé legittima – degeneri in odio cieco verso tutti gli ebrei indistintamente, cioè in antisemitismo.

. D’altro canto, i bombardamenti su Gaza, oltre a colpire gli obiettivi strategici di Hamas, mietono migliaia di vittime civili e producono lutto e sofferenza nella popolazione. È irragionevole pensare che questa immane distruzione susciti nell’opinione pubblica anche reazioni sincere a difesa di vittime innocenti? Perché l’ipotesi che qualcuno voglia con purezza d’intenzione solamente impedire una strage di altri innocenti dovrebbe essere respinta come oltraggiosa? Perché solidarizzare con il dolore delle mamme e dei papà di Gaza dovrebbe implicare una connivenza con Hamas, o un latente pregiudizio antiebraico? Certo, è doveroso e urgente, oggi, condannare senza mezze misure l’antisemitismo, in tutte le sue forme; tutti siamo chiamati a farlo, noi cristiani per primi. Ma vorrei poter conservare la libertà di poter anche implorare pietà per la gente di Gaza, come ha fatto il Papa, senza per questo esser accusato di odiare il popolo ebraico. Vorrei sentirmi libero di abbracciare i figli di Israele senza esser costretto ad odiare il popolo palestinese perché mi sia consentito farlo. (…)

. L’esasperazione del conflitto sta consolidando l’arroccamento sulle proprie posizioni da parte di entrambe le fazioni. Ciò produce un fenomeno che vorrei chiamare di “anestesia selettiva”. La concentrazione esclusiva sul proprio dolore impedisce qualunque forma di empatia nei confronti del dolore e delle ragioni della controparte, e dunque rende impossibile ogni forma di dialogo. (…) Per gli ebrei è la tragedia del 7 ottobre, la percezione di insicurezza nei confini nazionali, il sentirsi vittima di odio antisemita, il terrore di futuri attentati da parte di Hamas… Per i palestinesi è la storia di 70 anni d’ingiustizie patite, la tragedia dei morti sotto le bombe, la mancanza di prospettive per il futuro… Ognuno è ripiegato su di sé, e non riesce a offrire un minimo di comprensione o di disponibilità ad accogliere l’altro. La comunicazione così diviene impossibile. Ogni incontro si trasforma in scontro rabbioso e sterile, se non controproducente. La pace si allontana sempre più.

. Su questo fronte – cioè la ricostruzione della disponibilità a contenere il proprio dolore per ascoltare quello dell’altro – ci sarà moltissimo da lavorare nei prossimi anni e decenni. Un delicato compito di mediazione e di educazione delle coscienze, al quale come cristiani saremo chiamati a offrire il nostro piccolo contributo. Dobbiamo ribadirlo con chiarezza: nessuna sofferenza da parte dei palestinesi potrà mai giustificare l’eccidio del 7 ottobre, anche se può aiutare a comprenderne i presupposti. Né le mostruosità commesse da Hamas e dai suoi affiliati possono legittimare la devastazione di Gaza, anche se aiutano a comprenderne le ragioni. Però tutti stanno annegando in un mare di sofferenza. Bisogna uscire da questo pantano morale. Di questo – credo – dobbiamo farci portavoce.

. Vengo così alla situazione della nostra Chiesa. Qui a Gerusalemme tutto sommato si sta tranquilli. Certo, pochi giorni fa, nello stesso luogo dell’attentato della settimana precedente, un adolescente palestinese di 16 anni ha ucciso con un coltello da cucina una poliziotta israelo-americana di 20, e a sua volta è stato ucciso. Ogni commento è superfluo. Bisogna ricostruire una cultura di pace, cominciando dai bambini e dai ragazzi. Si percepisce malessere e paura. Ebrei e palestinesi cercano di evitarsi, per reciproco timore. Però – lo ripeto – a Gerusalemme non abbiamo la guerra vera e propria. Diversa è la situazione “oltre il muro”, ad esempio a Betlemme, dove l’isolamento crea disagi gravissimi. Eventualmente ne parlerò in una prossima lettera.

. Noi cristiani ci sforziamo di fare la nostra parte e di non cedere alla logica della violenza. Domenica 29 ottobre nel santuario di Deir Rafat abbiamo celebrato la solennità di Maria “Regina di Palestina”, nostra patrona, consacrandole nuovamente questa Terra.

. Le parole del patriarca, padre Pizzaballa, hanno sollevato alcune critiche sia da parte ebraica (o filo-ebraica), sia da parte araba (o filo-araba): segno che erano perfettamente equilibrate ed evangeliche. A Gaza, la minuscola comunità cattolica continua a pregare e a sperare, nonostante tutto il male che patisce, sostenuta dall’unico sacerdote ora presente e dalle tre piccole comunità di suore. Ci hanno mandato video che documentano la devastazione delle strade, della scuola cattolica, delle case… Un bomba ha fatto tremare la chiesa mentre i parrocchiani pregavano il Rosario. Ma la preghiera è proseguita, e i fedeli hanno continuato a invocare la pace senza odiare nessuno. Non cedono alla logica della violenza e della vendetta (…). La guerra farà il suo corso, è inevitabile. Ma poi si dovrà comunque ricostruire e ricominciare a vivere, uno accanto all’altro. La consapevolezza cristiana che il male si vince solo con il bene mi sembra una chiave importante per un futuro possibile.

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"A un mondo che muore di fame, di miseria, di pesantezza, di odio, che gli egoismi più feroci divorano, le parole non bastano. Occorre che qualcuno esca e pianti la tenda dell’amore accanto a quella dell’odio. Dichiarandosi contro apertamente a tutte le ferocità dell’ora, ovunque si trovino, sotto qualunque nome si celino, in uno sforzo di santità sociale che restituisca un’anima a questo nostro povero mondo che l’ha perduta" (don Prima Mazzolari).


USCIRE DALLA GUERRA PER GENERARE LA VITA

Sulla guerra civile in atto nella striscia di Gaza diviene sempre più difficile dare giudizi. Nessuna giustificazione è possibile per atti di terrorismo.
Ma il diritto a difendersi non legittima qualsiasi reazione violenta che vìoli la dignità umana.
Il Cardinale Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, ha descritto lucidamente la situazione:
Entrambe le parti sembrano difettare di una visione strategica, che non sia l’annientamento l’uno dell’altro. Perfino la terra sembra essere passata in secondo piano rispetto alla volontà di reciproca distruzione”.
Questa radicale contrapposizione si ripercuote anche in Europa dove su quella guerra tutti, politici, analisti, intellettuali, persone comuni, sono portati a schierarsi in opposte tifoserie.
Un criterio di valutazione ci sarebbe e lo abbiamo già indicato più volte trattando della guerra tra Russia e Ucraina: un criterio che è ispirato alla Dottrina cristiana sulla guerra (Catechismo della Chiesa Cattolica: CLICCA QUI): nella guerra, in ogni guerra occorrerebbe sempre valutare molti aspetti al fine di minimizzare le vittime e contenere il più possibile la violenza.
Un criterio che appare totalmente utopistico in questa guerra infinita che dura da 75 anni.

Ed proprio in questa situazione che contrappone Israele al fanatismo dei terroristi di Hamas che si chiede allo Stato ebraico una maggiore responsabilità in una guerra che già alcuni definiscono “guerra di religione” perchè contrappone le componenti più radicali e fondamentalisti delle due religioni: quella ebraica che vorrebbe espellere i palestinesi che vivono nella striscia di Gaza e quella mussulmana nella sua versione terroristica, wahabita, ispirata a Sayyid Qutb (per approfondire CLICCA QUI).
La situazione è altamente pericolosa al punto che gli USA supportano Israele ma sono costretti ad ammonire Netanyahu: la guerra a Gaza non può durare all’infinito se si vuole scongiurarne una ancora più grande (per approfondire CLICCA QUI)

Scrive l'intellettuale Domenico Galbiati:
“Stiamo vivendo una stagione buia, come se stessimo carponi in un tunnel oscuro nel quale non si può né avanzare né retrocedere. Una situazione che genera angoscia, penosa, soffocante. Non si vede una via d’uscita.
[…] I “pezzi” della guerra evocati da Papa Francesco cominciano a ricomporsi e creano un continuum, una morsa, una tenaglia che ci sovrasta, mossa da automatismi infernali che sono al di fuori di ogni possibile controllo. La matassa si ingarbuglia e nessuno, nessun Paese, nel contesto multipolare in cui viviamo, ne detiene il bandolo. Come se fossimo preda dell’ ineluttabilità di un destino avverso che si fa beffe della ragione e dei sentimenti di compassione e di umanità che dovrebbero pur sempre accompagnare i nostri passi.
Anche Israele semina morte e sangue si aggiunge a sangue, cosicché c’è chi già dimentica il 7 ottobre e punta i propri strali contro Israele. Ed Israele che nella sua storia – tra diaspora, olocausto, antisemitismo tenace e preconcetto, inestirpabile e perverso ed i reiterati tentativi di genocidio, come quest’ultimo – ha sofferto l’indicibile, sa o ritiene di non potersi più fidare di nessuno, in fondo nemmeno dei suoi alleati occidentali e, anziché esporsi al pericolo di amicizie aleatorie, pensa di dover fare da sola, a costo di perdere il senso della misura e passare il segno di ciò che è francamente inaccettabile.
La risposta di Israele all’eccidio perpetrato da Hamas deve rispettare i canoni umanitari del diritto internazionale. E’ necessario che lo faccia anche per sé stessa, per il rispetto che deve alla sua antichissima, straordinaria vicenda storica, ai valori della sua democrazia, alla memoria dei suoi figli vittime di un odio diabolico, per non lasciarsi attrarre in una spirale di violenza che, un passo dopo l’altro, si autoalimenta in quel
 crescendo incontenibile, assurdo, bestiale che il popolo degli ebrei ha vissuto nella sua carne.
Gli ebrei, i nostri “fratelli maggiori” come li ha chiamati Giovanni Paolo II, hanno la responsabilità di dimostrare al mondo ed a ciascuno che è ancora possibile non odiare. Nessuno meglio di loro potrebbe dare al mondo, all’ Europa, ai cultori delle ideologie aberranti che hanno cercato di sradicarli dalla storia, questo messaggio di liberazione dal clima di odio inconsulto in cui rischiamo di precipitare ancora una volta”.


Pubblichiamo qui l'intervista al Patriarca Pizzaballa, Vescovo di Gerusalemme per la Chiesa Latina


USCIRE DALLA GUERRA PER GENERARE LA VITA

Intervista di R. Cetera a Pier Battista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme per la Chiesa latina, L’Osservatore Romano, novembre 2023

«Qualcosa si è rotto. Spero non irrimediabilmente. Ma ci vorrà molto tempo e molta fatica per ricostruire». Qualcosa che però era già incrinato da tempo: «L’impalcatura era certo traballante e vi si lavorava con molta fatica. Ogni tanto veniva giù qualche tavola. Ora è venuta giù tutta l’impalcatura. Bisognerà ricominciare tutto da capo».

l cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini ripercorre con «L’Osservatore Romano» questo tempo di guerra iniziato esattamente un mese fa.
«Quella mattina — ricorda il patriarca — ero a casa di mia madre, a Bergamo. Era passata appena una settimana dal Concistoro nel quale Papa Francesco mi aveva voluto cardinale. La settimana era trascorsa in celebrazioni e festeggiamenti in Italia, nulla poteva farmi presagire quanto di orribile sarebbe poi accaduto qualche giorno dopo. Quel sabato avevo in programma un incontro con la municipalità al mattino e una messa in cattedrale al pomeriggio. Mentre ero a casa mi arriva una telefonata da qui, da Gerusalemme, di uno dei miei collaboratori del Patriarcato, che mi chiede: “Che dice? Dobbiamo fare un comunicato?”. Io casco dalle nuvole e rispondo “Comunicato di che?”. “Eminenza non sa nulla? Guardi che qui la situazione è orribile”. Lì per lì ho pensato che si trattasse di uno dei soliti attacchi missilistici a cui la frontiera con Gaza ci ha ormai abituato da anni. E poi con gli impegni pubblici a cui stavo partecipando non mi sembrava il caso di guardare sempre al telefono per aggiornarmi. Così è dovuta arrivare la sera perché cominciassi a rendermi conto della gravità della situazione. Vedendo l’orrore di quelle immagini che arrivavano non ho avuto esitazione a cercare subito un modo per rientrare qui a Gerusalemme. Non c’erano voli, quindi ho dovuto aspettare due giorni per volare su Amman e poi raggiungere Gerusalemme rocambolescamente in macchina. Dico rocambolescamente perché il confine tra Giordania e Israele era chiuso, ed ho dovuto richiedere un permesso speciale».

E finalmente è tornato a Gerusalemme.
Sì, solo quando sono arrivato qui ho cominciato a prendere coscienza di quanto stava succedendo; delle stragi orribili di civili, della guerra dichiarata in risposta, delle sirene che suonavano l’allarme, delle esplosioni in lontananza. Non era facile capire ed ascoltare perché ciascuno parlava solo delle sue cose, dei suoi drammi.

L’ultima volta che ci eravamo parlati qui a Gerusalemme a fine settembre prima che lei, eminenza, partisse per Roma, ci aveva fatto partecipi della sua preoccupazione per l’escalation di violenze ed omicidi che si registravano nella West Bank e qui a Gerusalemme, ma nulla faceva immaginare un esito di questo tipo. Anche per lei gli eventi del 7 ottobre erano assolutamente imprevedibili?
Sì, «L’Osservatore Romano» ha riferito più volte negli ultimi mesi il mio allarme per una situazione che andava degenerando di giorno in giorno. E non escludevo che il conflitto potesse diventare ancora più complesso e più cruento, ma non immaginavo certo una cosa simile.

Anche il parroco di Gaza non aveva colto alcun segnale?
No. Anche lui era venuto a Roma. Se avesse avuto anche un minimo sospetto me ne avrebbe parlato.

Quindi una volta arrivato a Gerusalemme i primi giorni sono stati difficili.
Sì, perché oltre ad ascoltare e cercare di capire, c’era un’infinità di cose pratiche da fare, accertarsi della sicurezza delle nostre comunità, e ovviamente dei cristiani di Gaza, come potevamo aiutarli. E poi anche il bisogno della comunità israeliana che lamentava: “Ma nessuno parla di noi, siamo terribilmente feriti anche noi”. Insomma una gran confusione nella quale era difficile districarsi accogliendo le istanze di tutti. Tutti mi chiedevano un orecchio e una parola. Con la grande difficoltà a far capire che essere per la pace non significa essere neutrali, come dice Papa Francesco: non equidistanti ma equivicini. Ma in questi momenti di dolore e di rabbia non tutti lo capiscono.

Abbiamo visto le polemiche che sono seguite ad alcuni comunicati delle chiese.
Appunto, siamo stati criticati da una parte ma anche dall’altra. Le emozioni che si sono scatenate sono state molto forti, e all’inizio avevamo anche noi delle difficoltà a comprendere la portata degli eventi. Ma non ci siamo mai sottratti a riallacciare i fili di un confronto con nessuno; e mai lo faremo.

Poi dieci giorni più tardi la strage dell’ospedale a Gaza.
Quello è stato un momento veramente scioccante. Anche perché dopo le orrende stragi perpetrate da Hamas il 7 ottobre pensavamo di aver già visto il peggio. Io sono qui da 34 anni, ho vissuto molte cose in questo Paese, e non tra le migliori che possono capitare ad un uomo, però mi sento di dirle che quello che ho vissuto, e sto ancora oggi vivendo, dal 7 ottobre, mi interpella profondamente. In questi anni io ho costruito tante relazioni, dentro e fuori il “nostro” mondo, non parlo di relazioni politiche ma umane, con i palestinesi e con gli israeliani; relazioni che in un attimo si sono rivelate impossibili. Qualcosa si è rotto. Tra loro innanzitutto. E tu che hai dedicato tutta la vita a fare la cerniera, il facilitatore, non riesci più a mettere insieme i pezzi. E ti senti inutile, perché inadatto alla contrapposizione. Quando la logica viene meno, le emozioni prendono il sopravvento. E c’è una tentazione del maligno che ti assale: quella di sentirti impotente di fronte al male. Ti chiedi: come si può abitare da cristiano dentro una crisi del genere? Poi il tuo popolo che ti cerca, che si aspetta una parola da te, che vuole già e solo vederti, ti riporta su un piano di realtà. Ti cercano, e devi esserci, perché un cristiano vive la sua vita nella lotta contro il male.

Tutto ciò trapela dalla lettera che ha scritto alla sua diocesi, una lettera che ha colpito molto anche fuori di questa terra.
Ho scritto quella lettera in una domenica pomeriggio. Sentivo il bisogno di scrivere non solo ai miei fratelli nella fede, ma anche a me stesso. Di riordinare il pensiero. Di ricomprendere il ruolo mio e dei cristiani in questa terra. Senza alcuna presunzione, ma sentivo che per molti le mie parole erano attese come valore esistenziale. Vede, qui essere cristiani non è come in Europa. Qui è un segno di appartenenza, uno stile di vita che ti accompagna tutta la vita, ogni momento della tua vita. Non te lo scordi mai, e se dovessi scordartelo, te lo ricordano gli altri. E poi volevo dire delle cose con chiarezza, non come nelle interviste in cui non riesci ad esprimerti fino in fondo, si è spesso travisati, e cercano di farti schierare da una parte o l’altra. Era necessario dire una parola vera, pregata, riflettuta.

Immagino ci sia comunque la difficoltà del dover dire una parola terza pur essendo prevalentemente il pastore di una delle due parti.
Niente affatto. I cristiani sono in questa terra una realtà assai più composita. Tra le tre religioni abramitiche noi siamo gli unici che non si identificano con un solo gruppo etnico. Le faccio un esempio: in questo momento ad esempio vi sono militari cattolici che, sotto le insegne israeliane, sono a Gaza. Anche loro sono parte del mio gregge. Ci sono poi le comunità di lingua ebraica, gli stranieri, i lavoratori immigrati. Anche per questo dicevo prima ci vuole una dose supplementare di coraggio a mantenere unità malgrado le nostre differenze. Anche tra i preti ci sono situazioni diverse, chi vive la situazione sulla propria pelle ha sicuramente delle sensibilità diverse. Ho voluto incontrali ed ascoltarli. Anche nelle differenti posizioni è importante lasciar parlare e saper ascoltare. Ma nella mia lettera, e in tutte le mie comunicazioni, io ho voluto dire sempre e solo che occorre partire dal Vangelo e finire col Vangelo. Magari non sempre le mie parole sono state comprese e accolte bene in questo ventaglio di diverse posizioni, ma era necessario che parlassi in verità, riaffermando che solo il Vangelo è la nostra bussola. Non dobbiamo mai dimenticare che siamo innanzitutto cristiani, e dobbiamo chiederci come vivere da cristiani in questa situazione. Che è una domanda, sia chiaro, che faccio innanzitutto a me stesso. Dopo un primo momento di sbandamento ora la situazione è più chiara, tristemente più chiara. Rimangono aperte però tante domande sul dopo, su come ricostruire un tessuto di relazioni umane.

Appunto, il dopo. Come si esce da questa guerra?
La guerra prima o poi finirà, ma le conseguenze di questa guerra saranno terribili. Vede, ci sono due questioni che mi appaiono particolarmente preoccupanti. La prima è che entrambe le parti sembrano difettare di una visione strategica, che non sia l’annientamento l’uno dell’altro. Perfino la terra sembra essere passata in secondo piano rispetto alla volontà di reciproca distruzione. Non c’è nessuna exit strategy. La seconda è la difficoltà a prendere le distanze anche emozionali dai pesanti passati di entrambi i popoli, la Shoah e la Nabka, che il 7 ottobre ha evocato.

L’impatto emotivo è enorme, specie per la popolazione israeliana.
Consideri che Israele viene da anni di benessere economico, di uno stile di vita occidentale, che aveva rimosso il conflitto. E soprattutto consideri che Israele è un Paese piccolo per il quale 1.400 morti sono tantissimi. Se paragonato percentualmente alle popolazioni delle nazioni europee, è come se a Roma, Londra o Parigi, in una mattinata fossero state uccise 15mila persone. Sono molto poche le voci all’interno dei due schieramenti che, per ora, riescono a ragionare libere da questo impatto emotivo.

Poi ad un certo punto c’è stata la sua proposta di proporsi come sostituto degli ostaggi.
A dir la verità, un giornalista in una conferenza stampa mi ha chiesto se sarei stato disponibile — in caso fosse stato possibile — ad offrirmi in cambio degli ostaggi. E io ho risposto: certamente sì, un cristiano — per di più vescovo — è sempre chiamato ad offrire la propria vita per gli altri. Niente di straordinario: è la sequela di Gesù, che lo ha fatto per tutti noi. Poi la notizia inaspettatamente ha fatto il giro del mondo; in questo clima polarizzato a qualcuno è piaciuta e a qualcun altro no. Inutile aggiungere che avrei detto lo stesso anche per i palestinesi. Ma, ripeto, non c’è niente di straordinario.

Certo che, per chi vede i segni, questo fatto che un sabato mattina lei riceva in San Pietro una berretta rossa, simbolo di una vita offerta fino al sangue, e il sabato successivo scoppi una guerra nella sua terra, ha qualcosa di straordinario.
Non so se è straordinario. Io avrei fatto a meno di entrambe le cose. È ovvio che ci abbia pensato anch’io. Un segno c’è, ma non saprei interpretarlo. Non so cosa il Signore stia dicendo. So soltanto che c’è ora bisogno di una parola chiara, forte, di dare un orientamento. Con il cardinalato dichiari di offrire la tua vita fino al martirio. Questo martirio ora lo sta vivendo la mia gente. Per quanto riguarda la mia persona, sento come non mai l’impegno a dare la mia vita. D’altronde se non dai la tua vita, non c’è vita. È la legge del cristiano. Nelle prime ore dopo il 7 ottobre mi sono sentito inadeguato, ora, soprattutto attraverso la preghiera, sto cercando di discernere la volontà del Signore. La cosa che mi è molto chiara è l’amore per la mia gente. Per tutta la mia gente. Con tutte le loro contraddizioni. C’è un passaggio che mi ha sempre colpito di una lettera che san Francesco scrive al Ministro generale che si lamentava della difficoltà a “gestire” i frati, e il santo gli risponde grosso modo: torna dai tuoi frati e amali, e non avere la pretesa di farli diventare, non solo frati migliori , ma cristiani migliori. Per ora ho capito che intorno a me il primo bisogno è appunto quello di riuscire a leggere gli avvenimenti di questi giorni alla luce del Vangelo. Una parola del Vangelo che ti aiuti a vivere questa situazione. E ancor più la situazione che sarà. Anche se oggi non sappiamo come sarà. Sappiamo solo che non sarà più come prima. Saper ascoltare le varie istanze intorno a noi, capirle, senza giudicarle, comprendendo cosa c’è dentro, da cosa derivano. Saper ascoltare tutti, per poter parlare con tutti.

Si parla anche con i terroristi?
Si parla con tutti. Se fosse possibile anche con loro. D’altronde se non si dovesse parlare coi peccatori, tutta la storia di Gesù non avrebbe senso. Essere chiari con tutti, ma parlare con tutti.

Si può amare tutti qui, ora?
Si deve amare tutti. Questa è la grande sfida che abbiamo come cristiani qui. Essere capaci di amare l’ebreo e il musulmano, l’israeliano e il palestinese. Anche quando non riconoscono il nostro amore.

C’è da ricostruire anche un’unità dei cristiani in Terra Santa?
I cristiani di Terra Santa non sono divisi. Confusi sì, affaticati, ma non divisi. Confusi, perché quell’impatto emotivo di cui parlavamo prima ha colpito anche loro. Per esempio la comunità di lingua ebraica ha reagito male alla prima lettera dei patriarchi, e la comunità araba per altri aspetti può dire lo stesso. Per me l’importante è che abbiano visto che il loro vescovo c’è. Il vescovo può a volte piacere e altre no, ma c’è. A bocce ferme poi ci si dovrà parlare, capirsi. Non sarà facile, ma lo faremo. Così come andrà fatto più in generale nelle società che abitano queste terre. E allora questa piccola comunità cristiana dovrà essere in grado di dire qualcosa a tutti. Ora però è ancora presto, perché c’è ancora tanto dolore, e quando c’è dolore lo spazio per le analisi e le riflessioni si restringe. Il dolore assorbe tante energie, perciò ci vorrà tempo. Una cosa che ho capito in questi giorni (e forse su questo io sono un po’ debole) che c’è tanto bisogno di vicinanza, di affetto. Mi è stato proprio chiesto: “Dicci che ci vuoi bene”. Questo è importante, non va sottovalutato.

Questo vale anche per il cardinale, immagino.
Certo, ma il cardinale è più fortunato, perché ha sentito molto il vostro affetto, le vostre preghiere. D’altronde quando hai una responsabilità un certo grado di solitudine è necessario e anche proficuo. E devi custodirla anche. È inutile che le dica che la vicinanza più prossima e confortante è stata quella di Papa Francesco, anche un paio di giorni fa mi ha richiamato. Vorrei aggiungere ancora una cosa a proposito dell’orientamento della nostra comunità cristiana. Sicuramente la polarizzazione che l’ha riguardata mi ferisce, ma in fondo i cristiani sono esseri umani come tutti, e come tutti si nutrono anche di emozioni. Se una cosa analoga fosse successa in Italia, Spagna o Francia, i cristiani avrebbero forse reagito diversamente? E poi questa tragedia offre, se così si può dire, anche l’opportunità di ripensare la propria identità. Giusto questa mattina mi hanno telefonato per dirmi che i corsi di orientamento spirituale che avevamo promosso nei locali del nostro seminario di Beit Jala stanno esplodendo di iscrizioni: c’è tanto bisogno di una parola di senso.

Parole di senso che il gregge si attende soprattutto dal suo pastore.
Guardi, mai come in questo frangente ho compreso che il mio ruolo implica, più che responsabilità, un alto grado di paternità. Il padre è colui che ascolta, orienta, indirizza, consiglia, corregge, custodisce, protegge. Il padre è colui che genera alla vita. E qui, ora, c’è un gran bisogno di generare nuova vita.

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GUERRE E POVERTA'  SENZA FINE

Nell'ultimo nostro articolo dicevamo delle vittime civili che ormai le guerre di oggi sacrificano alle loro logiche belliche.
A Gaza la guerra continua e nessuna tregua concede sollievo.
Fa impressione il bilancio stilato da alcuni quotidiani: 10 mila i civili morti in 27 giorni, più delle vittime civili fatte dalla guerra in Ucraina in due anni.
Così come il conflitto ucraino ha lacerato le coscienze di molti credenti ortodossi, altrettanto succede a molte coscienze ebraiche: ne da voce qui la testimonianza dello scrittore ebreo David Grossman. (CLICCA QUI)
Il giornalista Domenico Quirico ci descrive invece una realtà drammatica che sempre sta sullo sfondo di molte guerre disseminate a 'pezzi',  quella dei 'popoli mendicanti': i palestinesi di Gaza, ma anche somali, sudanesi, siriani, saharawi, afghani, haitiani: un lungo elenco. Popoli che vivono in attesa dei camion dell’Onu, non “producono”, aspettano: fino all’esplosione della violenza.
Una realtà che ha profonde radici storiche e culturali, una povertà che gli aiuti umanitari non riescono a sconfiggere; poveri, privi di cibo e senza acqua, privi di medicinali e corrente elettrica, senza carburante e senza un tetto sotto cui dormire. Semplicemente in attesa di aiuti.
 


POPOLI MENDICANTI AI MARGINI DELLA VITA E DELLA DIGNITÁ

Domenico Quirico, in La Stampa, novembre 2023

Volete una definizione, semplice, svelta, per stringere in pugno subito tutto? Eccola: i popoli mendicanti sono quelli che vivono ai margini. Sono quelli che fanno storia come i malati fanno la malattia. Sì, sopravvivono davanti ai Muri, vecchi trucchi costruiti alla fine di ogni guerra, in strisce di sabbia e di roccia, luoghi forse un tempo ameni, dove c’erano alberi e acqua, chissà, forse ma chi ne ha memoria? E oggi c’è polvere o fango a seconda delle stagioni, o magari solo polvere e fango perché perfino le stagioni con i loro labili segni sono fuggite via. I popoli mendicanti sono quelli che sono stati ridotti nel confine più drastico che esista, quello della assoluta inutilità. In terre incognite ricavate a ridosso di frontiere che sfumano nel Nulla.

Non basta? volete qualcosa di ancor più forte, per capire che parliamo di genti con cui fare della sociologia, usare concetti astratti ha un gusto un po’, come dire, feroce? I popoli mendicanti sono composti da coloro a cui è immorale porre la domanda: che cosa hai mangiato oggi? La domanda giusta è: hai mangiato oggi? Perché i popoli mendicati vivono della carità internazionale, per trovarli basta sfogliare i faldoni delle agenzie umanitarie delle Nazioni unite o delle fondazioni caritative laiche o jihadiste. Loro però sono fuori dallo spazio e dal tempo, non illudetevi di spendere utilmente la vostra buona volontà, appartengono solo a sé stessi e sono solo dentro di sé.

Attenzione: addentratevi con prudenza in queste righe. Questo articolo non è che lo specchio di un fallimento. Sì, perché i popoli mendicanti sono l’istantanea della nostra Storia-disastro, affollata da milioni di uomini. Gli ultimi a irrompervi: i palestinesi rannicchiati nell’angolo meridionale della Striscia di Gaza, tra due Muri con diverse bandiere.

Le loro baracche resteranno lì dove, forse, sfumerà la risacca della guerra; o semplicemente, come ipotizza qualcuno, scivoleranno dall’altra parte, nelle bibliche sabbie del Sinai. Chissà. Una volta tanto non voglio fare il ripasso: se nel 1948 avessero scritto meglio le risoluzioni per la nascita di Israele…, se i trionfi dei famosi Sei giorni nel 1967 fossero stati meno arroganti… se Arafat non fosse stato una “padre della patria” così discutibile e corrotto… se Hamas non fosse Hamas se.. . Voglio raccontare solo i popoli mendicanti, quelli di Gaza come sono ora, durante questa guerra, e come ahimé! temo saranno.

Le città dei popoli mendicanti sono queste distese senza fine di baracche, di tende, di capanne, legno, plastica, cartone, latta; nascono in un attimo, sono abili con le mani i popoli mendicanti uomini donne bambini a tirar su questi luoghi dove incredibilmente gli uomini vivono e che hanno per me, anche se li incontro da anni, sempre un che di astratto e di assurdo. E di tremendo. Piatte, flessibili, di una materia un po’ molle, l’occhio vi affonda, crescono quando le guerre che restano infinite, inguaribili, diventano per un po’ guerre raffreddate da manuale di storia.

Elenchiamo, volete? Somali, Karen, saheliani di molte inutili bandiere, i nigeriani del nord , sudanesi, siriani, Saharawi, afghani, haitiani… chiedo venia, so che dimentico. Qualcuno ne è uscito, pochi. Tanti vi entrano ed escono da decenni, come i palestinesi.

La condanna dei popoli mendicanti è che non “producono”. Come farebbero confinati in questi luoghi eternamente provvisori? La guerra anche quando non c’è più, quando non alzeranno continuamente lo sguardo al cielo per paura di sentire il rumore degli aerei, sta sempre intorno, è appiccicata addosso. E poi non ci sono energia elettrica sicura, acqua strade… neppure il più spregiudicato dei capitalisti di rapina avrebbe vantaggi a venir qui a delocalizzare salari da fame per mettere insieme pezzi di plastica o cucire scarpe. Per quello ci sono i popoli poveri, la miseria è un dato certo. Dunque, si aspetta. Si aspetta che tutto anche qui diventi permanente solido definitivo, e potrà raccattare i suoi “operai” magari bambini.

Il momento chiave della vita dei popoli mendicanti è la distribuzione: del cibo che altro! Il centro delle comunità umane è la piazza, la chiesa o la moschea, un monumento che ricapitola la storia del luogo e degli abitanti. Per i popoli mendicanti è lo spiazzo dove si fermano i camion con i sacchi di farina o le scatole con le razioni di cibo e di acqua potabile. Il cibo, come se fosse nella sporcizia di quella vita l’unica cosa pura sulla terra. I palestinesi di Gaza nei giorni scorsi, nell’infuriare dei bombardamenti, hanno assaltato i depositi dove erano immagazzinate le scorte alimentari dalle Nazioni unite. A poco a poco quando saranno raccolti nella parte della Striscia che la guerra concederà loro, questo non accadrà più.

I popoli mendicanti imparano in fretta ad essere disciplinati. Dipendono. E questo obbliga ad essere miti. Ogni giorno, all’ora stabilita, si metteranno in fila per ricevere la razione prevista. I funzionari Onu o della mezzaluna rossa o delle sigle del Qatar e della Arabia saudita, spunteranno via via dagli elenchi i nomi di chi ha ritirato la sua parte giornaliera. Ai bambini resterà il compito, come a Dadab, in Mozambico, sulle rive del lago Ciad, ad Aleppo di raccogliere le briciole, sì le briciole, quello che è caduto a terra dai sacchi o dimenticato nei rimorchi dei camion. Giorno dopo giorno anno dopo anno quello sarà il momento chiave della vita. il resto sono le donne sedute sugli usci delle capanne, i bambini che fanno rotolare latte vuote o palloni bucati, nel fumo di fuochi accesi all’aperto tra due pietre dove cuoce il cibo della carità internazionale, mescolato alla polvere che il vento solleva come una nebbia mossa e biancastra da terra.

A poco a poco, come sempre, la città dei mendicanti si organizzerà, acquisterà un ordine, una sua struttura, già: una forma. Compaiono nomi di strade e di incroci, qualcuno più ingegnoso monta piccoli negozi e traffici; spuntano le antenne paraboliche, sulle pareti delle baracche compaiono slogan minacce simboli bandiere. Arrivano le notizie dal mondo, ronzano come mosche sul tavolo. E con loro nuovi barlumi di rabbia rivoluzionaria.

Mentre in remote sale congressi, luminose e accoglienti, signori in cravatta e segretarie in tailleur, i bottegai della luccicante Misericordia senza frontiere, montano bilanci, fatturati e richieste urgenti! Di fondi, i ribelli iniziano a rimpolpare i miti fondativi, a ricordare e a raccontare cosa è accaduto. E quelle storie diventeranno miti. Dapprima parleranno in tono sommesso nelle lunghe ore in attesa dell’arrivo dei camion, poi i vecchi capi spariranno con la loro rassegnazione e prudenza.

Alla vita ideale, sognata, lontana dalla angustia del presente con cui i popoli mendicanti hanno riempito i primi tempi, si sostituiranno le sconfinate possibilità della vendetta: «Siete pronti? Andiamo ad abbattere quel muro…».

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NUOVE IDEOLOGIE E DANNI COLLATERALI

Quello che è successo e continua a succedere nella guerra tra Russia e Ucraina e quello che sta succedendo in Palestina tra Israele e i terroristi di Hamas mi porta ad alcune considerazioni che nascono semplicemente dalla lettura della cronaca quotidiana:
1 - non è vero che con la caduta del Muro di Berlino e il disfacimento dell' URSS sono finite le ideologie: credo invece che siano finite “quelle due grandi ideologie” che avevano caratterizzato il XX secolo, ma dalle loro ceneri sono sorte tante e nuove ideologie che non riconosciamo come tali e che il nostro linguaggio maschera sotto più ambigue denominazioni: fondamentalismo religioso, fondamentalismo economico/finanziario liberista globale, nazionalismo, populismo.
2 - Ma il nostro linguaggio maschera anche un'altra realtà che invece caratterizza le guerre contemporanee. Ogni guerra ha sempre provocato anche la morte di popolazioni civili, vittime che, ormai, con cinica e sottile astuzia, il linguaggio convenzionale ormai in uso ha derubricato semplicemente a “danni collaterali”; le ultime due Guerre Mondiali hanno registrato un vorticoso aumento di questi “danni collaterali” e la guerra russo-ucraina è una guerra in molti aspetti molto simile alle due Guerre mondiali del secolo scorso
Ma la guerra tra Israele e Hamas si distingue per il fatto che i veri obiettivi militari del conflitto sono appunto quasi esclusivamente i “danni collaterali”, cioè i civili.
Il terrorismo di Hamas usa i civili come primo obiettivo, li usa come ostaggi, usa i propri civili come scudo umano.
Israele bombarda la Striscia di Gaza consapevole che i bombardamenti colpiscono quasi esclusivamente i civili.

Scrive Banfi sulla sua pagina quotidiana:
Sale l’angoscia per la Striscia di Gaza e per i civili colpiti nell’offensiva dell’esercito israeliano. L’Unicef denuncia che questa zona è diventata un cimitero per migliaia di bambini e lancia anche l'allarme sul rischio di morte per disidratazione. Secondo il ministero della Sanità della Striscia gestita da Hamas, gli attacchi hanno ucciso più di 8.500 persone, principalmente civili. Ieri il bersaglio scelto è stato il campo profughi di Jabaliya.
I palestinesi sopravvissuti hanno riferito che le sei bombe sganciate dagli aerei e concentrate in pochi metri hanno provocato una specie di terremoto, che ha lasciato solo macerie.

L’altra istantanea dell’orrore non viene dalla nuova strage di Gaza ma da Parigi. Dove sono state dipinte delle stelle di David, al di fuori di case abitate da ebrei.
E l’ondata di odio e di risentimento nei confronti di Israele e un pericoloso antisemitismo sembrano aumentare fra Europa e Stati Uniti, con inquietanti “caccia all’ebreo”.
Su molte tv è stato raccontata la storia di Salem Samour, 7 anni: ha 81 schegge di bomba in corpo. Ieri un lettore di questo giornale mi ha scritto sostenendo che quello colpito da 6 bombe a Gaza “non era un campo profughi ma il campo di addestramento delle elites di Hamas”.
Per Israele, come riportato nell’articolo di cronaca, l’attacco è infatti servito a uccidere Ibrahim Biari, comandante di un battaglione di Hamas e tra i responsabili del massacro del 7 ottobre.

Ma quello resta un campo profughi e l’effetto collaterale dell’uccisione del capo di Hamas sono molte vittime, fra cui bambini.
Meglio non vedere, non sapere e dire che lì i profughi non ci sono.

Secondo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani 'il raid a Jabaylia potrebbe costituire crimine di guerra', perché si tratterebbe di 'attacchi sproporzionati.
La logica della guerra non prevede di vedere il nemico in faccia, di ragionare sul fatto che stai uccidendo un uomo come te. Quindi nega l’evidenza, fa diventare tutto simbolico. Astrae dalla realtà.
Anche il terrorismo è così: le Br uccidevano il sistema di potere della Dc non la persona di Aldo Moro. I terroristi che hanno ucciso al Bataclan di Parigi non hanno ucciso giovani uomini e donne ma il corrotto Occidente cristiano.
I carnefici di Hamas hanno sgozzato quei bambini in quanto odiati nemici ebrei.
Se li avessero guardati come tali non ce l’avrebbero fatta a massacrarli.
Emilio Lussu, prima grande interventista e poi grande pacifista italiano, ebbe un ravvedimento quando guardò in faccia il coetaneo austriaco che stava per uccidere nella trincea a lui opposta. Quelle pagine di '
Un anno sull’altipiano' sono una grande testimonianza contro l’odio e la guerra”.

Appunto:
la guerra ha bisogno di essere sorretta e motivata da una ideologia: non guarda il volto, la persona, la vita concreta ma riconduce tutto a simboli di un idea, ad una astrazione  ideologica.
E le principali vittime di queste carneficine spesso sono i bambini, tanti e innocenti, ma solo e null'altro che inevitabili “danni collaterali ”.


Palestina e Ucraina.
Dal disastro umanitario ai diritti negati, sono i bambini le prime vittime.

Paola Binetti, Senatrice della Repubblica, Medico e NeuroPsichiatra infantile

Sono i minori le vittime principali degli attuali scenari di guerra che Papa Francesco ha icasticamente definito come la terza guerra mondiale a pezzi. Sono le vittime principali non solo perché pagano con la vita colpe mai commesse, ma perché anche quando sopravvivono portano tracce così profonde nella loro personalità da diventare facilmente strumenti di chi queste guerre intende perpetrarle nel tempo.
A meno che, a tutela dei loro diritti e con tutto lo spirito di riparazione che il loro mancato rispetto impone a chi li ha traditi, non si investano risorse adeguate, restituendo loro quel futuro di speranza e di solidarietà che gli è stato violentemente strappato.
Ed è questa la sfida principale che tocca a tutti noi, figli ed eredi di una cultura dalle profonde radici giudeo-cristiane; figlia del diritto e della filosofia della pace. Mancare questo obiettivo significa condannare l’Occidente ad uno stato di fragilità permanente, mettendo in serio pericolo la sua sicurezza e la sua pace.

I fatti
La guerra dichiarata da Hamas ad Israele sta colpendo soprattutto i bambini: in un fronte e nell’altro. Ancora una volta si ripete una vera e propria strage degli innocenti. Più di mille bambini uccisi in 11 giorni su entrambi i fronti e tra le duecento persone rapite e portate a Gaza come ostaggi ci sono anche minori. I bambini e le bambine costituiscono almeno un terzo del totale delle vittime in questa drammatica situazione, mentre la situazione umanitaria continua a peggiorare. L’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) ha denunciato che l’acqua pulita scarseggia e senza aiuti e beni di prima necessità i bambini piccoli inizieranno presto a morire di grave disidratazione. La vita di migliaia di bambini è in pericolo.
Ma oltre al pericolo oggettivo per la vita di tutti questi bambini ci sono anche i danni che a medio e lungo termine possono incidere sul loro equilibrio umano. Assistere agli orrori e alla violenza del conflitto può modificare profondamente il paradigma che permette all’infanzia di proiettarsi verso un futuro in cui immaginare una vita di pace e di coesione sociale. Lo scarso accesso ai servizi di base e agli aiuti umanitari distruggono il senso di fiducia che dovrebbe favorire lo sviluppo di ogni bambino, a cominciare dalla possibilità di frequentare la scuola, di giocare liberamente, di avere a disposizione strutture socio-sanitarie adeguate. Vengono meno le cure necessarie, il cibo, la sicurezza e la relativa protezione. Ci sono violenze, abusi e sfruttamento, perché inevitabilmente aumentano i rischi di essere vittima di violenze di ogni tipo, compreso lo sfruttamento legato al lavoro minorile e al rischio di essere arruolati in gruppi armati. La paura del futuro, l’incertezza del domani diventano fonte di stress e ansia e prende forma in loro un pensiero negativo ricorrente, in cui temono che “la guerra potrebbe non finire”, “posso perdere i miei genitori”, “potrebbe non esserci più cibo”.
La sovraesposizione allo stress ha necessariamente conseguenze negative sulla loro salute mentale e può attivare un circuito di violenza, per cui da vittime diventano potenziali aggressori. Lo sviluppo sociale ed emotivo di un bambino è sempre legato a una presenza costante, attenta, affettuosa degli adulti. In questi casi i bambini, oltre al trauma della separazione dai genitori, possono sperimentare una pressione all’autodifesa e all’autonomia, in cui i confini della solidarietà si frammentano, spesso sostituiti dall’istinto di sopravvivenza, che rende tutto lecito.
Così si ritrovano soli ed esposti ancor di più ai rischi di sfruttamento, rapimento e arruolamento nei corpi armati. Tutto ciò crea uno stato di disagio così profondo da farli sentire in stato di guerra permanente; le loro ferite sono difficilmente rimarginabili nel tempo e la loro proiezione nel futuro è nello stesso tempo vulnerabile e aggressiva. Per cui davvero la guerra sembra generare solo altre guerre, spesso in modo più subdolo e pericoloso.

Il tradimento delle convenzioni internazionali
Ad oggi è stato calcolato che sono circa 24 milioni i bambini che vivono in zone di guerra e dichiarano di soffrire di gravi disagi psicologici, perché la guerra provoca anche effetti devastanti sulla loro salute mentale, con un effetto di contagio che ha conseguenze disastrose anche al di là dello scenario di guerra iniziale.
A fronte di tutte le guerre attualmente in corso, anche a partire dal rapporto ONU di denuncia sugli abusi ai minori in Afghanistan, vale la pena ricordare la Convenzione sui diritti dell’infanzia che tutela i diritti dei bambini in caso di conflitto armato. La Convenzione sui diritti dell’infanzia, approvata il 20 novembre 1989, ratificata da 193 Stati, rappresenta lo strumento normativo internazionale più importante e completo per la promozione e tutela dei diritti dell’infanzia e costituisce uno strumento giuridico vincolante per gli Stati che la riconoscono.

L’articolo 29 afferma che: “Gli Stati parti convengono che l’educazione del fanciullo deve avere come finalità:
a) favorire lo sviluppo della personalità del fanciullo nonché lo sviluppo delle sue facoltà e delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutta la loro potenzialità;
b) sviluppare nel fanciullo il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei principi consacrati nella Carta delle Nazioni Unite;
c) sviluppare nel fanciullo il rispetto dei suoi genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi valori culturali, nonché il rispetto dei valori nazionali in cui il minore vive, del paese di cui può essere originario e delle civiltà diverse dalla sua;
d) preparare il fanciullo ad assumere la responsabilità della vita in una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace e di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia tra tutti i popoli e gruppi etnici, nazionali e religiosi e delle persone di origine autoctona;
e) sviluppare nel fanciullo il rispetto dell’ambiente naturale
”.

Se questo articolo appare più come una lista di doveri che di diritti per i minori e per gli adulti che hanno una concreta responsabilità di formare i minori, l’articolo 37 afferma in modo inequivocabile: “Nessun fanciullo sia sottoposto a tortura o a pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti…” come invece spesso accade in guerra con una flagrante contraddizione con i Diritti umani dei minori. E l’articolo successivo, il n. 38, a sua volta sottolinea le responsabilità proprie degli Stati:
1. Gli stati si impegnano a rispettare e far rispettare le regole del diritto umanitario internazionale in caso di conflitto armato, la cui protezione si estende ai fanciulli.
2. Gli Stati parti adottano ogni misura possibile a livello pratico per vigilare che le persone che non hanno raggiunto l’età di 15 anni non partecipino direttamente alle ostilità…
”.

Successivamente l’età di 15 anni è stata innalzata a 18 anni con il Protocollo opzionale della Convenzione internazionale sui diritti dell’Infanzia dell’ONU il 25 maggio 2000. Protocollo in cui si condanna anche il reclutamento e l’addestramento dei minori.
Che siano intrappolati nei combattimenti, che si spostino come migranti, rifugiati o sfollati interni, che prendano parte alle ostilità o siano detenuti per legami veri o presunti con gruppi armati, questi bambini sono, prima di tutto, vittime di circostanze che sfuggono al loro controllo. In realtà abbiamo un’infanzia sotto attacco in moltissime parti del mondo e le notizia provenienti dal conflitto armato tra Russia ed Ucraina ne è una ulteriore conferma. La Russia è accusata di aver deportato 6mila minori ucraini in campi di rieducazione, dove sono stati sottoposti a percorsi di educazione forzati.

Conclusione
Tutelare i diritti dell’infanzia, da qualunque parte del conflitto stiano i minori, è il più grosso investimento per la pace che la nostra stessa cultura e tradizione ci impone. Con quello sguardo più ampio e profondo che parte dallo scenario di guerra ma si spinge ben più in là, abbracciandone le conseguenze devastanti. Non basta concentrarsi sugli effetti immediati della violenza esplosiva sui minori, ma anche su quelli di lungo periodo e, quindi, su tutte le conseguenze che avranno a distanza di anni.
La maggior parte delle vittime minorenni non è causata da un’esposizione militare o terroristica diretta. Si tratta di vittime del danneggiamento di riserve alimentari, fonti d’acqua, luoghi di riparo e di assistenza sanitaria, danni che spesso non vengono adeguatamente riconosciuti e valutati eppure sono quelli che lasciano tracce molto più a lungo.
Paradossalmente sono i minori che sopravvivono alla guerra che faranno la differenza, diventando giudici vendicatori o ambasciatori di pace. Si tratta di danni a cui non sempre si pone riparo nei modi dovuti, sono spesso sotto-finanziati, anche perché poco riconosciuti come tali, nelle loro cause e nelle conseguenze a medio-lungo termine.

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"A un mondo che muore di fame, di miseria, di pesantezza, di odio, che gli egoismi più feroci divorano, le parole non bastano. Occorre che qualcuno esca e pianti la tenda dell’amore accanto a quella dell’odio. Dichiarandosi contro apertamente a tutte le ferocità dell’ora, ovunque si trovino, sotto qualunque nome si celino, in uno sforzo di santità sociale che restituisca un’anima a questo nostro povero mondo che l’ha perduta" (don Prima Mazzolari).

Il 27 ottobre, è stata la giornata di preghiera e digiuno voluta da Papa Francesco per la Terra Santa e tutti i luoghi del mondo straziati da guerre e violenze.
È un gesto  che fa seguito all’iniziale giornata di digiuno voluta dal cardinal Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei Latini.
Un’iniziativa che dal Medio Oriente coinvolge le chiese, le religioni e tutti gli uomini: quasi un cercare la complicità dell'animo umano di fronte alle tragedie dei conflitti armati.
Chiedere la pace oggi sembra del tutto utopistico, impossibile eppure, quando si guardano da vicino le foto, le storie, le biografie delle vittime, il terrorismo e la  guerra dimostrano tutta la loro insensatezza, la loro assurdità.

Ma nel frattempo l'atto terroristico di Hamas ha riacceso quel conflitto tra palestinesi e Israele che sembrava sopìto obbligando tutto il mondo arabo a schierarsi e azzerando quei processi diplomatici che sembrava potessero aprire nuovi orizzonte tra Islam e Occidente.
Di fronte al conflitto Hamas-Israele il giornalista R. Cristiano tenta di decifrare il ginepraio medio-orientale descrivendo il ruolo dei vari Stati arabi, i suoi leader e i loro interessi politici particolari, gli sponsor dei gruppi armati più importanti che stanno alle spalle, le priorità, spesso non manifeste, per non dire poi delle contraddizioni e dei “giri di piroetta” che sono sempre all'ordine del giorno.
Se qualche lettore volesse buttare uni sguardo su questo ginepraio medio-orientale può leggere l'articolo. (CLICCA QUI).

Ma dall'epicentro del conflitto di quella terra insanguinata il Patriarca di Gerusalemme per la Chiesa latina, Cardinale Pierbattista Pizzaballa, ha scritto una lettera a tutta la sua Diocesi.
La pubblichiamo.


Per fare la pace ci vuole coraggio

Pierbattista Pizzaballa

Carissimi, il Signore vi dia pace!

Stiamo attraversando uno dei periodi più difficili e dolorosi della nostra storia recente. Da ormai più di due settimane siamo stati inondati da immagini di orrore, che hanno risvegliato traumi antichi, aperto nuove ferite, e fatto esplodere dentro tutti noi dolore, frustrazione e rabbia. Molto sembra parlare di morte e di odio senza fine. Tanti «perché» si accavallano nella nostra mente, facendo aumentare così il nostro senso di smarrimento.

Tutto il mondo guarda a questa nostra Terra Santa, come ad un luogo che è causa continua di guerre e divisioni. Proprio per questo è stato bello che qualche giorno fa, tutto il mondo fosse invece unito a noi con una giornata di preghiera e di digiuno per la pace. Uno sguardo bello sulla Terra Santa e un importante momento di unità con la nostra Chiesa. E questo sguardo continua. Il prossimo 27 ottobre il Papa ha indetto una seconda giornata di preghiera e di digiuno, perché la nostra intercessione continui. Sarà una giornata che celebreremo con convinzione. È forse la cosa principale che noi cristiani in questo momento possiamo fare: pregare, fare penitenza, intercedere. E di questo ringraziamo il Santo Padre di vero cuore.

Fermate questa violenza insensata
In tutto questo frastuono dove il rumore assordante delle bombe si mischia alle tante voci di dolore e ai tanti contrastanti sentimenti, sento il bisogno di condividere con voi una parola che abbia la sua origine nel Vangelo di Gesù, perché in fondo è da lì che tutti noi dobbiamo partire e lì dobbiamo sempre ritornare. Una parola di Vangelo che ci aiuti a vivere questo tragico momento unendo i nostri sentimenti a quelli di Gesù.

Guardare a Gesù, ovviamente, non significa sentirci esonerati dal dovere di dire, denunciare, richiamare, oltre che consolare e incoraggiare. Come abbiamo ascoltato nel Vangelo di domenica scorsa, è necessario rendere «a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21). Guardando a Dio, vogliamo dunque, innanzitutto, rendere a Cesare ciò che è suo.

La coscienza e il dovere morale mi impongono di affermare con chiarezza che quanto è avvenuto il 7 ottobre scorso nel Sud di Israele, non è in alcun modo ammissibile e non possiamo non condannarlo. Non ci sono ragioni per una atrocità del genere. Si, abbiamo il dovere di affermarlo e denunciarlo. Il ricorso alla violenza non è compatibile col Vangelo, e non conduce alla pace. La vita di ogni persona umana ha una dignità uguale davanti a Dio, che ci ha creati tutti a Sua immagine.

La stessa coscienza, tuttavia, con un grande peso sul cuore, mi porta oggi ad affermare con altrettanta chiarezza che questo nuovo ciclo di violenza ha portato a Gaza oltre cinquemila morti, tra cui molte donne e bambini, decine di migliaia di feriti, quartieri rasi al suolo, mancanza di medicinali, acqua, e beni di prima necessità per oltre due milioni di persone. Sono tragedie che non sono comprensibili e che abbiamo il dovere di denunciare e condannare senza riserve. I continui pesanti bombardamenti che da giorni martellano Gaza causeranno solo morte e distruzione e non faranno altro che aumentare odio e rancore, non risolveranno alcun problema, ma anzi ne creeranno dei nuovi. È tempo di fermare questa guerra, questa violenza insensata.

È solo ponendo fine a decenni di occupazione, e alle sue tragiche conseguenze, e dando una chiara e sicura prospettiva nazionale al popolo palestinese che si potrà avviare un serio processo di pace. Se non si risolverà questo problema alla sua radice, non ci sarà mai la stabilità che tutti auspichiamo. La tragedia di questi giorni deve condurci tutti, religiosi, politici, società civile, comunità internazionale, ad un impegno in questo senso più serio di quanto fatto fino ad ora. Solo così si potranno evitare altre tragedie come quella che stiamo vivendo ora. Lo dobbiamo alle tante, troppe vittime di questi giorni, e di tutti questi anni. Non abbiamo il diritto di lasciare ad altri questo compito.

Ci vuole coraggio
Ma non posso vivere questo tempo estremamente doloroso, senza rivolgere lo sguardo verso l’Alto, senza guardare a Cristo, senza che la fede illumini il mio, il nostro sguardo su quanto stiamo vivendo, senza rivolgere a Dio il nostro pensiero. Abbiamo bisogno di una Parola che ci accompagni, ci consoli e ci incoraggi. Ne abbiamo bisogno come l’aria che respiriamo.

«Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33).

Ci troviamo alla vigilia della passione di Gesù. Egli rivolge queste parole ai suoi discepoli, che di lì a poco saranno sballottati come in una tempesta di fronte alla Sua morte. Saranno presi dal panico, si disperderanno e fuggiranno, come pecore senza pastore.

Ma questa ultima parola di Gesù è un incoraggiamento. Non dice che vincerà, ma che ha già vinto. Anche nel dramma che verrà, i discepoli potranno avere pace. Non si tratta di una pace irenica campata in aria, né di rassegnazione al fatto che il mondo è malvagio e che non possiamo fare nulla per cambiarlo. Ma di avere la certezza che proprio dentro tutta questa malvagità, Gesù ha vinto. Nonostante il male che devasta il mondo, Gesù ha conseguito una vittoria, ha stabilito una nuova realtà, un nuovo ordine, che dopo la risurrezione sarà assunto dai discepoli rinati nello Spirito.

È sulla croce che Gesù ha vinto. Non con le armi, non con il potere politico, non con grandi mezzi, né imponendosi. La pace di cui parla non ha nulla a che fare con la vittoria sull’altro. Ha vinto il mondo, amandolo. È vero che sulla croce inizia una nuova realtà e un nuovo ordine, quello di chi dona la vita per amore. E con la Risurrezione e con il dono dello Spirito, quella realtà e quell’ordine appartengono ai suoi discepoli. A noi. La risposta di Dio alla domanda sul perché della sofferenza del giusto, non è una spiegazione, ma una Presenza. È Cristo sulla croce.

È su questo che si gioca la nostra fede oggi. Gesù in quel versetto parla giustamente di coraggio. Una pace così, un amore così, richiedono un grande coraggio.

Avere il coraggio dell’amore e della pace qui, oggi, significa non permettere che odio, vendetta, rabbia e dolore occupino tutto lo spazio del nostro cuore, dei nostri discorsi, del nostro pensare. Significa impegnarsi personalmente per la giustizia, essere capaci di affermare e denunciare la verità dolorosa delle ingiustizie e del male che ci circonda, senza però che questo inquini le nostre relazioni. Significa impegnarsi, essere convinti che valga ancora la pena di fare tutto il possibile per la pace, la giustizia, l’uguaglianza e la riconciliazione. Il nostro parlare non deve essere pieno di morte e porte chiuse. Al contrario, le nostre parole devono essere creative, dare vita, creare prospettive, aprire orizzonti.

Ci vuole coraggio per essere capaci di chiedere giustizia senza spargere odio. Ci vuole coraggio per domandare misericordia, rifiutare l’oppressione, promuovere uguaglianza senza pretendere l’uniformità, mantenendosi liberi. Ci vuole coraggio oggi, anche nella nostra diocesi e nelle nostre comunità, per mantenere l’unità, sentirsi uniti l’uno all’altro, pur nelle diversità delle nostre opinioni, delle nostre sensibilità e visioni

Vogliamo chiederlo a Dio
Io voglio, noi vogliamo essere parte di questo nuovo ordine inaugurato da Cristo. Vogliamo chiedere a Dio quel coraggio. Vogliamo essere vittoriosi sul mondo, assumendo su di noi quella stessa Croce, che è anche nostra, fatta di dolore e di amore, di verità e di paura, di ingiustizia e di dono, di grido e di perdono.

Prego per tutti noi, e in particolare per la piccola comunità di Gaza, che più di tutte sta soffrendo. In particolare, il nostro pensiero va ai 18 fratelli e sorelle periti recentemente, e alle loro famiglie, che conosciamo personalmente. Il loro dolore è grande, eppure, ogni giorno di più mi rendo conto che loro sono in pace. Spaventati, scossi, sconvolti, ma con la pace nel cuore. Siamo tutti con loro, nella preghiera e nella solidarietà concreta, ringraziandoli della loro bella testimonianza.

Preghiamo infine per tutte le vittime innocenti. La sofferenza degli innocenti davanti a Dio ha un valore prezioso e redentivo, perché si unisce alla sofferenza redentrice di Cristo. Che la loro sofferenza avvicini sempre di più la pace!

Ci stiamo avvicinando alla solennità della Regina di Palestina, la patrona della nostra diocesi. Quel santuario fu eretto in un altro periodo di guerra, e fu scelto come luogo speciale per pregare per la pace. In quei giorni riconsacreremo nuovamente la nostra Chiesa e la nostra terra alla Regina di Palestina! Chiedo a tutte le Chiese nel mondo di unirsi al Santo Padre e a noi nella preghiera, e nella ricerca di giustizia e pace.

Non potremo quest’anno ritrovarci tutti, perché la situazione non lo permette. Ma sono certo che tutta la diocesi sarà unita in quel giorno per pregare unita e solidale per la pace, non quella del mondo, ma quella che ci dona Cristo.

Con l’augurio di ogni bene,

† Pierbattista Card. Pizzaballa,
Patriarca di Gerusalemme dei Latini

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A un mondo che muore di fame, di miseria, di pesantezza, di odio, che gli egoismi più feroci divorano, le parole non bastano. Occorre che qualcuno esca e pianti la tenda dell’amore accanto a quella dell’odio. Dichiarandosi contro apertamente a tutte le ferocità dell’ora, ovunque si trovino, sotto qualunque nome si celino, in uno sforzo di santità sociale che restituisca un’anima a questo nostro povero mondo che l’ha perduta”.
(don Primo Mazzolari, Lettere, 1937)

GUERRE SENZA FINE

Non c'è molto da commentare: quasi a modo di telegramma questa la situazione.
L’Iran ha minacciato di intervenire, se Israele entrerà nella Striscia di Gaza.
Il governo di Gerusalemme ha contro-minacciato una reazione diretta verso Teheran.
Il Medio Oriente sembra essere sul limite di una guerra che può diventare totale coinvolgendo Libano, Siria, Iraq e Yemen.
Un milione di profughi palestinesi ancora ammassati nei pressi del confine, in attesa di fuggire dalla Striscia.
In questo clima naturalmente passa quasi ignorato, come sempre, il drammatico Angelus di papa Francesco di ieri: “La guerra, ogni guerra che è nel mondo, penso anche alla martoriata Ucraina, è una sconfitta. La guerra sempre è una sconfitta, è una distruzione della fraternità umana, Fratelli fermatevi! Fermatevi!”.

Scrive Massimo Giro, della Comunità di S. Egidio:
In seguito c’è stata come un assuefazione alle ragioni del conflitto, considerato come un mezzo lecito per risolvere le contese. Le parole di papa Francesco ci risvegliano da questa logica: «La guerra – egli scrive in maniera sorprendente – è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male».
In Ucraina la guerra si sta svolgendo come se non ci dovesse essere futuro su quelle terre, come se si dovesse distruggere la possibilità stessa della vita. È una guerra totale e senza fine. A livello globale il conflitto non si ferma più, magari si sposta ma non si arresta.

Uno dei problemi è che con il passare delle generazioni e lo spegnersi dei testimoni, si è riabilitata la guerra come strumento di soluzione delle contese. In Afghanistan, Iraq, Libia, nonostante i risultati negativi di quelle operazioni militari, è avvenuta la rivalutazione della guerra.
È prevalsa un’immagine tecnologica, lontana dalla guerra sporca nelle trincee della Prima guerra mondiale o in Vietnam. Ma ora vediamo che in Ucraina la guerra è molto simile a quelle di una volta, e ci rendiamo conto di dover riacquistare con urgenza il senso della pace.
Il nostro tempo è segnato dal ritorno della guerra in Europa. Avevamo già visto gli orrori della guerra nei Balcani, ma l’aggressione all’Ucraina rappresenta un tragico salto di qualità: una grande guerra che coinvolge una potenza nucleare come la Russia.
Siamo tutti minacciati dall’escalation e siamo piombati in una notte ancora più scura di quella della pandemia: un conflitto cruento e terribile proprio nelle “terre di sangue” – per utilizzare il titolo del libro di Timothy Snyder – in cui fu combattuta la Seconda guerra mondiale. Come siamo giunti in tale situazione? Cosa significa riflettere sul ruolo dell’Europa come terra di pace e prosperità, secondo la promessa che si erano scambiati i leader europei dopo la Seconda guerra mondiale al momento della fondazione del processo che ha portato fino all’Unione?
È come se l’attuale fase declinante della globalizzazione si sia trasformata in una specie di Jurassic Park, dove riemergono dal fondo della storia forze brutali e imprevedibili delle quali si era persa memoria.

Con la grande guerra qualcosa di antico è riemerso alla superficie della storia, rendendola nuovamente tragica. Il “nuovo ordine mondiale” promesso all’inizio degli anni Novanta non si è realizzato e la pace – frutto della interconnessione tra economie – si è dimostrata una chimera.
In questi anni dal punto di vista economico abbiamo visto accrescersi le disuguaglianze: la globalizzazione non ha mantenuto le sue promesse ma ha creato un mondo estremamente competitivo. Dal punto di vista politico le democrazie hanno perso smalto e reputazione: al loro posto si sono andati affermando modelli alternativi, autoritari e iper-liberisti assieme.
Il sogno europeo che doveva proteggerci dal caos globale non ha mantenuto le sue promesse e gli europei si sentono più deboli che in passato. L’Europa democratica si vede minacciata ma anche gli altri continenti reagiscono con difficoltà alla nuova situazione globale creata dalla guerra.
In Asia, che ha vissuto gli effetti benefici della globalizzazione economica divenendo la fabbrica del mondo (in particolare la Cina), si stanno rarefacendo le connessioni commerciali. In Africa c’è una grave crisi alimentare e agricola grave dovuta agli aumenti dei prezzi ma anche alla scarsità dei fertilizzanti e del grano.

In tale situazione instabile si moltiplicano i regimi autoritari e i golpe militari (Guinea Conakry, Mali, Burkina Faso, Niger, Gabon e Ciad) ma anche le guerre civili (con i tigrini in Etiopia e in Sudan), mentre parti del continente sono funestate dall’aggressione jihadista (come avviene nel Sahel o in nord Mozambico), che approfitta dei vuoti di potere”.

Diventa sempre più abissale la distanza tra la logica del mondo e la logica del Vangelo:

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la Terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli
 (Mt 5,3-12)


Riconoscere l'uomo anche nel nemico

di Daniel Barenboim, Pianista e Direttore musicale dell’Opera di Berlino e già Direttore musicale della Scala di Milano, di famiglia ebrea di origine ucraina, naturalizzato israeliano. Tra gli interpreti e i direttori d'orchestra di maggior prestigio a livello internazionale, con la costituzione del West-Eastern Divan Workshop e dell'Orchestra, insieme allo scrittore E. Said, B. ha promosso una modalità altamente internazionale per la formazione musicale dei giovani talenti a partire dai giovani israeliani e arabi. Direttore musicale della Scala di Milano dal 2011, nel 2012 ha pubblicato il saggio La musica è un tutto. Etica ed estetica.

Gli eventi attuali in Israele e a Gaza hanno profondamente scioccato tutti noi. Non c’è giustificazione alcuna per i barbari atti terroristici di Hamas contro i civili, compresi i bambini e i neonati. Dobbiamo prenderne atto, riconoscerlo, e fermarci. Ma il passo successivo è ovviamente la domanda: e adesso? Ci arrendiamo a questa terribile violenza e lasciamo che la nostra ricerca della pace “muoia” o continuiamo a insistere che ci debba e ci possa essere la pace? Sono convinto che dobbiamo continuare, e farlo tenendo presente il più ampio contesto del conflitto. I nostri musicisti del West- Eastern Divan, i nostri studenti dell’Accademia BarenboimSaid, sono quasi tutti direttamente coinvolti. Molti dei musicisti vivono nella regione, e anche gli altri hanno molti legami con la propria patria. Questo rafforza la mia convinzione che ci possa essere una sola soluzione a questo conflitto: sulla base dell’umanesimo, della giustizia e dell’eguaglianza e senza forza armata e occupazione.
Il nostro messaggio di pace deve risuonare più forte che mai. Il pericolo più grande è che tutte le persone che desiderano ardentemente la pace vengano annientate dagli estremisti e dalla violenza. Ma qualunque analisi, qualunque equazione morale che possiamo elaborare, deve avere come base questa comprensione fondamentale: ci sono esseri umani da entrambe le parti. L’umanità è universale e il riconoscimento di questa verità, da entrambe le parti, è l’unica via. La sofferenza di persone innocenti da entrambe le parti è assolutamente insopportabile.

Le immagini dei devastanti attacchi terroristici di Hamas ci spezzano il cuore. E la nostra reazione dimostra chiaramente una cosa: che la volontà di empatizzare con la situazione degli altri è essenziale. Naturalmente, e in particolare in questo momento, bisogna anche consentirci di provare paura, disperazione e rabbia, ma nel momento in cui questo ci porta a negare all’altro la propria umanità, siamo perduti.
Ogni singola persona può fare la differenza e trasmettere qualcosa. È così che si cambiano le cose su piccola scala. Su larga scala, dipende dalla politica. Dobbiamo offrire altre prospettive a coloro che sono attratti dall’estremismo. Dopotutto, la maggior parte delle persone che si dedicano ad ideologie omicide o estremiste è completamente priva di prospettive, e disperata. L’educazione e l’informazione sono altrettanto essenziali, perché ci sono così tante posizioni basate su un’assoluta disinformazione.
Per ribadire con chiarezza: il conflitto israelo-palestinese non è un conflitto politico tra due Stati per i confini, l’acqua, il petrolio o per altre risorse. È un conflitto profondamente umano tra due popoli che hanno conosciuto la sofferenza e la persecuzione. La persecuzione del popolo ebraico nel corso di 20 secoli è culminata nell’ideologia nazista che ha ucciso sei milioni di ebrei. Il popolo ebraico coltivava un sogno: una terra propria, una patria per tutti gli ebrei nell’attuale Palestina. Ma a questo sogno seguiva un presupposto profondamente problematico, perché fondamentalmente falso: una terra senza popolo per un popolo senza terra.
In realtà, la popolazione ebraica in Palestina durante la Prima guerra mondiale era solo il 9%. Il 91% della popolazione non era quindi ebraica, ma palestinese, cresciuta nel corso dei secoli. Il Paese non poteva certo essere definito una “terra senza popolo” e la popolazione palestinese non vedeva alcun motivo per rinunciare alla propria terra. Il conflitto era quindi inevitabile, e dal suo inizio i fronti si sono solo ulteriormente induriti nel corso delle generazioni.

Ne sono convinto: gli israeliani avranno sicurezza quando i palestinesi potranno provare speranza, cioè giustizia. Entrambe le parti devono riconoscere i loro nemici come esseri umani, e cercare di entrare in empatia con il loro punto di vista, il loro dolore e la loro sofferenza. Gli israeliani devono anche accettare che l’occupazione della Palestina è con questo incompatibile. Per la mia comprensione di questo conflitto, che dura da più di 70 anni, l’amicizia con Edward Said è un’esperienza fondamentale. Abbiamo trovato l’uno nell’altro una controparte in grado di portarci più lontano, di aiutarci a vedere più chiaramente i presunti altri, e a comprenderli meglio. Ci siamo riconosciuti e ritrovati nella nostra comune umanità. Per me, il lavoro comune con il West-Eastern Divan, che trova la sua logica continuazione e forse anche il suo culmine nell’Accademia Barenboim-Said, è probabilmente l’attività più importante della mia vita. Nella situazione attuale, ci chiediamo naturalmente quale sia il significato del nostro lavoro congiunto nell’orchestra e nell’accademia. Può sembrare poco, ma il solo fatto che musicisti arabi e israeliani condividano il podio a ogni concerto, e facciano musica insieme, per noi ha un valore immenso. (…). Dobbiamo, vogliamo e continueremo a credere che la musica possa portarci più vicini gli uni agli altri, insieme nella nostra umanità.

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LETTERA DA GERUSALEMME

Come si temeva, la situazione in Terrasanta diventa sempre più grave.
Un conflitto che perdura da oltre 70 anni sembra non trovare altra soluzione che una guerra continua.
La 'guerra a pezzi' indicata da Papa Francesco diviene sempre meno a pezzi e sempre più globale. Ciò che manca è un ordine mondiale.
Scrive il filosofo Cacciari:
Soltanto decisioni che derivino da intese tra grandi potenze possono permettere di pensare a vie d’uscita. Ma proprio il “disordine globale” sembra rendere questa prospettiva nient’altro che una speranza. Qualsiasi nuova road-map, a partire dall’arresto della guerra, può essere oggi realisticamente tracciata soltanto se gli Stati Uniti vorranno in qualche forma riaprire la strategia che portò prima a Camp David e poi alla firma dell’accordo transitorio di Oslo 2 nel 1995. È del tutto evidente che se invece si ritiene qualsiasi accordo ormai impraticabile, non vi è alternativa alla guerra – e a una guerra infinita, a meno di non mirare all’impossibile, e cioè all’annullamento della nazione palestinese [...] ….Gli Stati Uniti sono oggi impegnati nel ridisegnare un Nomos della Terra nel confronto sempre più pericolosamente ravvicinato con imperi in evidente decadenza e altri invece in crescita con potenzialità difficilmente calcolabili. Che una faglia così decisiva come quella che corre tra Israele e Palestina resti aperta, con i conseguenti terremoti che può sempre suscitare in tutto il Medio-oriente, appare contraria ai loro interessi, a ogni linea di Realpolitik. Gli unici soggetti in grado di far riprendere la strada della trattativa sono loro, piaccia o no; la Russia è fuori gioco, la Cina da lontano assiste al moltiplicarsi delle difficoltà dell’Occidente, l’Europa anche assiste, ma per impotenza.
Il grande politologo Raymond Aron rispondeva a chi gli domandava perché non avesse mai fatto politica: «Perché voglio pensare».
Con tutto il cuore dobbiamo augurarci che la leadership politica americana sia oggi in grado di smentirlo
”.

Anche Giovagnoli su Avvenire coglie il legame tra violenza e nuovo ordine mondiale e scrive:
Parlando di Terza guerra mondiale a pezzi Papa Francesco ha da tempo richiamato l’attenzione sulla novità della violenza nel XXI secolo. E dopo l’aggressione di Hamas il cardinale Pietro Parolin ha denunciato con toni accorati la crisi del multilateralismo. La sicurezza di Israele – come quella dell’Ucraina, dell’Armenia, di tanti Paesi africani… – può essere assicurata solo da un nuovo ordine mondiale. Se gli accordi di Oslo del 1993 non hanno portato alla pace è anche perché israeliani e palestinesi sono stati lasciati soli: come tra Russia e Ucraina, l’obiettivo della pace non può essere affidato solo ai due belligeranti”.

Ma per toccare con mano la situazione in Palestina pubblichiamo una lettera di don Morlacchi: collaboratore della parrocchia di Sant’Ippolito a Roma, nel 2018 si è trasferito a Gerusalemme come sacerdote fidei donum della diocesi di Roma presso il Patriarcato latino.
In questi giorni ha inviato alcune lettere agli amici della parrocchia romana con alcune sue riflessioni sulla situazione in Terrasanta.
Giuseppe Rusconi, uno degli gli amici di don Morlacchi, la rende pubblica sul Sito della parrocchia romana.


Da una lettera da Gerusalemme
di don Filippo Morlacchi, scritta il 13 ottobre 2023

Sono a casa, a cento metri scarsi dalla porta di Damasco. Ieri sera mentre cenavo ho sentito un furore di sirene e massicci movimenti di militari e poliziotti. Mi sono affacciato, e ho visto decine di uomini e donne con le armi puntate verso qualunque cosa si muovesse. Ho intuito che c’era stato un attentato nei pressi. E infatti davanti alla porta di Erode – cinquecento metri da casa – un palestinese con una rudimentale arma da fuoco aveva aggredito i poliziotti all’uscita del commissariato locale, ferendone due, prima di essere a sua volta crivellato di colpi. La chiazza del suo sangue, stamattina, è ancora là per terra. Ma temo che quel sangue sia meno di una goccia, rispetto a quello che sta per essere versato, copiosamente, altrove. In risposta al brutale, violento, osceno, inumano assalto di sabato scorso, che ha visto barbaramente trucidati oltre mille innocenti civili ebrei, Israele ha dichiarato una guerra senza limiti ad Hamas. Da alcuni giorni i bombardamenti su Gaza non sono più effettuati “con precisione chirurgica”, cioè cercando di ridurre il “danno collaterale” (la morte dei civili innocenti), ma sono finalizzati – è lo stesso esercito israeliano a dichiararlo – alla distruzione di Hamas, “costi quel che costi”.

Cari fratelli ebrei, mi rivolgo in primo luogo a voi. Ricordatevi la “legge del taglione”, scritta nella Torah, la vostra legge: “occhio per occhio, dente per dente… bruciatura per bruciatura, ferita per ferita” (Es 21,24s). Sì, è vero noi cristiani siamo quelli che “porgono l’altra guancia” (cfr Mt 5,39), e voi no: lo sappiamo. È stato il nostro maestro – era vostro, però! – ad averci insegnato ad andare oltre, a perdonare fino a “settanta volte sette” (cfr Mt 18,21). Ma voi, voi che non accettate l’insegnamento del perdono cristiano, rispettate almeno la legge del taglione: uno a uno, non di più. Non ritornate alla violenza brutale di Lamec: “Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette” (Gen 4,23s). Avete diritto di difendervi, nessuno può negarlo: ma non fatelo in maniera sproporzionata ed eccessiva, sterminando decine di migliaia di innocenti per raggiungere i terroristi nemici. Ricordatevi di Abramo, vostro padre: “Abramo si avvicinò (al Signore) e gli disse: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio…” (Gen 18,23-25). È la Torah, la vostra legge che lo insegna. Ascoltatela! “Ascolta, Israele!...”.

E voi, musulmani, seguaci del Profeta, che pure siete nostri fratelli: perché continuate a praticare la violenza in nome di Dio? Perché molti di voi non vogliono riconoscere il sacrosanto diritto all’esistenza dello Stato di Israele? Perché invece di lottare audacemente con gli strumenti della diplomazia e della ragione per difendere il vostro diritto – altrettanto sacrosanto – ad un’esistenza serena e pacifica in Palestina, vi siete accaniti brutalmente contro vittime innocenti, alimentando la spirale del terrore e dell’orrore? Possibile che l’unico modo di promuovere la vostra causa sia l’attentato, l’omicidio, la violenza cieca, e adesso anche una violenza efferata e deliberatamente rivolta a singole persone innocenti? Così anche una giusta causa viene difesa in modo sbagliato e diventa ingiusta! Perché, delle vostre Sacre Scritture, ritenete solo i versetti che inneggiano alla guerra, e non quelli che esprimono il desiderio di pace, che pure sono presenti nel Corano? E soprattutto: perché non ascoltate la voce di tanti di voi, la gente semplice del popolo che, pur soffrendo, non vuole odio e vendetta, ma solo pace e giustizia? Questi sono i pensieri che mi agitano la mente e il cuore (…)

Come Abramo, “saldo nella speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18) spero che il terrore degli abitanti di Gaza, impotenti dinanzi alle bombe e ai carrarmati, non diventi presto il flebile lamento dei superstiti, se ce ne saranno. Signore, pietà. Già troppi fratelli ebrei hanno sperimentato l’insensata e tragica routine della morte: violenza e rumore di armi; poi grida e terrore; poi silenzio agghiacciante; poi gemiti e pianto disperato. E così pure tanti, troppi fratelli arabi, a Gaza e altrove: esplosioni, urla, silenzio e pianto. La spirale della morte è identica ovunque, e va fermata. Basta. La gente vuole solo vivere in pace. Domine, dona nobis pacem”.

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

Da queste pagine abbiamo seguito il drammatico evolversi della guerra tra Russia e Ucraina, guerra che continua anche se i riflettori ormai raccontano di un'altra guerra, non meno tragica, non meno sanguinaria.
Nella guerra, si sa, non muoiono solo i militari; soprattutto nelle guerre moderne sempre più alto è stato il numero di civili uccisi: una constatazione che già don Milani aveva evidenziato negli anni 50 del '900 nella sua “Lettera ad una professoressa”.
E la morte dei civili irrimediabilmente è la morte innanzitutto di donne e bambini.
Tanti i civili morti nella guerra russo-ucraina e tanti i civili morti anche adesso nel conflitto tra Hamas e Israele.
Come scrive Rizzo,
'...si può guardare la storia da tanti punti di vista: economico, egemonico-militare, geopolitico o innovativo-tecnologico. Si può provare a pensarla a partire dalle civiltà, dalle grandi idee o dalle ideologie oppure dai grandi della storia. C’è però, in tutte queste prospettive, un punto di vista o meglio uno sguardo che viene sempre tralasciato, quello dell’innocente che soffre'.


Nella sofferenza innocente una pietra d’inciampo per tutti

Vincenzo Rizzo, 10/2023

Si può guardare la storia da tanti punti di vista: economico, egemonico-militare, geopolitico o innovativo-tecnologico. Si può provare a pensarla a partire dalle civiltà, dalle grandi idee o dalle ideologie oppure dai grandi della storia. C’è però, in tutte queste prospettive, un punto di vista o meglio uno sguardo che viene sempre tralasciato, quello dell’innocente che soffre. Si tratta di una presenza diversa, che inquieta e interroga. Essa viene rimossa e non considerata da chi decide per tutti. Costringerebbe a rivedere giudizi sommari e manichei o visioni caratterizzate da cecità morale.
Le anime grandi, però, nel tempo, hanno posto con forza la fragile evidenza di uno sguardo inerme. Anscombe, Dostoevskij, Duccio di Buoninsegna, Giotto, Grossman, Lévinas, Lewis, Péguy e Prudenzio hanno visto nella sofferenza innocente una pietra d’inciampo per tutti. La sofferenza di un bambino innocente, infatti, giudica tutto, tutti e il nostro io. La presenza di un volto senza colpa ci rimanda alla profondità di noi stessi e al nostro essere stati bambini. La sua vita indifesa ci interroga sulla liceità delle nostre scelte e delle nostre azioni.
Eppure quante volte non si è voluta considerare la sofferenza dell’innocente? Si pensi all’embargo americano all’Iraq sostenuto da Madeleine Albright con i suoi terribili risultati su tanti innocenti o ai missili intelligenti con i loro “effetti collaterali”, cioè la morte di civili senza colpa. E ancora oggi le devastazioni e i ripetuti crimini commessi dai russi in Ucraina. E gli attacchi volti a denazificare innocenti che neanche sanno cos’è il nazismo. Ancora, recentemente, come un déjà-vu il ripetersi di azioni criminali contro armeni inermi. Oppure il perdurante susseguirsi delle stragi di bambini yemeniti con bombardamenti contro ospedali avvenuti nella generale indifferenza.
La storia non insegna nulla, insomma, perché sembra un Minotauro cieco che inghiotte l’inerme. Poi, l’irruzione nel nostro tempo dell’abominio turpe e blasfemo. La codardia maligna diventata spettacolo atroce. I terroristi di Hamas assassini di civili e decapitatori di bambini. Rapitori di piccoli sottratti ai giochi e diventati ostaggi della bestia che filma le prede nella sua tana. Un crimine enorme, mai visto prima, volto proprio a colpire degli innocenti e a offendere il cuore stesso del nostro essere. Ora, la reazione di Israele con bombardamenti continui che colpiscono i miliziani annidati nei loro covi, posti vicini a case di civili inermi. E l’avvicinarsi sempre più cupo di una grave catastrofe umanitaria. Una guerra che fa male all’umanità di ogni uomo ed esige la salvezza di chi non ha nessuna colpa.
Il mare di sofferenza innocente fa venire in mente una serie di personalità che volevano seguire una strada diversa: Sadat, Rabin o altri uomini di pace trucidati o Zeev Sternhell colpito da un attentato o Bruno Hussar trattato da ingenuo utopista.
La possibilità di una storia diversa, fatta di coesistenza e di rispetto dell’innocente, venuta meno.
E ora una terza guerra mondiale a pezzetti in cui i pezzetti si avvicinano minacciosamente sempre più, per iniziare a costruire un mosaico di fuoco. Eppure, se i popoli fossero chiamati a decidere voterebbero per la libertà e non per la tirannia, sceglierebbero la pace e non la guerra. I semplici, infatti, sentono nel loro cuore la sofferenza dell’innocente, anche quando non parla la propria lingua o non ha la stessa religione. Coloro che non hanno potere, infatti, non calcolano metri di terra in più da strappare e non desiderano armi più potenti. Vedono l’innocente che soffre, prima di tutto e prima di tutti.
I semplici possono essere anche dei tifosi, come quelli del Persepolis che, in uno stadio iraniano, hanno fischiato le scelte assassine e inveito contro Hamas. Ultras che sanno che un bambino non si colpisce mai. Quei giovani tifosi ci fanno fare memoria di un fatto: c’è ancora chi per la pace e per la libertà rischia insieme.

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”


Il Male assoluto

Il giorno successivo al feroce assalto di Hamas i soldati israeliani hanno portato ieri i giornalisti nel kibbutz di Kfar Azza, al confine con la Striscia di Gaza dove hanno mostrato i resti di una mattanza spaventosa: gli assalitori di Hamas hanno assassinato duecento persone, di cui una quarantina erano bambini. Molti neonati. In diversi sono stati decapitati. Un dettaglio raccapricciante che ricorda lo stile terroristico usato dai fondamentalisti dell’Isis. Una “strage degli innocenti” come titolano molti giornali italiani oggi compiuta da un Erode collettivo. Nelle guerre sono sempre i bambini (e le donne) a pagare il prezzo più alto e più insensato. Ma qui la strage dei bambini ha il sapore insopportabile dell’odio razziale e religioso. Ha il sapore del Male assoluto.
C’è chi ha osservato che perfino il sanguinario tiranno comunista della Cambogia , Pol Pot, che pure aveva programmato il genocidio sistematico del suo stesso popolo cambogiano, rispettava i bambini.

L'orrore e le domande
Di fronte a tanta efferata violenza tante le domande che sorgono:
L'animo umano ha profondità abissali e insondabili che possono essere abitate dal demone di un’alienazione disumana, oscura, vertiginosa oppure dall’ eroismo e dalla santità. Cosa c’è al di là dell’odio? Cosa c’è oltre i confini dell’umano? Basta l’odio per concepire che si possa decapitare un bambino? Oppure c’è bisogno di spingersi oltre? Fin dove?
Nel linguaggio comune ricorriamo spesso alla dicotomia “amore-odio” perché riconosciamo come ambedue – dunque anche l’odio – siano sentimenti che ci appartengono, cioè rientrano nella sfera di ciò che è umanamente possibile.
Ma cosa c’è al di là dell’odio? Forse l’ “a-patia” del carnefice, il vuoto assoluto, il deserto dei sentimenti, un ottundimento della coscienza morale che evoca il nulla, la negazione dell’ essere.
Pare che il nazista Himmler abbia cominciato a pensare alle camere a gas quando si accorse che, nei reparti della Werhrmacht incaricati delle fucilazioni di massa nei Paesi dell’Est, montava una nausea morale che i soldati non erano più in grado di reggere ed avrebbe potuto trasformarsi in rivolta.
Le camere a gas non solo consentivano di attuare omicidi di massa, ma anche di separare il gesto criminale dalla vista e dalla coscienza dei suoi effetti. Non più uomini, donne, bambini allineati sul ciglio di una fossa comune che si afflosciavano come pupazzi e vi cadevano dentro. Non più quegli occhi che rischiavi di incrociare nel momento stesso in cui ti apprestavi a premere il grilletto. Ma un’ operazione a suo modo asettica come versare, dal tetto delle camere, flaconi di Zyklon-B nei diffusori delle docce.
Toccava ad altri sgombrare i cadaveri. Una organizzazione del crimine, una divisione del lavoro studiata freddamente e diretta ad ottenere quella sofisticata e radicale alienazione che letteralmente trasformava gli uomini in automi, in “oggetti” privati della loro umanità, alla stregua di apparati meccanici da cui era stata divelta la coscienza.
Ci siamo un’altra volta? Quello che auguriamo al popolo d’ Israele è che dal dolore immane che gli è stata inflitto – nel secolo scorso in modo del tutto particolare ed oggi ancora – sappia trarre un respiro di umanità che gli consenta di commisurare alla giustizia che rivendica, quel sentimento di misericordia che la stessa esperienza della sofferenza vissuta in prima persona insegna e suggerisce
”.

Tutto sembra parlare di morte
Il Cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei Latini, ha invitato a nome di tutti gli Ordinari di Terra Santa ad una giornata di digiuno e di preghiera per la pace e la riconciliazione per martedì 17 ottobre. Il Patriarca ha auspicato l’organizzazione di momenti di preghiera con adorazione eucaristica e con il rosario alla Vergine Santissima.
È questo il modo – ha detto il Cardinale – in cui ci ritroviamo tutti riuniti, nonostante tutto, e incontraci nella preghiera corale, per consegnare a Dio Padre la nostra sete di pace, di giustizia e di riconciliazione. Il dolore e lo sgomento per quanto sta accadendo sono grandi. Ancora una volta ci ritroviamo nel mezzo di una crisi politica e militare. Siamo stati improvvisamente catapultati in un mare di violenza inaudita. L’odio, che purtroppo già sperimentiamo da troppo tempo, aumenterà ancora di più, e la spirale di violenza che ne consegue e creerà altra distruzione. Tutto sembra parlare di morte”.
In questo momento di dolore e di sgomento – ha concluso il Patriarca Pizzaballa – non vogliamo restare inermi. E non possiamo lasciare che la morte e i suoi pungiglioni siano la sola parola da udire”.

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

La guerra, il rischio nucleare e la profezia della pace


L’atomica e il segreto della materia
Un film appena uscito nelle sale cinematografiche ci offe l'opportunità di parlare del rischio atomico o delle conseguenze di un conflitto nucleare.
E' il film 'Oppenheimer' del regista Christopher Nolan, film storico-biografico sul fisico statunitense Oppenheimer lo scienziato che ha creato la bomba atomica poi sganciata su Hiroshima e Nagasaki.
Il film ha il merito di sollecitare temi su cui raramente la riflessione contemporanea si interroga. Gli stessi brucianti interrogativi che hanno tormentato in verità gli ultimi decenni di vita del fisico che con la sua scoperta ha inaugurato la post-modernità ovvero quel nuovo tempo in cui l'uomo acquisisce “la consapevolezza che le promesse della tecnica moderna si sono trasformate in minaccia, e che questa si è indissolubilmente congiunta a quelle” (Hans Jonas).
Riporto alcune parti di una interessante recensione al film fatta da Enrico Palma dalla rivista Il Pensiero Storico:
Oppenheimer segue questo filone di ricerca cinematografica almeno nella prima parte, ma unendo la scienza alla ricostruzione storica ha la pretesa di essere un film politico e di riflessione generale sulla condizione dell’umano. Lo spettatore del XXI secolo, che per ovvi motivi generazionali sa della seconda guerra mondiale, del progetto Manhattan, della corsa agli armamenti e della Guerra fredda dai libri di storia e dai documentari, cosa trae dalla visione del film? Può essere, in qualche modo, una brillante retrospettiva che, spiegando le modalità di costruzione della bomba e il caso politico che ha costituito il suo principale artefice, può dirci molto del mondo del futuro che gli scienziati del passato hanno immaginato e che nel frattempo è divenuto il mondo di adesso, quello in cui viviamo.
Infatti, quando il progetto della bomba era già stato ultimato in tutte le sue parti e a un passo dal test che avrebbe dovuto confermare o negare l’enorme lavoro svolto per la sua realizzazione, ascoltando i pareri discordi di alcuni fisici coinvolti nel Progetto sull’utilizzo o no dell’ordigno dopo la resa della Germania nazista, il vero avversario contro il quale si combatteva a distanza e nei laboratori, Oppenheimer afferma che il compito dei fisici teorici è di immaginare il mondo del futuro, anche se questo mondo avrebbe suscitato orrore, giacché usare la bomba e mostrare pubblicamente il suo potere avrebbero determinato a suo parere la fine di tutte le guerre e una pace definitiva. Dopo aver visto gli effetti della detonazione di un ordigno nucleare, a giudizio di Oppenheimer l’umanità, conosciuta la concreta possibilità della sua auto-distruzione, non ne avrebbe più fatto ricorso. Proseguire con il programma atomico non sarebbe più servito. Los Alamos, pur con le sue vittime, sarebbe stata una benedizione.
Se ci basiamo su come sono andate le cose dopo la seconda guerra mondiale, su un eventuale conflitto nucleare dall’esito totalmente distruttivo per il pianeta, le previsioni di Oppenheimer sono state rispettate. A parte i test e l’enorme tensione tra le due maggiori forze belliche del pianeta, Usa e Urss, 
i due scorpioni nella stessa bottiglia pronti ad attaccare, la pace è stata realmente tale. Lo scenario distruttivo paventato da Oppenheimer è stato scongiurato, ma non le guerre, che imperversano oggi più che mai.
È un film sulla scienza, sul desiderio prometeico di giungere ai confini estremi della conoscenza, come recita la frase che campeggia all’inizio del film tra le fiamme scaturite dalla detonazione dell’ordigno e che ricorda il titano del mito che aveva sottratto il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini. È lo stesso Bohr, aiutato a fuggire dagli inglesi e giunto a Los Alamos, a dire a Oppenheimer che è un nuovo Prometeo, ed è ancora lo stesso Oppenheimer a dire, nella riunione preventiva con il ministro della guerra statunitense, che l’esplosione della bomba sarebbe stata per il mondo la rivelazione di un potere divino. Ed è sempre Oppenheimer, in una frase celebre che si ricorda tuttora su di lui tratta dalla sapienza orientale, a dire di sé di essere divenuto con la bomba Morte, distruttore di mondi
.
La ricerca atomica, infatti, ha tutto l’aspetto di un’indagine nel proibito, nell’invisibile, nell’enigma più recondito della materia laddove essa rivela la sua essenza, si trasforma in energia: rubare al regno dell’ignoto, alla divinità, il suo segreto per darlo agli uomini, ma prima ancora mostrarlo in tutto il suo splendore. È tale splendore che vedono Oppenheimer e il resto dei collaboratori al progetto, nella scena sicuramente più intensa, vibrante, adrenalinica e meglio riuscita del film, la superba sequenza del Trinity Test, la prima volta nella storia in cui l’energia segreta della materia veniva esibita nel suo terribile fulgore. Un’esperienza sublime, che giustifica gli sforzi e l’immane impiego di risorse.
Eppure, come sottolinea la vicenda di Prometeo, tutto questo richiede un costo da pagare. È un 
topos della cultura occidentale quello di giungere al punto più estremo per poi pagarne le conseguenze, inoltrarsi nel proibito, come l’Ulisse di Dante, e infine essere puniti per aver varcato porte che non si potevano superare, un atto di hybris contro la finitudine che ci costituisce, l’aver ottenuto qualcosa rispetto al quale non tutti avranno la saggezza per poterne disporre: è a questi che va il pensiero di Bohr, di Einstein, di Szilárd e per ultimo di Oppenheimer.
[…] Oppenheimer, da film prometeico sul profeta della bomba atomica, si tramuta da questo punto in avanti in un’esibizione della banale e scontata bassezza umana, anzi troppo umana, dalla vendetta dell’ammiraglio Strauss su Oppenheimer alla stupida cecità degli Stati Uniti di rincorrere fantasmi inesistenti, come lo è del resto il passato politicamente scomodo del fisico in merito alle sue frequentazioni comuniste.
...Affidandosi al colloquio tra Einstein e Oppenheimer all’inizio del film, il contenuto del quale si conosce soltanto nella conclusione, il padre dell’atomica potrebbe essere stato il capro espiatorio per una colpa collettiva che l’umanità sentiva di dover scontare per la scoperta a cui era giunta, sia sprigionare l’energia della materia fin nelle sue strutture più elementari sia la sua applicazione incondizionata come arma di distruzione di massa, che da quel momento in avanti minaccerà l’intero pianeta e la vita su di esso. Cercando allora di dare una risposta alla domanda sul senso di un film di questo genere nel secolo attuale, serve sicuramente per comprendere cosa è avvenuto, quali sono i rischi dell’oggi che si continuano comunque a correre, ma soprattutto, come affermava Céline, che la guerra non è una condizione passeggera nell’animo dell’umano, ma qualcosa che alberga costantemente nel suo cuore.

In tal senso, la figura di Oppenheimer rappresenta le due facce del paradosso, da una parte il fuoco della scoperta e dall’altra la catena del supplizio. E se è greca la metafisica della vicenda atomica, della Guerra mondiale e delle conseguenze nei decenni successivi, deve essere greca allo stesso modo la lezione che se ne deve trarre, in questa come in innumerevoli altre occasioni: il senso della misura e la saggezza nel riconoscere il limite non appena si senta, come Oppenheimer, di averlo superato”.

Era proprio necessario sganciare quella bomba?
Le domande suscitate dalla trama cinematografica interrogano l'uomo che oggi continuamente tenta di superare il confine misterioso della potenza nascosta nella materia: Oppenheimer come Ulisse, Oppenheimer che varca il confine che separa l'essere e il nulla, Oppenheimer nuovo Prometeo.
Il film ha anche il merito di aver suscitato un dibattito circa la liceità dell'arma nucleare: era proprio necessario ricorrerere alla bomba atomica per fermare una guerra che pareva ormai vinta?
E' la domanda che si è posto lo storico G. Foresti :
È oggettivo che lo sgancio delle due atomiche non avrebbe cambiato l’esito della guerra: il Giappone aveva già dato segni, anche politici, di resa, bastava continuare la negoziazione. Lo sgancio degli ordigni è stato un genocidio, non è una mia opinione, è la realtà. Si poteva benissimo evitare”.
Lo storico A. Leoni smentisce questa versione dei fatti; non vi fu volontà di arrendersi da parte del Giappone e occorreva con ogni mezzo porre fine al conflitto:
La bomba atomica, come ognuno ben sa, era stata costruita dagli Usa a tempo di record per anticipare i nazisti e fu usata contro i giapponesi. Nel luglio del 1945 gran parte delle città giapponesi era quasi ridotto in cenere e va ricordato che durante la guerra morirono almeno 900mila civili. Premetto che le cifre che riporterò sono molto differenti tra le diverse fonti ma nel solo bombardamento di Tokyo del 9 e 10 marzo 1945 morirono 197mila persone. La ragione di tale incertezza sta nella morte orribile che tanti giapponesi trovarono a causa delle tempeste di fuoco provocate dai bombardamenti. Che il Giappone desse segnali di resa è pur vero, ma erano solo segnali: e infatti, a fronte dell’ultimatum di Potsdam del 27 luglio, la risposta giapponese fu così ambigua da risultare negativa”.
Il ricorso all'arma nucleare, per A. Leoni, fu dunque necessario e inevitabile.
Le logiche della guerra richiedono anche questo calcolo utilitaristico, economico: dati alla mano, senza la bomba atomica il numero delle vittime sarebbe stato molto più alto.
Va detto che, senza la bomba atomica, due sarebbero state le strategie percorribili da parte americana: prendere il Giappone per fame spargendo defolianti oppure procedere con le operazioni Olympic per la conquista della grande isola di Kyushu e Coronet per la conquista dell’isola di Honshu. Era stato calcolato che le due operazioni avrebbero comportato la perdita, tra morti e feriti, di mezzo milione di soldati alleati. Ma il dato più eclatante sarebbe stato l’olocausto di milioni e milioni di giapponesi. Quello sì, sarebbe stato un “genocidio”, termine che oggi viene impropriamente usato, in Ucraina, in Russia e in tutto il mondo, al posto del più corretto “crimine di guerra”.
Ma la precisa e puntuale cronaca di A. Leoni si sofferma anche su un ultimo dettaglio:
A Hiroshima morirono 200mila persone sia il 6 agosto che nei giorni successivi. La sera dell’8 agosto un aereo bombardiere B-29 decollava verso Kyushu per sganciare la seconda bomba atomica: obbiettivo Kokura. Il mattino del 9 l’aereo era sulla città, ma il pilota si accorse che una grande nuvola la proteggeva e impediva il bombardamento a vista. Bersagliato dalla contraerea, il pilota fece un rapido calcolo sul carburante disponibile e puntò su Nagasaki. La popolazione si nascose nei rifugi e parte dell’onda di fuoco fu schermata dalla montagna che proteggeva la città. I morti furono 40mila, compresi i deceduti negli anni successivi.
Il B-29, finito il carburante, fece un atterraggio di fortuna a Okinawa.

L’imperatore giapponese Hirohito si assunse il compito di annunciare la resa la sera del 14 agosto.
Questi sono i fatti. Inferirne una polemica antiamericana è legittimo quanto discutibile. 
Andrej Sacharov, l’Oppenheimer russo, espresse gli stessi dubbi del suo collega americano e fu condannato per decenni agli arresti domiciliari. Oppenheimer, dopo molte traversie, fu decorato da John Fitzgerald Kennedy. A voi trovare le differenze”.

La guerra che sempre alberga nell'animo umano
Nel dibattito riemerge il dilemma che attraversa anche oggi le contrapposte interpretazioni della guerra tra Russia e Ucraina: difendere la libertà e la democrazia dell'Occidente dai totalitarismi di ogni colore.
Noi tutti siamo eredi e beneficiari di questa decisione: noi tutti godiamo di una democrazia e di una libertà pagata a prezzi altissimi.
E la guerra, ogni guerra, anche se non nicleare ma semplicemente tradizionale mette sulla bilancia il numero 'economico' dei morti che conviene opportunisticamente accetare per evitare vittime maggiori o il numero 'economico' dei morti che è necessario accettare per difendere le proprie libertà e i propri ideali.
Appunto, come affermava Céline:
la guerra non è una condizione passeggera nell’animo dell’umano, ma qualcosa che alberga costantemente nel suo cuore”.
Questa è la storia, questo è l'uomo!

Ma le testate nucleari oggi si sono ampliamente moltiplicate a dismisura: oggi, a differenza del 1945, la possibilità di una catastrofe nucleare è più reale e concreta.
Scrive il filosofo H. Jonas:
“....da quanto detto risulta che la totalità degli interessi messi in gioco nella scommessa del progresso tecnologico acquista un senso incomparabilmente più ampio di ciò che altrimenti è in gioco nelle decisioni umane. Un capo politico, anche quando nell'ora fatale rischia l'intera esistenza della sua tribù, della sua città, della sua nazione, sa che comunque dopo la loro eventuale distruzione continueranno a esistere sulla terra una umanità e un mondo della vita. […] Ma neppure per salvare la propria nazione l'uomo di Stato ha il diritto di impiegare mezzi che possano distruggere l'umanità. […] Infatti esiste un incondizionato dovere dell'umanità ad esserci, che non va confuso con il dovere condizionato di esistere di ogni singolo”.
Sulla linea di pensiero di Jonas si pone anche il filosofo Günther Anders:
...con la costruzione della bomba atomica l’umanità ha fatto un salto nell’assoluto, facendosi onnipotente come Dio, seppur in forma negativa: al posto del potere della 'creatio ex nihilo', a noi ora è data la 'potestas annihilationis', la facoltà di ridurre tutto a niente e per di più senza possibilità di ritorno.
Il salto è irrevocabile. Nel 1945, insomma, tutto è cambiato per sempre: non perché abbiamo sganciato la bomba, ma perché abbiamo definitivamente stabilito che possediamo la ricetta per fabbricarla
”.

La profezia della pace
Dunque, mai come oggi invocare la pace diventa una 'profezia' necessaria.
E come le profezie bibliche, anche questa profezia è inascoltata.
Le parole del Vescovo di Milano monsignor Mario Delpini, a conclusione della Marcia per la pace di pochi giorni fa, risuonano come un monito inconfutabile:
Non possiamo nascondere il sospetto di essere insignificanti, noi vogliamo la pace, siamo contro la guerra. Ma chi ci ascolta? Non ci ascolta l’aggressore, non ci ascolta chi aggredisce il Paese vicino. Non ci ascolta l’aggredito perché deve difendersi, non ci ascoltano i Capi di Stato perché non trovano una via in cui la diplomazia superi questa situazione insostenibile. Non ci ascolta chi vende armi e fa affari. Chi ci ascolta? Siamo desolati per questo sospetto di essere irrilevanti.
Ringrazio chi è qui, a dire che ci vuole la pace. Ma chi ci ascolta?
”.
E qui la profezia annuncia la necessità della conversione, della metànoia, del cambio di pensiero, profezia come Apocalisse, rivelazione del progetto di Dio per l'uomo: ma qui rimando il lettore all'Apocalisse nel deserto (pubblicato in Teologia-2)

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

Ogni nostro scritto qui pubblicato e relativo alla guerra in corso tra Russia e Ucraina è sempre preceduto dalle parole: “...la guerra è un momento di domande scomode e di risposte difficili”.
Don A. Fumagalli, in un denso articolo pubblicato dalla Rivista del Clero Italiano, cerca di riassumere la complessa serie di interrogativi etici che la guerra inevitabilmente pone; lo fa presentando una dettagliata e preziosa disamina dei criteri etici che la Dottrina sociale della Chiesa propone al discernimento morale dei credenti.
Tenendo sullo sfondo la unanime e ferma condanna della guerra da parte di tutto il Magistero contemporaneo della Chiesa, vengono affrontate le situazioni particolari – la legittima difesa, l’ingerenza umanitaria –, e anche le situazioni che raccomandano forme di alternativa alla guerra – disarmo, sanzioni, nonviolenza – fino a valutare le auspicabili strategie volte a eliminare in radice le cause che originano i conflitti, soprattutto situazioni strutturali di povertà, sfruttamento e ingiustizia.
Conclude poi rivolgendo un accorato invito ai credenti:
A fronte di una guerra purtroppo in corso, i cristiani possono essere in dubbio circa il modo in cui ricercare la pace, se ricorrendo alla difesa armata o alla difesa nonviolenta, e giungere a un diverso esito del discernimento. Invece che screditarsi a vicenda, sarà opportuno che si mantengano in dialogo così da arricchirsi e correggersi vicendevolmente nelle proprie valutazioni”.


Il bene della pace e il male della guerra
L’insegnamento attuale della Chiesa cattolica

Aristide Fumagalli, La Rivista del Clero Italiano, giugno 2023

L’insegnamento della Chiesa cattolica trova la sua più uffi ciale e autorevole espressione nel Magistero del papa e dei vescovi, i quali, attingendo al 'depositum fidei', attestato nella Scrittura e dalla Tradizione, propongono principi di riferimento, criteri di giudizio e norme di comportamento per il discernimento dell’agire cristiano nelle variegate circostanze dell’umano vivere. Il discernimento morale non si risolve nei pronunciamenti del Magistero, chiamato a formare le coscienze e non a sostituirle. Nella formazione della coscienza morale, l’insegnamento magisteriale è tuttavia, per chi appartiene alla Chiesa cattolica, un riferimento imprescindibile.

Il criterio fondamentale
Il criterio fondamentale che nell’attualità storica dell’incipiente terzo millennio dell’era cristiana viene proposto a riguardo della convivenza umana distingue nettamente il grande bene della pace e il grande male della guerra. La qualificazione della pace come grande bene e conseguentemente della guerra come grande male è adeguatamente compresa per riferimento alla concezione biblica della pace.

Il grande bene della pace
«Nella Rivelazione biblica, la pace è molto più della semplice assenza di guerra: essa rappresenta la pienezza della vita(cfr. Ml2,5)». La pienezza di vita della pace biblica (nella lingua ebraica shalom), «lungi dall’essere una costruzione umana, è un sommo dono divino offerto a tutti gli uomini»
La pienezza di vita divina è, secondo la Rivelazione cristiana, donata agli uomini in Gesù Cristo, il quale sigilla il suo testamento spirituale dicendo: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv14,27). Donando la sua pace, Cristo consente agli uomini di superare le divisioni conflittuali e di perseguire la pacificazione comunionale, così come si legge nella lettera agli Efesini a riguardo della riconciliazione tra i giudei e i pagani: «Egli (Cristo) infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne» (Ef2,14).
La pace di Cristo è donata agli uomini affinché l’accolgano e la corrispondano. Il dono divino della pace suscita e richiede la responsabilità umana della pace, la quale «non è semplicemente assenza di guerra e neppure uno stabile equilibrio tra forze avversarie, ma si fonda su una corretta concezione della persona umana e richiede l’edificazione di un ordine secondo giustizia e carità»

Il grande male della guerra
Al grande bene della pace, pienezza di vita, si contrappone il grande male della guerra, la cui la violenza non costituisce mai una risposta giusta. La Chiesa proclama, con la convinzione della sua fede in Cristo e con la consapevolezza della sua missione, «che la violenza è male, che la violenza come soluzione ai problemi è inaccettabile, che la violenza è  indegna dell’uomo. La violenza è una menzogna, poiché è contraria alla verità della nostra fede, alla verità della nostra umanità».
Inequivocabile e insistita è la condanna della guerra da parte del Magistero contemporaneo della Chiesa. Basti in questa sede richiamare qualche icastica espressione dei pontefici.
La guerra, definita da Leone XIII un «flagello», quando scoppia diventa, secondo le parole pronunciate da Benedetto XV a riguardo del primo conflitto mondiale, un’«inutile strage».
«Nulla è perduto con la pace – afferma Pio XII –. Tutto può essere perduto con la guerra».
La violenza distruttiva della guerra in epoca contemporanea è tale che – osserva Giovanni XXIII – «riesce quasi impossibile pensare (alienum est a ratione) che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia».
«Non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità!» è il grido di Paolo VI nel suo memorabile discorso rivolto all’Organizzazione delle Nazioni Unite. Secondo Giovanni Paolo II, la guerra è «il fallimento di ogni autentico umanesimo», «è sempre una sconfitta dell’umanità».
Osserva infatti il suo successore, Benedetto XVI, che «la guerra con il suo strascico di lutti e di distruzioni è da sempre giustamente considerata una calamità che contrasta con il progetto di Dio, il quale ha creato tutto per l’esistenza e, in particolare, vuole fare del genere umano una famiglia».
A sigillo dell’insegnamento pontificio contemporaneo circa il grande male della guerra valgano le più recenti parole di Francesco:
La guerra non è la soluzione, la guerra è una pazzia, la guerra è un mostro, la guerra è un cancro che si autoalimenta fagocitando tutto! Di più, la guerra è un sacrilegio, che fa scempio di ciò che è più prezioso sulla nostra terra, la vita umana, l’innocenza dei più piccoli, la bellezza del creato. Sì, la guerra è un sacrilegio”.
L’accresciuta consapevolezza del grande bene della pace, nonché del grande male della guerra, che in epoca contemporanea ha raggiunto potenzialità distruttive planetarie, ha indotto la Chiesa ad abbandonare la dottrina tradizionale della cosiddetta «guerra giusta». Non esiste una guerra giusta, ma semmai una giusta difesa dalla guerra.
La considerazione del grande male della guerra nell’ottica del grande bene della pace può solo essere quella di contrastarla, al minimo limitandone la violenza, al meglio creando alternative. In questa direzione orienta con decisione il Magistero della Chiesa riunito nel Concilio Vaticano II, che insieme alla condanna dell’«inumanità della guerra» afferma l’obbligo di «considerare l’argomento della guerra con mentalità completamente nuova».

La limitazione della guerra
La giusta difesa dalla guerra rientra più tradizionalmente nella dottrina della «legittima difesa» e più recentemente nell’insegnamento sull’«ingerenza umanitaria».

La legittima difesa
La Chiesa ha sempre riconosciuto il diritto alla legittima difesa, vincolandolo, tuttavia, a determinate condizioni. A tale riguardo, il card. Martini, nell’illuminante Discorso in occasione della solennità di S. Ambrogio del 2001, a pochi mesi dall’attentato terroristico dell’11 settembre alle torri gemelle di New York, dichiarava:
È chiaro che il diritto di legittima difesa non si può negare a nessuno, neppure in nome di un principio evangelico. Ma occorre una continua vigilanza e un costante dominio su di sé e delle proprie passioni individuali e collettive per far sì che nella necessaria azione di prevenzione e di giustizia non si insinui la voluttà della rivalsa e la dismisura della vendetta”.
Il diritto condizionato alla legittima difesa è stato recentemente richiamato
a proposito della guerra in Ucraina dal Segretario di Stato del Vaticano, card. Pietro Parolin:
L’uso delle armi non è mai auspicabile, perché comporta sempre l’altissimo rischio di togliere la vita alle persone o di causare gravi ferite e terribili danni materiali. Tuttavia, il diritto a difendere la propria vita, il proprio popolo e la propria patria comporta talvolta anche il triste ricorso alle armi. Allo stesso tempo, è necessario che entrambe le parti s’astengano dall’uso di armi proibite e che rispettino pienamente il diritto internazionale umanitario per proteggere i civili e i feriti”.
D’altra parte, mentre l’assistenza militare all’Ucraina potrebbe essere comprensibile, la ricerca di una soluzione basata sul dialogo, che metta a tacere le armi ed eviti l’escalation nucleare, rimane una priorità.
Lo stesso papa Francesco, nella conferenza stampa sul volo aereo di ritorno dal viaggio apostolico in Kazakistan (15 settembre 2022), ha così risposto alla domanda di un giornalista che gli chiedeva se in questo momento bisogna dare armi all’Ucraina:
Questa è una decisione politica, che può essere morale, moralmente accettata, se si fa secondo le condizioni di moralità, che sono tante e poi possiamo parlarne. Ma può essere immorale se si fa con l’intenzione di provocare più guerra o di vendere le armi o di scartare quelle armi che a me non servono più… La motivazione è quella che in gran parte qualifica la moralità di questo atto. Difendersi è non solo lecito, ma anche  una espressione di amore alla Patria. Chi non si difende, chi non difende qualcosa, non la ama, invece chi difende, ama”.

La tradizionale dottrina della legittima difesa, contro ogni suo abuso, stabilisce «rigorose condizioni» che devono ricorrere contemporaneamente.

La prima condizione riguarda l’ingiusta aggressione, esigendo che «il  danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo». Questa condizione esclude la cosiddetta «guerra preventiva», che anticipa l’attacco dell’aggressore, anche solo sulla base di sospetti. L’eventuale deroga a questa condizione porrebbe «gravi interrogativi sotto il profilo morale e giuridico» ed esigerebbe comunque «una decisione dei competenti organismi», che «sulla base di rigorosi accertamenti e di fondate motivazioni» «identificassero» «determinate situazioni come una minaccia alla pace e autorizzando un’ingerenza nella sfera del dominio riservato di uno Stato»

La seconda condizione consiste nell’extrema ratio contro l’ingiusta aggressione, nel fatto cioè «che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano  rivelati impraticabili o inefficaci».

La terza condizione riguarda l’esito che il ricorso alla difesa può sortire, esigendo «che ci siano fondate condizioni di successo».
A questo riguardo è opportuno precisare che il successo sperabile è relativo al respingere l’attacco, non al ricercare la vendetta.

La quarta condizione richiama alla proporzionalità, esigendo «che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione». Questa condizione esclude ogni ricorso alle «armi di distruzione di massa – biologiche, chimiche e nucleari».
La proporzionalità nella difesa distingue tra «atti di guerra» e «crimini di guerra», quest’ultimi sempre vietati, come pure discrimina tra
«combattenti» coinvolti nelle ostilità, e «non combattenti», che mai devono essere coinvolti. «Il principio di umanità, iscritto nella coscienza di ogni persona e popolo, comporta l’obbligo di tenere al riparo la popolazione civile dagli effetti della guerra».

La dottrina tradizionale della Chiesa riserva la valutazione delle condizioni della legittima difesa «al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune». Nell’attuale mondo globalizzato, l’autorità responsabile del bene comune non potrebbe che essere un’autorità internazionale, certo sovranazionale, possibilmente mondiale. Tale potrebbe essere l’Organizzazione delle Nazioni Unite, nel cui Statuto si dichiara che «i Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo» e inoltre che «i Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite».
Ma proprio l’ONU, a tutt’oggi, gode di un’autorità più simbolica che effettiva, più esortativa che normativa, soggetta – com’è – all’oligarchia dei cinque vincitori della II Guerra Mondiale (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti), i quali, oltre ad essere gli unici Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, hanno in esso diritto di veto. Quanto mai decisivo ed urgente sarebbe una riforma dell’ONU che promuova lo sviluppo solidale globale, la democratizzazione delle relazioni internazionale, la regionalizzazione continentale di taluni problemi, il coinvolgimento delle Organizzazioni non governative (ONG) quale punto di vista delle minoranze.

L’ingerenza umanitaria
La dottrina della legittima difesa non riguarda la sola autodifesa, ma si estende alla difesa di altri. La difesa della vita di altri, per chi ne è responsabile, non solo è «legittima», ma può costituire anche un «grave dovere», risultando quindi «obbligatoria». «Il diritto all’uso della forza per scopi di legittima difesa è associato al dovere di proteggere e aiutare le vittime innocenti che non possono difendersi dall’aggressione».
Il dovere di protezione nei confronti delle vittime innocenti e indifese della guerra limita l’opzione del pacifismo radicale di chi escludesse ogni uso della forza. La rinuncia alla legittima difesa può valere per se stessi, risultando anche profetica e testimoniale, come nel caso dei martiri. Non può però valere quando si è responsabili di altri che ci sono affi dati e che non possono liberamente scegliere di difendersi o meno. Non si può invocare a tale riguardo l’inequivocabile scelta di Cristo di accettare la morte in croce piuttosto che opporsi alla violenza avvalendosi delle «dodici legioni di angeli» (Mt26,53) a sua disposizione. La scelta di Cristo, infatti, è consapevole e libera. Inoltre, egli compie la sua scelta non coinvolgendo altri e, anzi, chiedendo espressamente durante il suo arresto che non siano coinvolti.
Dal dovere di difendere le vittime innocenti dall’aggressione consegue che «la Comunità internazionale nel suo complesso ha l’obbligo morale di  intervenire in favore di quei gruppi la cui stessa sopravvivenza è minacciata o di cui siano massicciamente violati i fondamentali diritti».
A tal proposito, Giovanni Paolo II, considerando le atrocità della guerra in Bosnia ed Erzegovina negli anni 1992-1995, affermò il diritto-dovere della cosiddetta «ingerenza umanitaria»:
La coscienza dell’umanità, ormai sostenuta dalle disposizioni del diritto internazionale umanitario, chiede che sia resa obbligatoria l’ingerenza umanitaria nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di popoli o di interi gruppi etnici: è un dovere per le nazioni e la comunità internazionale”.
Il principio dell’ingerenza umanitaria, convintamente affermato dalla Santa Sede, rinviene al cuore della vita internazionale non primariamente gli Stati, bensì la persona umana.
Esistono interessi che trascendono gli Stati: sono gli interessi della persona umana, i suoi diritti. [...] I principi della sovranità degli Stati e della non-ingerenza nei loro affari interni – che conservano tutto il loro valore – non possono tuttavia costituire un paravento dietro il quale si possa torturare e assassinare.

L’ingerenza umanitaria, fondata sulla dignità della persona umana, sollecita uomini politici e studiosi di diritto internazionale nella ricerca etico-giuridica in grado di definirne le motivazioni, i criteri, i limiti e i modi.di concreta applicazione, nei singoli casi. L’ingerenza umanitaria della comunità internazionale contempla sia l’«intervento di polizia internazionale», con mezzi militari, sia l’«intervento civile internazionale», con mezzi civili.
La tipologia dell’intervento può configurarsi come:

peacemaking, cioè di interrompere le violenze in corso e imporre la tregua;
peace-keeping, cioè di impedire la rottura della tregua e la ripresa delle ostilità;
peace-building, cioè di consolidare la durata della tregua le condizioni per la stabilità.

L’alternativa alla guerra
La difesa dalla guerra, pur legittima e doverosa quando irrompe, non è sufficiente per contrastarla. L’autentico contrasto alla guerra avviene quando, non rassegnandosi all’impegno minimo di limitarla, si persegue la sua eliminazione.
La guerra – ha detto Papa Francesco all’Angelus di domenica 27 Marzo 2022 – non può essere qualcosa di inevitabile: non dobbiamo abituarci alla guerra! Dobbiamo invece convertire lo sdegno di oggi nell’impegno di domani. Perché, se da questa vicenda usciremo come prima, saremo in qualche modo tutti colpevoli. Di fronte al pericolo di autodistruggersi, l’umanità comprenda che è giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell’uomo prima che sia lei a cancellare l’uomo dalla storia”.
La cancellazione della guerra impegna nella ricerca di soluzioni alternative, ricerca che peraltro ha assunto oggi un carattere di drammatica urgenza, poiché «la potenza terrificante dei mezzi di distruzione, accessibili perfino alle medie e piccole potenze, e la sempre più stretta connessione, esistente tra i popoli di tutta la terra, rendono assai arduo o  praticamente impossibile limitare le conseguenze di un conflitto».
Mirando a cancellare la guerra dalla storia umana, la Chiesa propone di eliminare le armi con cui la si combatte e prospetta modi alternativi per regolare i conflitti.

Il disarmo
L’eliminazione dell’odierno enorme potenziale bellico, che minaccia gravemente la convivenza pacifica dei popoli, va perseguito, secondo la dottrina sociale della Chiesa, mediante un «disarmo generale, equilibrato e controllato». La detenzione di armi deve corrispondere al «principio di sufficienza, in virtù del quale uno Stato può possedere unicamente i mezzi necessari per la sua legittima difesa», e tale principio «deve essere applicato sia dagli Stati che comprano armi, sia da quelli che le producono e le forniscono».
Il principio di sufficienza regge anche di fronte all’obiezione di chi rivendicasse il potere di deterrenza delle armi.
L’accumulo delle armi sembra a molti un modo paradossale di dissuadere dalla guerra eventuali avversari. Costoro vedono in esso il più efficace dei mezzi atti ad assicurare la pace tra le nazioni. Riguardo a tale mezzo di dissuasione vanno fatte severe riserve morali. La corsa agli armamenti non assicura la pace. Lungi dall’eliminare le cause di guerra, rischia di aggravarle. L’impiego di ricchezze enormi nella preparazione di armi sempre nuove impedisce di soccorrere le popolazioni indigenti; ostacola lo sviluppo dei popoli. L’armarsi ad oltranza moltiplica le cause di conflitti e aumenta il rischio del loro propagarsi.

Le sanzioni
La regolazione dei conflitti, piuttosto che alle «politiche di deterrenza nucleare, tipiche del periodo della cosiddetta Guerra Fredda», deve eventualmente ricorrere alle sanzioni, il cui scopo non può però mai essere quello di «costituire uno strumento di punizione diretto contro un’intera popolazione: non è lecito che per le sanzioni abbiano a soffrire intere popolazioni e specialmente i loro membri più vulnerabili».
Il vero scopo del ricorso alle sanzioni deve sempre essere quello di «aprire la strada alle trattative», basate sul dialogo diplomatico e il negoziato multilaterale.

La nonviolenza
Nella ricerca di alternative alla guerra, il più recente Magistero della Chiesa va incoraggiando il metodo della non violenza. Nel Messaggio per la celebrazione della 50.ma giornata mondiale della pace(1 gennaio 2017), dedicato a 'La nonviolenza: stile di una politica per la pace', papa Francesco sostiene che la costruzione della pace, se vuole essere coerente con il Vangelo, deve fondarsi sulla «nonviolenza attiva». Lungi dall’essere un atteggiamento di «resa, disimpegno e passività» nei confronti dell’ingiustizia, essa è piuttosto una strategia per combatterla senza ricorrere alla forza «ingannevole» delle armi. In quanto combatte la guerra senza armi, la non violenza può essere davvero un punto di incontro tra le spinte profetiche del Vangelo e le esigenze della storia: essa si presenta fondamentalmente come uno stile di vita che rifiuta la violenza come mezzo di soluzione dei conflitti e cerca viceversa di imbastire nuove relazioni, nuove possibilità di incontro.
Nell’orizzonte della nonviolenza attiva, assume particolare rilievo la «difesa popolare nonviolenta».
La Difesa Popolare Nonviolenta consiste in una strategia di azioni (o omissioni) che sono espressione di una decisa disobbedienza nei confronti dell’invasore o del tiranno in modo da rendere impossibile la gestione della res pubblica. È il caso degli scioperi, dell’informazione indipendente, dei boicottaggi, della non cooperazione e della disobbedienza civile nei confronti di leggi e disposizioni ritenute ingiuste.
Non va, infine, dimenticata l’istituzione di strutture e poteri clandestini paralleli, che cerchino di compromettere l’efficienza dell’amministrazione statale. Tutta questa attività è comunque sempre indirizzata a conquistarel’avversario alla causa della giustizia: il rifiuto pregiudiziale dell’altro, per quanto malvagio e disonesto, è alieno dalla stessa concezione della vera nonviolenza, che «significa trattare l’altro non come  un nemico da sconfiggere ma come un amico da convincere».

La coltivazione della pace
La più radicale cancellazione della guerra va oltre la pur necessaria ricerca
di alternative per affrontare i conflitti, spingendosi sino a eliminare le cause che li originano, primariamente quelle dovute a situazioni strutturali di povertà, sfruttamento e ingiustizia.

Lo sviluppo integrale
A questo proposito riluce come un faro l’insegnamento di Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio,nella quale afferma che «lo sviluppo è il nuovo nome della pace», precisando come «lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo»
Ma «lo sviluppo integrale dell’uomo non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell’umanità».
Rilanciando l’insegnamento di Paolo VI, papa Francesco, nell’enciclica Fratelli tutti, afferma che «la pace reale e duratura è possibile solo “a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana”.

La tensione escatologica
Il grande dono della pace è già seminato nella storia, ma non ancora fiorito. Il grande male della guerra è già contrastabile nella storia, ma non ancora vinto. La storia della salvezza si estende tra la guerra e la pace, tra la violenza di Lamech, che ripaga settanta volte sette l’offesa subita (cfr. Gen4,23-24), e Cristo, che insegna a perdonare settanta volte sette l’offesa ricevuta (cfr. Mt18,21-22).
Alla luce della Rivelazione cristiana, la storia umana scorre nella tensione tra il contenimento e lo sradicamento della guerra, tra il realismo della pace insidiata dalla guerra e l’utopia della pace pienamente compiuta.
È necessaria, allora, una grande capacità di discernimento per coniugare utopia e realismo: da un lato il sogno della grande pace, dall’altro la necessità di compiere un cammino graduale, fatto di passi intermedi – che sono espressione di quel bene che è possibile qui e ora.

Il discernimento storico
Il discernimento nel presente della storia trova certo nell’insegnamento evangelico della Chiesa la sua legge fondamentale, quella di essere pacificatori: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt5,9).
In occasione della Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2020, papa Francesco ha riformulato il criterio evangelico dicendo che
«il mondo non ha bisogno di parole vuote, ma di testimoni convinti, di artigiani della pace».
Il discernimento storico non trova nell’insegnamento della Chiesa una risposta univoca e definitiva su come, qui e ora, operare la pace. Peraltro, le vicende della storia umana, tanto più quelle drammaticamente segnate dalla violenza della guerra, «non sono di competenza solo e spesso neanche in prima istanza della Chiesa. Non spetta alla Chiesa dare  l’ultimo giudizio pratico su atti di cui solo pochi conoscono le modalità  ultime e precise».
Nella condizione storica dell’umanità, in cui il buon grano della pace convive con la zizzania della guerra, ai cristiani è senz’altro chiesto di essere artigiani di pace. D’altra parte, la coltivazione del buon grano della pace, dovendo tenere conto della presenza della zizzania, ammette diverse opzioni, che tuttavia dovranno corrispondere al seguente criterio operativo: in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas (nelle cose necessarie unità, in quelle dubbie libertà, in tutte carità).
A fronte della necessità di condannare la guerra, i cristiani devono essere uniti, operando per eliminare le cause, sostenendo ogni via alternativa perla soluzione dei conflitti, ricercando a oltranza il dialogo per affrontarli e superarli.
A fronte di una guerra purtroppo in corso, i cristiani possono essere in dubbio circa il modo in cui ricercare la pace, se ricorrendo alla difesa armata o alla difesa nonviolenta, e giungere a un diverso esito del discernimento. Invece che screditarsi a vicenda, sarà opportuno che si mantengano in dialogo così da arricchirsi e correggersi vicendevolmente nelle proprie valutazioni.
A fronte di tutti mali della guerra, i cristiani sono chiamati alla carità che opera, in primis, soccorrendo le vittime e inoltre ricercando a oltranza la riconciliazione.

Uno sguardo sintetico
A conclusione di questa presentazione dell’insegnamento attuale della Chiesa sulla pace e la guerra e quale efficace sintesi sia consentito riprendere ancora una volta, e questa volta con maggiore ampiezza, il già citato Discorso del card. Martini:
La pace è il più grande bene umano, perché è la somma di tutti i beni messianici. Come la pace è sintesi e simbolo di tutti i beni, così la guerra è sintesi e simbolo di tutti i mali. Non si può mai volere la guerra per se stessa, perché è sistematica violazione di sostanziali diritti umani.
Vi saranno al limite casi di legittima difesa di beni irrinunciabili. Però il contrasto all’azione ingiusta, non di rado doveroso e meritorio, deve restare nei limiti strettamente necessari per difendersi efficacemente. Potranno anche essere necessarie coraggiose azioni di ‘ingerenza umanitaria’ e interventi volti alla restituzione e al mantenimento della pace in situazioni a gravissimo rischio. Ma non saranno ancora la pace. Pace non è solo assenza di conflitto, cessazione delle ostilità, armistizio. Non è neppure soltanto la rimozione di parole e gesti offensivi  (Mt5, 21-24), neppure solo perdono e rinuncia alla vendetta, o saper cedere pur di non entrare in lite (Cfr. Mt5, 38-47).
Pace è frutto di alleanze durature e sincere, (enduring covenantse non solo enduring freedom), a partire dall’Alleanza che Dio fa in Cristo perdonando l’uomo, riabilitandolo e dandogli se stesso come partner di amicizia e di dialogo, in vista dell’unità di tutti coloro che Egli ama.
In virtù di questa unità e di questa alleanza ciascuno vede nell’altro anzitutto uno simile a sé, come lui amato e perdonato, e se è cristiano legge nel suo volto il riflesso della gloria di Cristo e lo splendore della Trinità. Può dire al fratello: tu sei sommamente importante per me, ciò che è mio è tuo. Ti amo più di me stesso, le tue cose mi importano più  delle mie. E poiché mi importa sommamente il bene tuo, mi importa il bene di tutti, il bene dell’umanità nuova: non più solo il bene della famiglia, del clan, della tribù, della razza, dell’etnia, del movimento, del partito, della nazione, ma il bene dell’umanità intera: questa è la pace”.

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”


Cambiamento di una epoca

Il cambiamento di epoca, frase spesso citata da Papa Francesco, segna un ulteriore tappa.
Si è concluso infatti il vertice politico mondiale di Johannesburg cui hanno partecipato Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. e altri 43 Paesi. Un avvenimento che, usando le parole di alcuni giornalisti, potremmo definire: Cose dell'altro mondo.
Infatti è stato il vertice politico di quell'altra parte del mondo, quella dei BRICS, termine che è stato inventato dal capo economista di Goldman Sachs, non certo da un contestatore del turbo capitalismo. È l’acronimo inglese dei Paesi del club (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa: brics, parola che in inglese significa 'mattoni'.
Il vertice di Johannesburg, appena concluso, segna un momento storico: il gruppo si allarga ad altri sei Paesi, compresi Iran e Arabia Saudita, fra essi quattro grandi produttori di petrolio.
Il Sud globale del mondo ha uno strumento in più per dire la sua.
E, come ha detto il presidente iraniano Ebrahim Raisi: “L’espansione dimostra che l’approccio unilaterale è sulla via del declino”.
Occorre una lungimiranza, una politica creativa (come disse Papa Francesco) per tessere nuove alleanze politiche, riconoscere poteri emergenti che chiedono spazio, visibilità e giustizia economica.
Come scrive il prof. Sapelli:
I Brics così come oggi si configurano, con le new entries saudite e iraniane in primis, con quel che ne segue, dimostrano che oggi la devastazione non solo economica, ma delle relazioni internazionali proviene da ciò che ci insegnarono Ludwig Dehio e Raymond Aron. Ossia che si può superare il conflitto disgregante solo cooptando nuovi soggetti statuali al nucleo di poteri statuali dominanti.
Ed è proprio questo che ora gli Usa si dimostrano incapaci di fare. Rispetto all’allargamento dei Brics annunciato, quello della Nato è non solo risibile, ma diviene castrato di ogni suo prolungamento indo-pacifico e africano”.

Stiamo assistendo ad un cambiamento di epoca e nuovi poteri, nuove nazioni rivendicano il loro ruolo.
Tramonta l'unilateralismo occidentale e sorge sempre più urgente la richiesta di un multilateralismo.
La guerra in corso altro non è che espressione di questo mutamento in atto.
Lo sguardo profetico di Papa Francesco guarda a questo nuovo tempo della storia umana, a questa nuova epoca che è ai suoi albori, come scrive il prof. Borghesi in un articolo dell' Osservatore Romano che abbiamo qui già postato ma che merita una rilettura:

«Fratelli tutti», l’enciclica appena pubblicata, va letta con attenzione per essere compresa adeguatamente. Il rischio, infatti, è quello della banalizzazione mediatica che, concentrandosi su due-tre punti, riduca il documento a una serie di pii intenti.
Si tratta, innanzitutto, di precisare l’orizzonte entro il quale si colloca: quello di un mondo che corre verso destini di guerra.
I Papi non scrivono encicliche sulla fraternità per una terra tranquilla.
La 
Pacem in terris di Giovanni XXIII uscì dopo che, con la crisi dei missili a Cuba, si era andati a due passi dalla terza guerra mondiale. Non è il caso odierno, per fortuna. E tuttavia è innegabile come la crisi della globalizzazione, lo scontro sempre più insistente tra i blocchi (Usa, Cina, Russia), le continue guerre combattute per vie interposte, il terrorismo religioso, ecc. configurino un mondo altamente instabile, pronto a divampare. Si aggiungano le grandi disparità economiche, la tragedia del Covid con le sue ricadute sui Paesi più poveri, l’immigrazione.
Il cambiamento d’epoca vede, dopo l’89, il progressivo sbriciolarsi delle paratie e dei contrappesi che l’umanità aveva provveduto ad attuare dopo l’immane tragedia della seconda guerra mondiale: dai grandi organismi internazionali, alla carta dei diritti universali, al processo di unificazione europea. Tutto si decompone: l’Onu, la Ue, il legame tra Usa ed Europa, mentre il relativismo culturale tende ad esaltare il particolarismo e l’isolazionismo. Lo spirito del tempo riporta in auge il manicheismo in tutte le due forme: politica, economica, religiosa. Ovunque risorgono barriere, antiche diffidenze, vecchi nazionalismi.
È in questo contesto che Francesco lancia il sogno di una rinnovata fraternità tra i popoli e le persone: fraternità religiosa, politica, economica, sociale. Un sogno analogo a quello di Martin Luther King, il cui nome è citato alla fine accanto a quello di san Francesco, Gandhi, Desmond Tutu, Charles de Foucauld: 'I have a dream'
.
Non si tratta di un cedimento ingenuo allo spirito dell’utopia, al filantropismo umanitario come lamentano i critici del Papa. Francesco è un realista che conosce perfettamente la critica di sant’Agostino alla teologia politica, alla confusione tra il Regno di Dio e il regno degli uomini. È un realista, però, che sa che il realismo se non vuole essere cinico deve sporgersi oltre, deve rischiare un progetto ideale, deve aprire alla speranza. Il cristiano è un uomo di speranza e non di rassegnazione. Il realismo autentico è un real-idealismo. Per questo oggi 
Fratelli tutti rappresenta un sasso potente nella palude delle idee, della politica, di una fede stagnante.
L’enciclica si rivolge a tutti — «Fratelli tutti» — ma è innegabile che tra i primi destinatari vi siano i cristiani, i cattolici in particolare.
Molti tra loro, lungi dall’essere protagonisti del cambiamento, sono parte del problema odierno, parte di quel manicheismo politico-religioso che caratterizza il momento presente. Anch’essi partecipano, senza esserne spesso consapevoli, al grande vento della storia.
Negli anni ’70 il vento portava a sinistra, all’incontro e alla subordinazione del cristianesimo nel marxismo.
Dalla caduta del comunismo lo spirito del mondo volge a destra. Così, al momento, di fronte a una globalizzazione economica astratta e sovente violenta, dominata da un neocapitalismo senza scrupoli, si ha la reazione populista, il riemergere dei nazionalismi politico-religiosi, la territorializzazione della religione ridotta a fattore etnico. Si ha il fondamentalismo e il terrorismo in nome di Dio.

Fratelli tutti parte dal grande Documento sulla Fratellanza umana. Per la pace mondiale e la convivenza comune, del febbraio 2019 firmato ad Abu Dhabi insieme al Grande Iman di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb.
Lo approfondisce in tutte le sue implicazioni e lo propone al mondo come l’ideale per il momento presente. Dalla fraternità religiosa può sorgere una fraternità universale, un movimento di pace capace di attraversare popoli e nazioni. Questo non può non essere accompagnato da una rivoluzione culturale, da una «nuova cultura», la cultura dell’incontro. Una cultura «che vada oltre le dialettiche che mettono l’uno contro l’altro. È uno stile di vita che tende a formare quel poliedro che ha molte facce, moltissimi lati, ma tutti compongono un’unità ricca di sfumature, perché “il tutto è superiore alla parte”. Il poliedro rappresenta una società in cui le differenze convivono integrandosi, arricchendosi e illuminandosi a vicenda» (215). Si tratta di affermazioni — il poliedro, il tutto è superiore alla parte — che stanno al centro del pensiero di Bergoglio prima ancora che divenisse Papa. Da questo punto di vista l’enciclica presuppone una precisa fondazione culturale che sostiene il disegno della fraternità.
I capitoli III e IV, dedicati all’apertura al mondo e del cuore, presuppongono un’antropologia relazionale che unisce personalismo e pensiero dialogico. I nomi di tre pensatori, Georg Simmel, Gabriel Marcel, Paul Ricoeur citato due volte, sono chiamati a dare sostegno alla prospettiva. Così come, parimenti, si rivela fondamentale l’antropologia polare di Romano Guardini presente in più parti del documento.
È l’antropologia polare che permette di mettere in guardia dalle false “polarizzazioni” odierne, dal contrasto tra una globalizzazione liberistica, falsamente universalizzante, e un populismo particolaristico che falsifica il concetto di popolo. La legge della polarità, secondo Francesco, unisce e distingue universale e particolare; ne riconosce l’antinomia, la complementarietà nella differenza. Si propone come soluzione, sul piano teorico, delle feroci contrapposizioni del presente.
Un’ultima osservazione che consente di evitare letture frettolose e fraintendimenti. L’enciclica risponde anche a quanti in questi anni hanno accusato il Papa di filantropismo, irenismo, umanismo. Di aver separato Misericordia e Verità. Costoro è bene che inizino la lettura del documento a partire dai capitoli finali, dal sesto in avanti. Qui, in accordo alla Caritas in veritate di Benedetto XVI, è possibile osservare un ancoraggio fermo del dialogo all’idea di verità. Una verità oggettiva, l’unica che consente il riconoscimento razionale di una natura umana unica e universale, di contro al relativismo dominante nella cultura odierna.
Verità, giustizia e misericordia non possono essere separate. Il Papa risponde, in tal modo, ai suoi critici di destra che non hanno cessato, da 
Amoris laetitia in avanti, di attaccarlo. Una risposta che non esita, nel capitolo ottavo dedicato al dialogo tra le religioni, di citare il «testo memorabile» della Centesimus annus di Giovanni Paolo II : «Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini» (273). Che non esita, soprattutto, di evidenziare come l’identità cristiana costituisca un fattore essenziale nel dialogo fraterno con tutti. Per questo pur apprezzando l’azione di Dio nelle altre religioni «tuttavia come cristiani non possiamo nascondere che “se la musica del Vangelo smette di vibrare nelle nostre viscere, avremo perso la gioia che scaturisce dalla compassione, la tenerezza che nasce dalla fiducia, la capacità della riconciliazione che trova la sua fonte nel saperci sempre perdonati-inviati. Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna”. Altri bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo» (277).
Il sogno di Papa Francesco di una nuova fraternità, in un mondo in frantumi, affonda le sue radici nella «musica del Vangelo», nel «Vangelo di Gesù Cristo».

Fratelli tutti si rivolge all’umanità intera ma non dimentica la radice della speranza”.

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

La foto di Fati e Marie (di cui abbiamo parlato nell'ultimo articolo che trovate in Archivio) è divenuta un po' il simbolo del clima culturale che ormai pervade la nostra società.
Scrive il giornalista Banfi:
Se Pier Paolo Pasolini o Giovanni Testori fossero ancora vivi, avrebbero scritto di Fati e di Marie, la madre e la figlia trovate morte nel deserto tunisino. Perché con tutte le cose che sono successe nel mondo, resta un’immagine che non vuole andarsene dalle nostre menti
mentre l'intellettuale Gustavo Zagrebelsky ne parla in modo inequivocabile:
Siamo in un mondo dove c'è il 'muro di pietra' di cui Dostoevskij scrive: ci si para davanti e ti sputa in faccia. E rompere il muro sarebbe necessario per affrontare temi terrificanti come l'abitabilità del pianeta, le guerre, le centinaia di migliaia di bambini che nascono e muoiono nella prima settimana di vita, mentre noi, osservando le foto di Fati e Marie, che a sei anni perde la vita nel deserto tunisino accanto alla madre, allarghiamo le braccia. Non solo per assuefazione a queste immagini, ma soprattutto per impotenza di fronte all'orrore”.
Anche la giornalista Anna Zafesova sottolinea come come nel 2023 l’astrazione della guerra avviene attraverso la 'narrazione' dei buoni contro i cattivi: tutto per far dimenticare le persone reali, fisiche, le vittime: se il nemico è un simbolo, una bandiera, un’immagine è più facile non sentirlo un umano, una persona, uno che non riesci a guardare negli occhi se gli spari e lo uccidi.
Il mondo sembra ormai dominato da un orrore inconfessabile, dal quale siamo tutti indotti a fuggire, per distrazione hollywoodiana o per paura.
Ma per quanto riguarda la guerra in atto la data del 29 luglio ci offre l'opportunità di rievocare una importante testimonianza.
Il 29 luglio 2013 veniva rapito a Raqqa, in Siria, il gesuita padre Paolo Dall’Oglio. Da allora non si hanno di lui più notizie.
Questo scritto di Riccardo Cristiano, che qui pubblichiamo, ripercorre la figura e l'impegno al dialogo e alla pace del gesuita scomparso; una rilettura quanto mai attuale perchè consente uno sguardo sulla situazione siriana e sulla condizione dei cristiani in quella terra insanguinata ma permette, inoltre, di evidenziare la valenza pacifica e dialogante di Padre Dell'Oglio capace di testimoniare un pacifismo concreto e realistico che coniuga autodifesa del popolo siriano e non-violenza ponendosi così lontano sia dal militarismo guerrafondaio che dal pacifismo utopico e ideologico.


Padre Paolo Dall’Oglio: autodifesa e nonviolenza

Riccardo Cristiano, giornalista e saggista

Dieci anni dopo il sequestro da parte dell’Isis – preceduto, undici anni fa, dalla espulsione dalla Siria per volere di Assad – sono sempre più convinto che la visione di padre Paolo Dall’Oglio conservi una grandissima attualità, e non solo per quanto ha a che fare direttamente con la Siria.
Posso dire che è attualissima – e da studiare – la sua visione del dialogo islamo-cristiano, posto che padre Paolo è stato, certamente, precursore di fatto del Documento sulla fratellanza umana firmato, insieme, da Francesco e dall’imam dell’Università islamica di al-Azhar, Ahmad al Tayyib, nel 2019 ad Abu Dhabi.
Non è poi eccessivo ritenere che Paolo abbia colto un tratto vivo dell’incontro con i post-credenti, ossia con un mondo che chiede di essere di nuovo preso dall’incanto per una spiritualità che non ha paura delle contaminazioni religiose, purché non si arrivi agli sconcertanti estremi – scriveva – delle statuette della Madonna con le quattro o dieci braccia della dea Kali.
Basti ricordare la sua ammirazione per i gesuiti che in Cina sfidarono tutti affermando che Confucio non era certo all’inferno, oppure la sua capacità di cogliere quanto, sia il cristianesimo che l’islam, abbiano lasciato, in fatto di stima dei popoli, col loro identificarsi col colonialismo occidentale.
Anche le sue idee sulla Chiesa – la sua Chiesa! – hanno, per me, grande importanza in questa stagione sinodale. Andrebbero recuperate.

Padre Paolo e la Siria
Volendo qui scegliere quel che di lui mi sembra più urgente evidenziare per il nostro qui ed ora nel mondo, non posso che recuperare, dai miei più vivi ricordi, la sua capacità di coniugare insieme autodifesa nonviolenza, quale architrave non astratta di un pensiero su cui appoggiare il grande peso morale dei tanti conflitti che fanno ancora scorrere il sangue a fiotti: in Ucraina, evidentemente, ma non solo.
Mi azzardo a scrivere che padre Paolo aveva previsto tutto quel che sarebbe accaduto in Siria, con le conseguenze per l’Italia, l’Europa e il nostro mare Mediterraneo. Posso farlo perché lui molto ha scritto e detto. Sorprendente è rileggere oggi quanto disse già nel 2012, prevedendo protocolli d’intesa e abbracci di politici occidentali con despoti nordafricani, ovvero l’esodo di migranti e profughi lungo la rotta balcanica.
Lui aveva visto avanti, senza dubbio. Ma l’aspetto più profetico – la lezione maggiore – sta proprio sul punto, delicatissimo, dell’affermazione del diritto di autodifesa dei popoli stretta all’impegno cristiano, religioso, profondamente umano, della nonviolenza.
Solo in seguito – dopo aver ascoltato lui – ho capito, leggendo la Evangelii Gaudium di Francesco, che anche in Paolo c’era quella tensione polare di cui tratta l’enciclica: l’idea che i poli non si possono elidere, ma, se non esprimono contraddizioni, bensì contrapposizioni, possono e devono restare in relazione di opposti, in grado di sprigionare energia umana positiva, vita, facoltà di risolvere il conflitto ad un livello più alto.
Cerco di spiegare al meglio. Parto da uno dei suoi passaggi più controversi sul suo discorso di autodifesa, senza giri di parole, poiché le parole di padre Paolo Dall’Oglio non possono essere mai addomesticate. Chi l’ha conosciuto e letto, lo sa: lui era un sanguigno, un mistico, uno spirituale, ma molto concreto; un intellettuale ma anche un operaio, in senso letterale, un sofisticato e uno spirito quanto mai diretto. Per interpretarlo non si può guardare a un polo della sua personalità senza guardare anche l’altro.
Preparo il lettore: metto un primo punto a cui segue un secondo, che potrà apparire di segno opposto. Alla fine, spero, sarà tutto più chiaro.

Lotta contro il regime di Assad
Padre Paolo riteneva che la lotta contro il regime siriano di Assad fosse una precisa scelta: coraggiosa, anzi eroica, da parte del popolo siriano; un’occasione irripetibile per rifare il bacino geopolitico del Mediterraneo. Aveva visto nascere quella lotta, correttamente, nella nonviolenza, che solo la ferocia del regime aveva trasformato, obbligando il popolo all’autodifesa, necessariamente anche armata.
Se i cristiani, per paura e per autoconservazione, avessero deciso di abbandonare quella lotta di popolo, avrebbero favorito il disegno reazionario, sia dei jihadisti che del regime: due facce della stessa medaglia, per Paolo. E aveva ragione.
Pure i jihadisti, per lui, andavano “capiti”. Troppo facile definirli tutti e soltanto «terroristi»: la definizione, abusata, li avrebbe semplicemente assistiti nel loro progetto totalitario. Così è avvenuto.
L’impegno cristiano nella rivoluzione democratica, dunque, non doveva mancare, perché vitale. Quando papa Benedetto XVI raccomandò alla comunità internazionale di non vendere armi ai siriani in rivolta, lui scrisse su twitter: «sono d’accordo, diamogliele gratis».
Già sapeva che, se l’Esercito Libero Siriano non avesse potuto disporre almeno di armi leggere – di fronte alla disumanità della repressione che il regime stava manifestando senza risparmiare vecchi, donne e bambini – la rabbia sarebbe montata ciecamente e si sarebbe trasferita nelle braccia – come desiderato dal regime di Assad – dei gruppi più estremisti del jihadismo locale e internazionale; il regime, dopo aver favorito quell’abbraccio in tutti i modi, ne avrebbe usato la deriva per presentarsi al mondo come il “male minore”.
A lui era tutto evidente. Non a noi. Il Mediterraneo si sarebbe così spezzato, col suo carico di boat people, a milioni. Ebbene, mi pare che sia andata proprio così, col senno di poi.
Per quel che ne so, padre Paolo stimava Benedetto XVI con la sua scelta di impegnare il Vaticano nel gruppo internazionale denominato “Gli amici della Siria”. Ma quell’appello del papa lui lo denunciò come un errore cruciale per ciò che avrebbe prodotto negli animi di migliaia di giovani siriani. Lo disse, appunto.
È da considerarsi, pertanto, un cantore della lotta armata? Non era forse sempre stato un convinto, persino cocciuto, sostenitore della nonviolenza? Certo che sì: Paolo era un nonviolento, ma le sue posizioni non vivevano in astratto, bensì nella realtà.
Ben ricordo come ci abbia supplicato di comprendere quel che oggi dovrebbe risultare finalmente evidente a tutti, per ciò che è accaduto in Siria, ma anche in Libia o in Egitto, piuttosto che in Libano: la Primavera araba era un’occasione senza ritorno, una chance irripetibile dalla quale dipendeva il futuro: difficilmente si sarebbe presentata una seconda possibilità.

Primavera araba
Eccoci, allora, al secondo punto storico, apparentemente contrastante col primo. L’irripetibilità di quella Primavera stava nella opportunità di superare l’equivoco secolare tra arabi ed europei, quello stesso che aveva reso in contrasto cristianesimo e islam. L’equivoco andava risolto!
Io gli dissi un giorno che i seguaci di Assad erano a noi – cristiani occidentali – irriducibili, per la certezza riposta nel loro “uomo forte”, il dittatore. Lui mi rispose che le cose non stavano propriamente così: il discrimine tra i buoni e i cattivi non era così netto. Mi mandò, in proposito, il testo di un intellettuale vicino al regime – non organico allo stesso – che spiegava cose che avrei potuto capire anch’io e, in gran parte, condividere.
Riporto questo dettaglio perché aiuta a capire che padre Paolo non è affatto uno schematico ed un fazioso – un estremista – come alcuni, tuttora, lo dipingono: assolutamente no. Sapeva bene che anche su alcuni sostenitori di Assad pesavano errori e orrori del passato, forieri di comprensibili rigidità. Quell’intellettuale vicino al regime, dunque, vedeva il bene della Siria in modo diverso dal mio, ma pur sempre un bene scevro da sopraffazione e arbitrio.
L’autodifesa per lui è dunque un diritto umano fondamentale, ma da esercitare dall’interno di una cultura autenticamente nonviolenta che impedisce di sconfinare nella disumanità sullo stesso piano dei regimi. Per Paolo occorreva difendere il diritto all’autodifesa proprio per evitare che si tramutasse in un’azione ingiustificabile contro le altre comunità, cadendo nella provocazione settaria propria del regime di Assad, nella mancanza di rispetto per ogni essere umano.
L’autodifesa resiste all’esercito aggressore, ma non si rivolta contro le comunità che il regime proclama di voler difendere. Serve consapevolezza, ma anche gli strumenti per poter esercitare il proprio diritto di autodifesa.
Parlò di questo con i suoi amici di Libera, come noto, attivi in Italia in zone ad alta infiltrazione mafiosa. Scrisse «Ho interrogato preti e laici che combattono le mafie nel Sud Italia – vera e propria dittatura sulle popolazioni – per sapere se sia possibile fare a meno dell’azione militare della polizia affinché la nonviolenza divenga il vero attore della trasformazione civile.
Hanno riconosciuto che non è possibile: la forma militare è necessaria, così come è necessaria quella nonviolenta degli attori sociali: la criminalità organizzata ha pochi freni simbolici sui quali i ricatti affettivi possano fare presa. […] Le iniziative positive di nonviolenza devono sempre invitarci a cercare una soluzione alternativa, ma non ci autorizzano a rifiutare la solidarietà a un popolo che porta avanti la sua lotta per la libertà e la democrazia con i mezzi che ha a disposizione.
Vi è certamente un problema rispetto all’evoluzione del mondo musulmano. In effetti la società musulmana tradizionale, alquanto folkloristica, mistica, è lacerata tra un monopolio della violenza esercitata da un potere militare centrale e una gestione della società in cui la pietà, il buon vicinato, la pazienza, il ristabilimento della giustizia attraverso la negoziazione familiare costituiscono più la regola che l’eccezione.
Non si discutono le decisioni del sultano: egli ha il monopolio della violenza attraverso la tortura. Parallelamente però la società cerca di respirare in un’altra logica: è una dialettica mai risolta. […] In realtà la società musulmana colonizzata aveva percepito la portata del messaggio di Ghandi (molti bambini erano stati chiamati con questo nome negli anni Trenta). È stato solo con la crisi degli Stati nazionali (crisi degli ideali provocata dalla corruzione, crisi della violenza poliziesca che diviene arcaica) che si è fatta strada l’idea di cambiare la società attraverso i movimenti sociali, l’emergere di una società civile nei Paesi arabi. […]
Nel marzo 2011, agli esordi della rivoluzione che seguiva passo, passo, le primavere arabe, il desiderio di un cambiamento senza spargimento di sangue era molto chiaro: nelle classi popolari e tra l’élite contavano soltanto la forza delle idee e un’autentica convinzione nonviolenta. […] Il regime utilizzò dunque una strategia doppia. Da un lato l’affermazione di un principio secondo il quale ci sarebbero stati cambiamenti, riforme, si sarebbe costruita la democrazia. Dall’altro, l’uso sistematico della repressione, il pestaggio, la tortura, […] una colossale opera di disinformazione. […] Nella nostra cultura [siriana, ndr] alla violenza ingiusta si deve opporre un uso giusto della forza. […] Non si può rimproverare ai siriani di non essersi lasciati uccidere a migliaia».

La dignità umana del nemico
Ecco, poi, lo scambio diretto – sull’idea di autodifesa – con due giovani siriani che stavano andando a combattere chi voleva uccidere i loro cari, violentare le loro donne, torturare i loro figli. Questi dicevano «Abuna (padre) oggi partiamo per Homs, per combattere. Siamo venuti a domandare la tua benedizione e l’elemosina della tua parola». Paolo a Musa, uno dei due giovani, rispose: «Voi andate a combattere. Ma se un giorno smetterete di riconoscere la dignità umana del vostro nemico perderete la vostra, e per il Paese sarà finita».
Ai giovani combattenti disse ancora: «La riconciliazione nazionale comincia con il modo in cui guardi il tuo nemico nel mirino della tua arma prima di fare fuoco. Vedi qualcuno con cui vorresti condividere una vita comune? Oggi lo devi combattere, ma non è questo il tuo obiettivo finale!». Il più giovane dei due aggiunse: «Sì, bisogna astenersi dal compiere atti mostruosi, inumani, evitare di diventare delle belve».

Quello che serve per la pace
Il motivo di fondo dell’incomprensione tra Paolo Dall’Oglio e molti pacifisti italiani – tra i quali nessuno ha mai avvertito il bisogno di rispondere alle sue tesi nel corso di questi dieci anni, così favorendo l’opera della rimozione – sta nel silenzio che seguì, nel 2012, la sua lettera all’inviato dell’ONU, Kofi Annan, nella quale scrisse: «Tremila caschi blu e non trecento sono necessari a garantire il rispetto del cessate il fuoco e la protezione della popolazione civile dalla repressione, per consentire una ripresa della vita sociale ed economica.
È urgente chiedere l’abolizione delle sanzioni non personalizzate che puniscono le parti più deboli e innocenti della popolazione. C’è inoltre bisogno di trentamila “accompagnatori” nonviolenti della società civile globale, perché vengano ad aiutare sul terreno l’avvio capillare della vita democratica».
Gli interlocutori pacifisti hanno mai condiviso la distinzione tra sanzioni generalizzate da abolire e sanzioni personalizzate da conservare? E soprattutto, hanno mai tentato di organizzare i trentamila accompagnatori nonviolenti? Gli è stato forse impedito? Sarebbe importante saperlo, così come sapere, eventualmente, da chi.
Ma se nessuno ci ha veramente provato, come penso, vuol dire che la lezione, in parole ma anche in carne e sangue, del prete e dell’uomo Paolo Dall’Oglio – avamposto di pace e di riconciliazione – non è stata capita: forse perché troppo scomoda e difficile.
Ora, dopo dieci anni, a noi occidentali – che ci diciamo, in qualche modo, cristiani – dovrebbe insegnare qualcosa l’enorme popolarità di padre Paolo, tra tantissimi musulmani siriani: è, questa, una testimonianza di una attualità sconvolgente!

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In memoria di Fati e Marie

I nostri politici, forse, fanno quello che possono: i condizionamenti sono tanti, le difficoltà enormi, gli interessi geo-politici altrettanto.
C'è la guerra in corso e altre ce ne sono, piccole, ignorate, ugualmente feroci: ovunque si muore.
Pace, pace, pace: ma pace non c’è”, scriveva amaramente il profeta Geremia sette secoli prima di Cristo (cf. Ger 6,14)
La pace non c'è nemmeno negli angoli più remoti del globo e a ricordarcelo basta una piccola foto pubblicata sui quotidiani: una madre con la sua piccola figlia, morte di sete nel deserto.
Adesso quella madre e quella figlia abbracciate sulla sabbia del Sahara hanno un volto e un nome: Fati e Marie, respinte al confine tunisino e ricacciate nel deserto a morire.
Non un caso isolato: altri corpi tra le 'dune' desertiche vengono quotidianamente ritrovati, migranti e profughi vengono abbandonati senza assistenza nella 'terra di nessuno', 150 chilometri di deserto e sabbia.
E poi il solito teatrino: le autorità libiche accusano quelle tunisine e viceversa, la politica della UE sottoscrive 'trattati' con quei Paesi per una gestione comune dei respingimenti e degli sbarchi, 'trattati' che già a distanza di pochi giorni risultano falliti perchè rifiutati da buona parte dei Paesi Europei.
Ma questa volta vorremmo ignorare le analisi geo-politiche, i discorsi sulle implicazioni economiche, le discussioni sulle politiche di accoglienza.
La fede cristiana è anche altro: è attesa della Giustizia divina, attesa escatologica di un Regno sempre invocato, attesa di una 'salvezza' per tutti ma soprattutto per coloro che sono calpestati dalla storia umana.
E allora ci affidiamo alle poche ed essenziale parole di un credente e con lui condividiamo un suo sogno.


IN MEMORIAM

(di Franco Cardini)

Non so come si chiamasse quella donna sconosciuta morta di fame e di sete al confine tra la Libia (che mesi fa abbiamo liberato dal tiranno Gheddafi) e Tunisia (il cui raffinato presidente, una persona tanto charming, si è comportato in modo così gentile e galante con la nostra Presidente del Consiglio).
Non so chi fossero quella donna e quella bambina. Non so quali fossero i loro nomi, quindi non posso far loro nemmeno il minimo omaggio di scriverli qui, a futura memoria. Ignoro tutto della loro paura, del loro dolore, della loro disperazione, della loro fine che avrebbe commosso il mondo intero se fosse toccata a un cagnolino o a un piccolo panda e se la storia di quelle bestiole innocenti fosse passata sui teleschermi di tutto il mondo. Della loro fine che ci ha lasciati del tutto indifferenti.
Non voglio pensare a nulla, non so che cosa pensare.
Non ho il coraggio di pensare a nulla, meno ancora ai miei sei nipoti tutti felici al mare, alla mia bisnipotina da qualche parte del Brasile.
Ma vorrei aver sognato una cosa stanotte; e mi piacerebbe potervela raccontare.
Vorrei aver fatto un sogno stanotte, reduce da una serena giornata al santuario della verna per salutare frate Francesco insieme con mia figlia Chiara.
Vorrei aver sognato la Valle di Giosafath, il Giorno del Giudizio: e il Trono del Cristo Giudice, eretto dinanzi alla Porta Aurea delle mura; e tutta l’umanità riunita tremante ai suoi piedi, dalla collina di Mount Scopus lungo le pendici del Monte degli Olivi e stipata nel letto del Kedron, fino ai piedi del Sion.
Vorrei che alla destra del Signore ci fosse, dritta in piedi, quella donna morta di fame e di sete e che, seduta sul Suo ginocchio sinistro e stretta al Suo petto, ci fosse quella bambina morta di spasimi e di paura, e che Lui con la mano sinistra le premesse la testa sul petto e che tutti – i grandi della terra, i signori della tecnica e della finanza e giù giù tutti i più miserabili del genere umano, quelli con i conti bancari milionari e la barca ancorata a Porto Ercole – guardassero fissa quella mano segnata dalla stigmata che serra quella testolina.
E vorrei che allora il suono delle trombe angeliche imponesse silenzio: e che in quel silenzio il Signore, con una voce sussurrante più alta del tuono, dicesse all’orecchio della bambina: “Giudicali tu”.

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

La guerra ha molti volti: c'è quella combattuta con le armi, c'è anche quella combattuta con le speculazioni finanziarie ed economiche che mettono in ginocchio intere nazioni, ma poi c'è quella combattuta sulla pelle di molti migranti, speculando sulle loro speranze, usandoli come strumenti di facile e mafioso arricchimento, come merce di scambio, come tratta di esseri umani.
Uomini, donne, bambini che fuggono dalla Siria ridotta a brandelli da una guerra decennale e crudele e da un recente e distruttivo terremoto.
Uomini, donne, bambini che fuggono dall'Afganistan (e qualcuno si ricorda ancora come l'Occidente ha scaricato l'Afganistan?)
Uomini, donne, bambini che affidano ad una zattera (che noi chiamiamo gommoni, barconi) la sofferenza e la speranza.
scrive M. Varisco: “I due estremi, la sofferenza e la speranza, racchiudono tutto il dramma delle migrazioniCi si aggrappa ad una zattera di salvezza, una fragile barriera fra il cielo e l'acqua, fra la vita e la morte.
Vite aggrappate, vite sommerse dai flutti del mare in burrasca:
E gli altri, come tonni, come branchi
di pesci, con i remi ci picchiavano,
ferivano, straziavano, ammazzavano,
ed era tutto un urlo ed un lamento
sul mare aperto fino a che la notte
ci tolse con le tenebre la vista
”.

Sono i versi di un poeta greco Eschilo che nella tragedia I Persiani sembra descrivere quanto troppo spesso succede nel nostro Meditterraneo.
Tutta la storia è, in fondo, storia di migrazioni, storie di povertà, di sofferenza e di speranza.“...persino la vita di ciascuno di noi è sempre alla ricerca di una zattera di salvezza a cui aggrapparsi per trovare sicurezze che, alla prova della vita, si rivelano nulla più che legni tenuti insieme da corde pronte a spezzarsi”.
Brandelli di legni, corpi inanimati di bambini che la mareggiata scarica sulle spiagge: la morte, oggi così documentata, così gettata in prima pagina o in prima serata, dovrebbe rendere acuto il dolore del mondo così come acuto dovrebbe essere il dolore per la guerra in Ucraina dove nelle trincee contrapposte vengono scaricati per combattere da un lato i carcerati russi e dall'altro i più giovani e inesperti soldati ucraini: carne da macello a difesa di pochi centimetri di terra.
Chi spera in Cristo non può più sopportare la situazione così com’è, ma comincia a soffrire sotto di essa, a contraddirla. Pace con Dio significa conflitto con il mondo, perché il pungolo del futuro promesso trafigge inesorabilmente la carne di ogni presente incompiuto”.
(Jürgen Moltmann)

Agli smarriti di cuore
Il senso di non vivere invano

 

Piero Stefani, Teologo e docente di Giudaismo

«Dite agli smarriti di cuore: coraggio non temete» (Is 35,4). Le parole di Isaia sembrano scritte per il nostro tempo; ma forse sono state e saranno consone per ogni epoca. Per comprenderle occorre riservare qualche attenzione al termine «cuore». È una parola, a tutt’oggi, di uso metaforico molto diffuso; di solito, però, in accezioni distanti da quelle bibliche.
La cultura moderna ha reso comune la convinzione che il cuore sia il luogo dei sentimenti, dell’amore prima di tutto ma anche dell’odio, della gratitudine ma anche del suo opposto. La precomprensione rende non agevole cogliere il senso biblico della parola. Nel mondo greco «cuore» è, di norma, inteso come semplice organo corporeo; di contro, nella Bibbia gli usi traslati sono frequenti e molteplici.
I significati principali coprono l’area circoscrivibile con i termini di volontà-coscienza-intelletto (se così si potesse dire, la Bibbia è infatti «senza cervello», parola in essa del tutto assente). Nell’essere umano il cuore indica il sé profondo proprio di una coscienza sostenuta dall’intelligenza e dalla volontà.
Il 35mo capitolo di Isaia costituisce una specie d’anticipazione di quanto sarà sviluppato in seguito (vale a dire nella parte del libro attribuito al cosiddetto «secondo Isaia»): la gioia per la rifioritura del deserto (vv. 1-2), la venuta di Dio e la sua ricompensa che scaccia ogni timore (vv. 3-4), l’acqua che sgorga dal deserto che guarisce ciechi, sordi, zoppi e muti (vv. 5-7), l’appianamento della strada chiamata via santa (vv. 8-9), infine il ritorno dei riscattati contraddistinto da gioia e felicità perché fuggiranno tristezza e pianto (v. 10; ritornello conclusivo ripreso in modo identico in Is 51,1).
Nel messaggio complessivo lo smarrimento viene sopraffatto dalla speranza.
Il termine ebraico per «smarriti» deriva da un verbo (mahar) che, oltre all’accezione legata a essere codardi, spauriti e timorosi, ha il significato d’essere veloci e precipitosi. La traduzione «smarriti di cuore» è sicuramente corretta, tuttavia in un certo senso l’espressione si potrebbe rendere anche con «precipitosi di mente». In determinante circostanze, lo smarrimento e lo scoraggiamento derivano da una mente-coscienza troppo propensa a giungere subito alle conclusioni, senza aver fatto prima la fatica di cercare, di sforzarsi di capire e di cogliere le possibilità nascoste.
Si afferma «tutto va male, tutto va a rotoli, non c’è più niente da fare», senza avere il coraggio del pensiero. Cercare di capire è un tormento condito dalla strana consolazione nata dalla consapevolezza d’aver compiuto quanto ci è chiesto dalla dignità umana.
A suo modo lo affermava già Qohelet: «Rivolsi il mio cuore a esplorare con saggezza su tutto quanto si compie sotto il sole. Si tratta di un brutto affare rifilato da Dio agli uomini perché vi si esauriscano» (Qo 1,13).
Per gli esseri umani l’indagare è fatica inevitabile. Alla fine, però, anche la nobile via della ricerca si trasforma in vicolo cieco.
Nel versetto di Isaia il peso decisivo poggia su quel «dite» imperativo che, peraltro, non si sa bene a chi sia rivolto. Il comando viene da Dio, ma chi sono coloro a cui è affidato il compito di dire? L’indeterminatezza racchiude la difficoltà dell’atto di farci giungere «buone notizie».
Una voce che viene da fuori costituisce, comunque, sempre un annuncio. È una forma di «evangelo» che rompe il cerchio chiuso dei propri tentativi di comprendere la realtà. Non sempre è così. Nel loro affastellarsi, le notizie che giungono a noi da ogni dove rappresentano una specie di «anti-vangelo». Suscitano smarrimento. In questo contesto, quel «dite agli smarriti di cuore: non temete» risuona come il buon annuncio di una realtà futura diversa da quella presente. Per crederlo occorre una fede sostenuta dalla speranza e una speranza alimentata dalla fede.

Cuori spezzati
Non ci sono solo i cuori smarriti, ci sono anche quelli spezzati: «Vicino è il Signore agli spezzati di cuore / i frantumati di spirito salva» (Sal 34,19; cf. Sal 51,19; 147,3; Is 61,1). Che differenza c’è tra coloro che hanno il cuore smarrito e chi lo ha spezzato? Lasciando da parte riferimenti, peraltro pertinenti, legati al pentimento personale, si potrebbe liberamente affermare che si tratta di coloro che soffrono non per lo scacco derivato dall’incapacità di capire, ma per la volontà di fare in qualche modo proprio il dolore del mondo.
Il Signore è a loro vicino perché si serve di loro. Un parere rabbinico è, al riguardo, illuminante e consolante: «Rabbi Alexander disse: se un uomo mortale rompe del vasellame è una disgrazia, ma per Dio le cose stanno altrimenti. Infatti tutto il suo servizio è costituito da vasi rotti come è detto: “il Signore è vicino agli spezzati di cuore”» (Pesiqta de Rav Kahana, 158b).
Il cuore spezzato è antidoto allo smarrimento, ma lo è ancor di più seguire il cuore umile di Gesù: «imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete riposo per la vostra vita» (Mt 11,29). È un «riposo» (non «ristoro», il riferimento è al sabato – cf. Es 20,11) conseguito proprio perché si è preso su di sé il giogo dolce e leggero di Gesù, vale a dire il giogo da lui portato e che, per questo motivo, chiede anche ai suoi discepoli di portare (cf. per contro Mt 23,4).
Si è «stanchi e oppressi» (Mt 11,28) ma non se ne esce rinunciando al giogo; al contrario, bisogna prenderlo su di sé. Non è il riposo dopo la fatica, ma (come è detto in relazione allo Spirito Santo nella sequenza di Pentecoste) è il riposo nella fatica. È una condizione legata al convincimento profondo di aver compiuto una scelta dotata di senso.
Oggi, come conseguire questo riposo mentre sembra che si stia compiendo un lavoro di cui non si vedono i frutti? Davanti a noi si distendono coltri di nebbia; avvertiamo il timore che esse, in luogo di deserti prossimi a fiorire, nascondano baratri. Non ci sono scorciatoie. Il giogo leggero ma esigente è il riposo del cuore spezzato. È il contrario del cuore smarrito e distratto che, secondo la massima pascaliana, cerca un’illusoria via di uscita nel non pensare.
È inevitabile che non si riesca a reggere sempre il peso del pensiero. Nella vita di ciascuno la distrazione chiede la sua parte; è decisivo che si tratti di una parte e non già del tutto. Il cuore spezzato e non smarrito è quello che, almeno ogni tanto, si pone in ascolto del dolore del mondo. Anche quando se ne ode soltanto una qualche eco, il suo suono è tale da trasformarsi in invito a evitare, oltre la distrazione, anche la violenza: «imparate da me che sono mite».

Uccidere è sempre un male, anche quando vi si è costretti
Chi ode il dolore del mondo sa che la mitezza e la nonviolenza non sono sempre nelle condizioni di prevalere sulla violenza. Ci sono circostanze, e quest’ultimo anno ne è ulteriore conferma, in cui si è costretti a essere ingiusti, vale a dire in cui si è obbligati a rispondere alla violenza con la violenza. Il cuore allora è chiamato a mantenersi spezzato e, in questo caso, anche penitente. Uccidere è sempre un male anche quando si è obbligati a farlo. L’accento, allora, non va posto sulla giustizia perché essa non c’è. Quanto il cuore, vale a dire la coscienza-intelletto-volontà, è chiamato a fare è il discernimento della costrizione: la violenza è davvero inevitabile?
Un problema tra i più gravi, come lo è la risposta. E quando la conclusione è «sì», il cuore è chiamato a spezzarsi: «Un cuore spezzato e affranto tu Dio non disprezzi» (Sal 51.19).
La mitezza non è la nonviolenza integrale, è l’anti-eroismo integrale. Rimane, però, da porsi la difficile domanda se una certa dose di eroismo, ossia di esaltazione per una vittoria raggiunta o almeno possibile, sia una componente inevitabile sul piano dell’efficienza pratica.
«Felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35,10). I verbi al futuro ci attestano, da un lato, quanto ci manca e dall’altro la non rassegnazione alla situazione presente.
Ha scritto Jürgen Moltmann: «Chi spera in Cristo non può più sopportare la situazione così com’è, ma comincia a soffrire sotto di essa, a contraddirla. Pace con Dio significa conflitto con il mondo, perché il pungolo del futuro promesso trafigge inesorabilmente la carne di ogni presente incompiuto».
È il cuore spezzato, ma è anche il giogo leggero che da una parte ci convince di non aver vissuto e di non vivere invano, e dall’altra non ci ripara dal dolore, anzi lo suscita.
Nessun accadimento in quanto tale ci insegna qualcosa. Le prove di questa massima sono innumerevoli, pandemia compresa. Perché ci ha insegnato così poco? Perché vi è una spinta irrefrenabile a vivere come prima?
Perché a mutare il cuore non sono i fatti, ma i modi d’interpretarli. È la fatica del cuore spezzato, ma anche è il giogo posto sulle nostre spalle che diviene leggero perché ci dona quello che nessun altro ci può dare: il senso di non vivere invano.
Per sperare, però, occorre avere orecchi capaci di udire una voce che viene da fuori di noi: «Dite agli smarriti di cuore».

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

Cerco, come tanti, di trovare un filo logico che possa dare una ragione plausibile a questa guerra ma faccio sempre più fatica a trovarlo.
Anche il cosiddetto “mondo cattolico” è profondamento diviso tra coloro che sono contro ogni guerra e coloro che, in nome del diritto internazionale violato, difendono a spada tratta le ragioni dell'Ucraina e con essa anche le ragioni delle democrazie e delle libertà occidentali.
Ma la realtà, da molto tempo, appare ormai più complessa: solo con uno sforzo di fantasia questa guerra può ancora essere considerata un conflitto tra Ucraina e Russia. I grandi proclami di Putin e Biden confermano che la guerra è tra Nato e Russia, che la “lista della spesa” di Zelenskj (razzi, carri armati, sommergibili, droni, ecc) sembra senza fondo e rischia di ampliare sempre di più il fronte del conflitto, che l'Italia stipula accordi per le forniture di gas con un Paese, l'Algeria, che si accinge ad entrare nel fronte anti-occidentale dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, SudAfrica), che la Turchia ricatta la Nato per aver mano libera nella pulizia etnica degli Armeni: nella guerra ogni logica è smarrita e le contraddizioni diventano la regola.
Senza dimenticare il rischio che qualcosa sfugga di mano provocando una apocalittica guerra nucleare.
Ci sono certamente dei diritti che sono stati calpestati ma questo non può divenire un attenuante che dispensa dal rispetto di alcuni criteri fondamentali che limitano e arginano la violenza e i massacri, le morti dei civili e degli innocenti, le distruzioni e le povertà conseguenti e questo è l'insegnamento del Catechismo della Chiesa cattolica sulla legittimità del ricorso alla guerra che al paragrafo numero 2309 cita quattro insuperabili criteri di giudizio:

  1. che il danno causato dall'aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo;

  2. che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci;

  3. che ci siano fondate condizioni di successo;

  4. che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare.

Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione e quindi il ricorso ad armi che potrebbero coinvolgere nella distruzione l'intero pianeta.
E' chiaro che per il Catechismo della Chiesa Cattolica queste sono quattro condizioni da realizzare 'in modo integrale e anche in contemporanea'.
Pertanto, secondo il Catechismo la mancanza di rispetto anche di una sola condizione o anche di una sola parte di essa rende immorale il condurre la guerra. In questa caso deve scattare una concreta ed esplicita condanna della guerra in atto e di chi la sta portando avanti.

Come abbiamo già scritto:
“Certo, le situazioni di guerra sono sempre complesse e non sempre è facile applicare questi criteri, c’è sempre un giudizio prudenziale di cui tenere conto. Però nel caso dell’Ucraina, soprattutto dopo un anno di guerra, abbiamo già abbondanti indicazioni: se il primo criterio si è realizzato, già sul secondo ci sarebbe molto da discutere. Ma è sul terzo e sul quarto che la questione si fa molto grave”.

Del resto le perplessità sono chiaramente espresse anche dal cardinal Matteo Zuppi in una lectio magistralis all’Università di Roma: “Sono rimasto colpito dal fatto che a Bruxelles una risoluzione che sollecitava l’apertura di un negoziato sia stata bocciata a larga maggioranza. Non è questa l’Europa che ha detto il suo 'mai più' alla guerra”.
È ancora una volta è rimasto Papa Francesco a ricordare a tutti che si tratta di una «guerra assurda e crudele» rivolgendo al mondo intero una semplice domanda: “«È stato fatto tutto il possibile per fermare la guerra?».
Al di là delle contrapposizioni presente anche tra i cattolici, la domanda posta dal Papa è quella che mette a nudo il vero problema di questa guerra: fin dall'inizio mai nessuno dei contendenti (USA, Russia, Ucraina, Europa) ha mai cercato e voluto un negoziato, mai si è cercata una via diplomatica, un dialogo, nemmeno una tregua che faccia tacere almeno per qualche giorni le armi.

Come scrive Fontana:
...la guerra si fa con le armi, ma si fa anche con la regia delle informazioni, la propaganda, la creazione di una opinione pubblica favorevole. Dietro e dentro una guerra operano molti interessi particolari, alcuni di essi sono noti mentre altri non si vedono perché rimangono sotto traccia. La guerra è fatta dagli eserciti in campo ma anche dai servizi segreti nell’ombra. Durante una guerra molti avvenimenti hanno cause segrete, i loro veri autori non verranno mai nominati dalle agenzie e le descrizioni dei giornali non accedono al backstage ma si fermano al proscenio. Le guerre hanno cause prossime ma anche cause remote. Spesso sono conseguenza di una lunga storia di errori, ingiustizie e violenze di varia responsabilità e i cui fili sono difficili da riannodare. La guerra è sempre anche un fenomeno globale, coinvolge tutte le dimensioni della vita civile dei popoli coinvolti direttamente o indirettamente.
In sintesi: la guerra è una cosa molto complessa. Chi la semplifica non fa gli interessi della pace. Affrontare la guerra come cosa complessa, senza paraocchi ideologici o di interessi di qualche genere che si sovrappongano ai fatti, può permettere di trovare qualche spiraglio per avviare un timido e fragile processo di raffreddamento della situazione se non proprio di pace, dato che anche la pace è una cosa complessa.
Semplificare in modo rigido e schematico tra il bene e il male dà sempre l’impressione di una impostazione di parte. È proprio delle parti in causa, infatti, presentare il quadro come uno scontro tra la giustizia e l’ingiustizia, ma raramente è così nella realtà delle cose. Ciò non vuol dire non dare un giudizio sulle responsabilità, soprattutto quelle più scatenanti, significa piuttosto farlo lasciando parlare anche la storia, depurando il discorso dalle forzature, non tacitando le voci critiche e pensanti con una tesi preconfezionata.
Quanto detto vale anche per la guerra in Ucraina. L’aggressione c’è stata, ma questo non chiude la questione, piuttosto la apre ad una serie di considerazioni che permettano di ampliare lo sguardo alle cause e alle concause. Davanti ad una aggressione i modi di rispondere possono essere tanti sia per l’immediata difesa da parte dell’aggredito sia per l’azione della diplomazia internazionale, sia per l’informazione dell’opinione pubblica. Cancellare i concerti degli artisti russi in Europa significa non distinguere i piani. Mettere le armi in mano ai civili per la difesa della nazione vuol dire assegnare delle responsabilità improprie. Mettere una pietra sopra al problema di una regione ucraina di nazionalità e lingua russa significa non considerare il problema delle minoranze, che è invece una acquisizione del diritto internazionale e delle genti.
Presentare la storia delle culture dividendo la storia europea dalla storia russa e addirittura contrapponendole è un errore di metodo storico prima ancora che politico. Mentre c’è bisogno di categorie che uniscano, si sfornano categorie che contrappongono irrimediabilmente. Pensare che l’unico modo di fronteggiare l’aggressore sia punirlo militarmente dell’aggressione è sbagliato e reca danno all’aggredito stesso che va protetto sì, ma difeso anche per vie non militari e senza tacere eventuali sue responsabilità passate e presenti. La storia ha i suoi diritti dall’una e dall’altra parte.
L’opinione pubblica dei Paesi occidentali non è mai stata messa in grado di conoscere la complessità della situazione e delle possibili vie diplomatiche verso un processo, magari complicato, di pacificazione. Non è mai emersa, per esempio, la possibile soluzione di un Donbass a statuto speciale, soluzione già attuata in altre occasioni, oppure quella di un cessate il fuoco temporaneo.
La narrazione prevalente è stata quella della semplificazione forzata, dell’amplificazione spettacolare di una sola versione, di schematiche contrapposizioni tra occidente e oriente, tra democrazia e autoritarismo, tra cristianesimo occidentale e orientale. Tutte le antinomie che potevano alimentare il fuoco della contrapposizione sono state coniate e diffuse. E questo è evidente nella superficialità delle opinioni espresse dalla gente comune, che conosce solo il bianco e il nero, che non fa sconti a nessuno, che ha rinunciato all’analisi critica.
Le grandi testate giornalistiche non hanno svolto a pieno il loro dovere, che non doveva essere certamente quello di negare delle responsabilità, ma quello di portarne alla luce anche delle altre. Ancora meno lo hanno fatto i servizi della TV di Stato che spesso si sono piegati ad un appiattimento informativo filogovernativo privo di ripensamenti. Si spiega così l’assenza nei Paesi occidentali di una vasta e impegnata opinione pubblica che prema per la pace. Non si sono viste manifestazioni o marce. Non mi riferisco al pacifismo ideologico, generico e adolescenziale, quello delle bandiere arcobaleno sul balcone, ma di un pacifismo adulto serio e documentato, che non cancella le responsabilità ma non si piega alle interpretazioni univoche. Un pacifismo consapevole della complessità della guerra
.

I dubbi e le domande che sorgono su questa guerra non devono però oscurare la testimonianza cristiana di aiuto, solidarietà, vicinanza che arriva da parte di associazioni cristiane e molti volontari che, con il loro operato solidale, indicano che può esserci una speranza anche nell'abisso della tragedia.


LA CARITAS IN UCRAINA

di Ettore Fusaro è membro dell’Ufficio Europa di Caritas italiana. Dall’aggressione russa del 24 febbraio del 2022, si occupa dei progetti di aiuto in Ucraina, in cui si sposta frequentemente. Approfittando della sua lunga esperienza in Caritas, gli abbiamo sottoposto alcune domande non solo sull’azione caritativa in Ucraina, ma anche sulla situazione al termine del primo anno di guerra. L’intervista è a cura di Giordano Cavallari.

– Ettore, quando sei stato l’ultima volta in Ucraina?
Ci sono stato poco prima delle feste di Natale, quindi due mesi fa. In questo tempo sono rimasto costantemente in contatto. In precedenza, ci sono stato per mesi, dall’inizio della guerra, in via quasi continuativa. Mi sto organizzando per il prossimo viaggio: sarà dopo il difficile anniversario del 24 febbraio.

– Qual è l’obiettivo della prossima spedizione?
La situazione, come noto, è sempre molto tesa. Vado – assieme ad altri operatori del team di Caritas internationalis – per seguire e coordinare i vari progetti di aiuto che sono già in essere e per programmarne altri, nuovi. Il problema che ho davanti è che non riusciamo – a motivo di una situazione così tesa (e diciamo pure pericolosa) – a fare piani di intervento di lungo periodo.

– Quali sono le difficoltà?
Caritas lavora necessariamente per progetti di un certo respiro, che hanno un inizio e dovrebbero conoscere una fine prevedibile, con la relativa rendicontazione ai donatori. L’intento è sempre quello di dare quanto più “respiro” alla popolazione, alla povera gente, per aprire prospettive di futuro, con la più rapida emancipazione dalle difficoltà del presente. Ma, rispetto a queste finalità di fondo – in una crisi così forte e prolungata –, siamo costretti a rimanere ancora in attesa, in balìa degli eventi bellici.
Abbiamo in corso centinaia di interventi, in diversi luoghi dell’Ucraina, in tante comunità cristiane, per conto di diversi donatori, in un’emergenza che continua a prolungarsi, senza migliori orizzonti. Questo è il disagio, in primo luogo umano, che sto vivendo come operatore della carità. Nonostante gli anni di esperienza accumulati in ambito internazionale, sono preparato su emergenze di minore durata e con visioni di sbocchi più vicini.
Andrò, dunque, anche questa volta, per essere prossimo alle comunità ucraine attraverso le due Chiese nazionali cattoliche, cercando di affiancarle perché possano formulare le richieste di aiuto più appropriate nella situazione data, che è ancora di grave emergenza.
Lavorare in questo stato di cose dà pure più forza e tiene alti i livelli di motivazione e di impegno, anche se non possiamo fare più di tanto: abbiamo voglia di fare, ma non si può.

* La guerra e la presenza della Caritas
– Preoccupa l’entità delle risorse per affrontare le difficoltà?
Le offerte alle Caritas per affrontare le difficoltà della gente non sono mancate e non mancano. C’è ancora tanta generosità. Ma, nella società del consumo e dell’efficienza, non manca pure una concezione consumistica dell’offerta, se così si può dire. Giustamente si richiede la trasparenza, si vuol sapere quanto è stato raccolto nelle collette, che cosa è stato fatto e, soprattutto, in quanto tempo. Mentre in Ucraina, per certi versi, siamo sempre al punto iniziale.
Le posizioni, in inverno, si sono congelate in tutti i sensi: la gente che è sfollata all’interno dell’Ucraina è rimasta lì, dando luogo alla cronicizzazione di situazioni drammatiche.

– Mi pare di capire che servirebbe almeno una tregua. Quali sono gli umori in proposito?
Ci sono segnali di stanchezza e di logoramento nello stesso assetto organizzativo dell’Ucraina: destituzioni e cambiamenti nei posti chiave, secondo me, significano qualcosa. Ciononostante, si vuole resistere. Sarà così sino a quando una delle parti deciderà di fare un passo indietro o di mostrare un’effettiva volontà di trattare.
Il nostro compito è quello di essere presenti non solo per prestare soccorso alimentare o portare generatori di corrente elettrica ove vengono richiesti con urgenza, ma anche per assorbire le emozioni più forti o per aiutare a misurare le forze. I progetti possono passare in secondo piano, lo stile di presenza, invece, può passare in primo piano.

– Questo vuol dire che gli operatori della carità sono possono essere anche operatori di pace?
Parlare esplicitamente di pace in Ucraina è impossibile. Nessuno ne parla. E non circola alcuna idea di metodo per la costruzione della pace. Il portato dei grandi costruttori della pace – Danilo Dolci per fare un nome – è lontanissimo. Io credo tuttavia nella funzione maieutica degli operatori della carità, come della pace. Non andiamo a dire “basta alle bombe!”, ma parliamo di comunità.

– Quale lavoro sta svolgendo la Caritas?
Caritas italiana sta portando avanti due o tre azioni fondamentali. La prima è di supporto alle progettualità delle due Caritas nazionali, cattolica-latina (6 diocesi) e greco-cattolica (42 diocesi). Questi progetti confluiscono nel cosiddetto Emergency Appeal nazionale ucraino e coprono quasi tutto il territorio, a parte il Donbass occupato dalla Russia.
La seconda azione è coordinata con alcune Caritas diocesane italiane, ad esempio quella di Roma, che porta direttamente aiuti e generatori di corrente a Kherson.
Caritas sostiene pure diverse Ong collegate a congregazioni religiose in Ucraina, a Leopoli e a Kiev. Sosteniamo anche realtà più “laiche” in tante micro-realizzazioni.
Siamo intervenuti, per fare un altro esempio, nella diocesi di Kiev per l’attivazione di una mensa nell’episcopio durante il periodo invernale, naturalmente per tutta la popolazione nel bisogno.

– Caritas italiana è presente con operatori fissi in Ucraina?
Si sta valutando di insediare una presenza permanente a Leopoli e/o a Kiev. Il prossimo viaggio servirà anche a capire questo. Sino ad ora, io ho fatto la spola con l’Ucraina quale membro di un team internazionale nell’emergenza. Ora la squadra di Caritas internationalis è stata sciolta, ma sarà presto ripristinata in altra forma, meno numerosa nella composizione ma più stabile.

* La popolazione ucraina
– Come sta la gente in Ucraina?
La condizione della gente è diversa in relazione alle zone. Ma ovunque la povertà è crescente e i disagi sociali sono tantissimi.
L’avvicinarsi dell’anniversario dell’invasione sta, pubblicamente, riscaldando gli animi per fare mostra di un grande recupero di energie. Ma, nell’intimo di ogni famiglia, ciascuna vive la tragedia, anche se con diverse intensità, secondo il dolore. Non si parla mai, ad esempio, delle vittime ucraine tra i militari.
Si dice delle centinaia di militari russi che muoiono ogni giorno, ma la sensazione è che ne muoiano altrettanti fra gli ucraini. La gente non ne parla, se non dentro le case, perché non se ne deve parlare

Perché non se ne deve parlare?
Forse è un modus vivendi dettato dalla tradizione o indotto dalla forma pubblica. Non è bene mostrare alcun segno di debolezza. Questo pensa la gente. È la risposta all’aggressione subìta dalla Russia di Putin, dai russi. Questa cosa continua ad impressionarmi. È probabilmente comprensibile solo dall’Ucraina, là dove, anche a distanza di migliaia di chilometri dal fronte, si susseguono gli allarmi e capita frequentemente di alzare la testa e vedere i razzi nel cielo.
Parlo di persone che si sentono in guerra, che si sentono aggredite, minacciate, toccate profondamente nella vita quotidiana: i loro diritti sono limitati dalla guerra, nella loro facoltà di muoversi, di comunicare, di cercarsi un lavoro ecc. Tutto è gravemente limitato dalla guerra
.
– Quali sono le conseguenze economiche e quindi di tenore di vita della popolazione?
Dopo essere precipitato del 40%, forse il PIL dell’Ucraina è risalito. Ma la sensazione che qui voglio condividere è che l’economia dell’Ucraina si regge ormai solo sugli aiuti e solo sulla guerra. Anche gli scampoli di economia che tirano sono fortemente funzionali alla guerra. Questo dato sistemico è evidentemente molto pericoloso, non solo per l’oggi, ma anche e soprattutto per il domani. Si sta sviluppando in Ucraina un’economia di mero aiuto e di dipendenza internazionale.
Per me, è molto preoccupante notare come la richiesta più pressante sia quella delle armi: più pressante della stessa richiesta, ad esempio, dei generatori di corrente o dei depuratori d’acqua per il sostegno alla popolazione e alla vita civile e produttiva. Non mi pare che i Paesi occidentali si stiano adeguatamente preoccupando di questo.

– Dal punto di vista militare, come vanno le cose?
Il mio pensiero, al riguardo, è molto infantile: non sono certo un esperto, né voglio esserlo. Tirarsi i sassi è una cosa. Spararsi con i fucili è già un’altra cosa. Usare i carri armati è un’altra cosa ancora. E via di questo passo. Ciò per dire che il livello dello scontro militare si sta alzando sempre più.
Sappiamo chi ha aggredito e con quale forza. Chi ha la forza delle armi, in guerra, è ritenuto il più forte. Per cui bisogna armarsi sempre di più. Ma questa è la solita logica della guerra totale, dell’assenza del dialogo e, ancor più tragicamente, dell’assenza di ogni regola di umanità.
Il guaio di fondo, secondo me, è che non ci sono solo due parti in conflitto con un mediatore in mezzo. Ci sono l’Ucraina e la Russia e tanti diversi mediatori, ciascuno con la propria parte e i propri interessi da sostenere. Le Nazioni Unite sono delegittimate. Due dei cinque membri del tavolo permanente dell’ONU sono pienamente coinvolti: uno fa la guerra e l’altro lo appoggia. Qualsiasi risoluzione di pace non verrà mai approvata.
L’Europa parla lingue diverse. Questo caos fa gioco alla Russia che sta continuando a compiere nefandezze, senza essere messa all’angolo dalla comunità internazionale in maniera veramente seria. In qualche modo, il caos fa gioco anche all’Ucraina che batte cassa tra i principali Paesi europei. Senza parlare degli Stati Uniti. Francamente, non so a quanti stiano veramente a cuore i valori democratici che tutti dicono di voler difendere.

– Hai accennato ai cambi di vertice in Ucraina. Cosa significano?
Col passare del tempo, le certezze della prima ora possono essere mutate. Probabilmente c’è chi mantiene la fermezza e chi è preso dall’incertezza. Il caso politico ucraino è assai complesso. Lo era ben prima di questa guerra.
Tieni conto, poi, che l’amministrazione dello Stato è sempre più affidata a militari. Sempre più figure militari sono poste ai vertici. La linea ufficiale dice che questo è il momento – più che mai – in cui tenere duro e non cedere in nulla. Questa è la linea rappresentata da Zelensky. Ma quanto questa sia seguita integralmente da tutto l’apparato non sono in grado di dirlo.
Posso dire invece che, tra la gente, ho raccolto tante opinioni, anche con sfumature diverse tra loro. Non ho sentito solo dire «mandiamo fuori i russi!», ma anche «che sarà della mia casa, del mio quartiere, dei miei figli?».

* I rapporti tra le Chiese
– Come va tra le Chiese in Ucraina?
Il lavoro di Caritas con le due Chiese nazionali cattoliche sta manifestando segni visibili: il conflitto ha avvicinato le comunità nella sofferenza; la speranza unisce.
È tutto molto complicato in Ucraina, ma i percorsi di prossimità stanno danno luogo a qualcosa di nuovo e di bello, in senso cristiano. Purtroppo, non c’è molto tempo per pensarci su e per valorizzare le esperienze. Ma ci sono davvero cose belle.

– Riguardo alle Chiese ortodosse, cosa puoi dire?
Come sapete, c’è stata una forte presa di distanza della Chiesa ortodossa ucraina – quella autocefala – insieme alla Chiesa greco-cattolica da quella ortodossa russa, con la ricerca, ad esempio, della conciliazione sulla data del Natale. Ho visto qualche segnale positivo. Non vedo, peraltro, una Chiesa ortodossa russa omogeneamente schierata in Ucraina. Ho notato tanti gesti di solidarietà tra ortodossi e cattolici, indifferentemente, nella comune situazione di difficoltà. Questi mi sembrano i fatti più importanti.
Cerco di guardare le cose sempre dal punto di vista della comunità umana, fatta da tante comunità e persone particolari. Quando tutti si è nel bisogno, ci si aiuta.
Siamo in vista dell’anniversario della guerra e, perciò, ci si sta “gonfiando il petto” per l’occasione. Ma sotto l’apparenza guerresca c’è tanto altro che sta lavorando nell’umanità ucraina.

* Profughi
– Hai l’occhio anche sui milioni di profughi ora al di fuori dell’Ucraina? Cosa puoi dire?
In Polonia ci sono cinque milioni di profughi ucraini. Il Paese ha modificato le proprie leggi sull’immigrazione per integrare questo flusso nell’economia locale. La Polonia è molto sostenuta dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti. Tale dato significa una prospettiva diversa: non breve, ma molto lunga, forse persino definitiva.
Della Polonia non so francamente molto, perché non vi siamo presenti come Caritas italiana. Conosco molto meglio la realtà della Romania ove stiamo curando un progetto di accoglienza di profughi ucraini fragili e molto fragili: circa duemila presone nelle due principali diocesi cattoliche. Devo dire di essere orgoglioso dei colleghi romeni che lavorano con un’alta qualità dei servizi ma soprattutto con una grande attenzione per gli ucraini.
Ciò che mi sembra stia emergendo dall’accoglienza prestata nei Paesi limitrofi è che l’ospitalità può andare di pari passo con una maggiore cura delle povertà della popolazione locale. In Romania questo si sta facendo in maniera molto intelligente e interessante. Anche in Italia, Caritas cerca di lavorare in questo modo: l’accoglienza dei profughi ucraini incentiva a organizzare migliori servizi per tutte le categorie di povertà.

– Quali sono le conseguenze della guerra sulla povertà globale?
Abbiamo già visto, nel primo anno di guerra, molte conseguenze negative, soprattutto sull’esportazione dei cereali e di altre fondamentali materie prime.
Penso che, in questo 2023, se la guerra andrà avanti in questo modo, le cose non potranno che peggiorare. C’è da mettere nelle previsioni un drastico calo delle produzioni in Ucraina, così come un ulteriore difficoltà di transito e di commercio.

– Cosà accadrà nella prossima primavera?
Voglio naturalmente alimentare una sana speranza e un po’ di gioia cristiana. Come ho detto, il livello della potenza di fuoco sta aumentando, non sta diminuendo. Poi tutto può accadere. Per la prima volta nella mia esperienza, faccio fatica ad immaginare che cosa sarà il domani, in Ucraina e nel mondo. Ci troviamo al centro di una “tempesta perfetta”, come è venuto di moda dire e scrivere. Peserà la crisi gravissima del terremoto in Turchia e Siria.
Mi piacerebbe comunque che la prossima volta ci potessimo sentire da Leopoli, ad esempio, non solo per rappresentare la riuscita di un progetto, bensì per narrare qualche episodio di vita vissuta, con carità. Potrà lasciare qualche migliore ricordo ai lettori e soprattutto far pensare che – nella carità – c’è ancora motivo di credere e di sperare.

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

LA LEGGE DEL CONFLITTO

Avverrà, negli ultimi giorni,
che il monte della casa del Signore
si ergerà sulla vetta dei monti,

e sarà elevato al di sopra dei colli;
e tutte le nazioni affluiranno a esso.
Molti popoli vi accorreranno, e diranno:
«Venite, saliamo al monte del Signore,
alla casa del Dio di Giacobbe;
egli ci insegnerà le sue vie,
e noi cammineremo per i suoi sentieri».
Da Sion, infatti, uscirà la legge,
e da Gerusalemme la parola del Signore.
Egli giudicherà tra nazione e nazione

e sarà l'arbitro fra molti popoli;
ed essi trasformeranno le loro spade in vomeri d'aratro,
e le loro lance, in falci;
una nazione non alzerà più la spada contro un'altra,
e non impareranno più la guerra.
Casa di Giacobbe,
venite, e camminiamo alla luce del Signore (Is 11, 2-5)

Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici (Mt 5,43-44).

Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici (Lc 6,27).

La guerra nella storia umana
Russi e Ucraini. Ebrei e Palestinesi. Tutu e Hutsi. Bianchi e Neri. Greco-ciprioti e Turco-ciprioti. Serbi, Croati, Bosgnacchi. Iraniani e Iracheni. Sovietici e Afghani. Americani e VietCong. Egiziani e Israeliani. Nordcoreani e Sudcoreani. Tedeschi e Britannici. Tedeschi e Francesi. Francesi e Italiani. Italiani e Tedeschi. Sovietici e Americani. Cinesi e Giapponesi. Giapponesi e Americani. Austriaci e Italiani. Austriaci e Ungheresi. Francesi e Prussiani.

Questo è il filo che unisce la storia umana, di guerra in guerra, di nemico in nemico. Lungo questo filo si snodano i decenni, i secoli,i millenni fino a noi.
Dopo la fine della seconda Guerra mondiale abbiamo avuto, qui in Occidente, 75 anni di pace: la guerra continuava a pezzetti altrove.
Con la guerra tra Russia e Ucraina qualcuno ha scritto che la pace era finita: ricominciava la storia!
E in questa storia l'uomo ha sempre convissuto con la guerra anche se magari di quella guerra ne cambiava il nome, le ragioni, l'obiettivo: “guerra santa, giusta, d’indipendenza, di liberazione, di conquista, di religione, di successione, di secessione, di mafia, civile, coloniale, lampo, di posizione, tribale, totale, nucleare, convenzionale, non convenzionale”.

La guerra è lotta, è gioco di ruolo: l'amico e il nemico, i reciproci alleati.
La guerra è conflitto per stabilire il vincitore e il vinto.
La guerra è azione, è brama di vittoria, è brama di potere.

Il vincitore è colui che pianta i “paletti”, colui che stabilisce i confini.
Un lembo di terra e un confine. Dove passa il confine? Dove si piantano i pali? Dove si alza il muro? Dove finisco io e dove cominci tu?
La guerra è, anche e soprattutto, una questione di identità
.
L’alterità traccia il confine e mi permette di definire la mia identità.
Posso conoscermi e riconoscermi solo grazie alla presenza dell’altro, solo dentro una relazione posso diventare me stesso (me stessa…). L’altro che mi sta al fianco concorre alla mia definizione, perché io, da me, non mi autodefinisco. Solo il confine mi definisce.
Con l’alterità possiamo incontrarci o possiamo scontrarci: il “conflitto” è il respiro della relazione.
Il verbo “confligere” 
ha in sé una duplice anima: confligere è uno “spingere ad incontrarsi” – per cercare lo scambio, il riconoscimento reciproco, l’amarsi. Ma è anche, ed è questa l’accezione più diffusa, un incontrarsi per distruggersi”.

Ma la guerra, il conflitto non si incunea solo nel rapporto con l'alterità, con l'altro, con il diverso da noi: essa trova alimento nell'immaginario umano, nel mito, nell'immaginario; la lotta, il nemico, l'azione, l'eroe: un immaginario, come scrive il filosofo Zecchi, che vive ogni giorno dentro di noi, nella nostra quotidianità, nel nostro linguaggio: si fa la guerra alla criminalità, alla mafia, alla povertà, alla corruzione. Fin da bambini si gioca agli indiani e ai cowboy, a guardie e ladri, si gioca contro nemici fantastici e favolistici costruiti dalla tecnologia delle play-station.
La guerra occupa, pervade il nostro immaginario, la nostra fantasia ben al di là di ogni spiegazione razionale..
La guerra si nutre d'immaginazione e il suo terreno è sempre ben coltivato, fin dalla notte dei tempi, dai miti pagani ai testi dei monoteismi biblici e coranici, dai giochi dei bambini, dalla retorica della propaganda. L'immaginazione alimenta la guerra, prima del suo scoppio e durante la battaglia, e quando finisce diventa letteratura, cinema, musica, arte.
Per capire cosa sia la guerra dobbiamo inevitabilmente riferirci all'immaginario che di essa ci facciamo, perché una riflessione scientifica può arrivare a spiegarci le cause storiche ed economiche che scatenano il conflitto, ma poi c'è un anello mancante, e la spiegazione si arresta di fronte all'indicibile: il perché dell'orrore, del sangue, della morte, della devastazione rimane senza risposte razionali e l'inumano finisce per trasformarsi in versi poetici sublimi, in opere d'arte, in film, in gioco. L'anello mancante non lo fornisce il pensiero scientifico, la dottrina della guerra, ma il salto nell'immaginario che è antico come l'esistenza dell'uomo
”.

Costruire il nemico
Ma chi sono i nemici? Chiunque insidia il mio confine, la mia identità. Tutti i popoli lo sono stati o lo sono tutt'ora come nell'elenco che abbiamo posto all'inizio di questo scritto; sono popoli che si odiano, che imbracciano armi per farsi violenza, che si ammazzano reciprocamente, in una sorta di raptus collettivo.
Scompare ogni dialogo e ogni comunicazione, ogni legame: tra loro, ormai nemici, non rimane che recitare la propria parte fino in fondo, fino alla morte, anche oltre la morte per l'odio che si protrae per generazioni.
Genocidi e stupri di guerra squarciano la tela della menzogna: la guerra si autogiustifica attraverso una retorica criminale che spaccia per eroismo ciò che, nella sua radice profonda e nella sua concreta realizzazione, altro non è che violenza bruta e assassinio....A guerra finita, tutto verrà sepolto dalla coltre di un silenzio vergognoso e colpevole; ma lì, nel cuore folle della guerra, la pratica bestiale dello stupro è simbolica inevitabile che sottoscrive, dichiara e rinforza l’anima perversa di ogni guerra: la terra per cui si combatte è un corpo di donna da violentare, ogni donna violentata è la terra su cui il vincitore firma con lo sperma e il sangue il proprio diritto di possesso....
La guerra giustifica e dà senso all’odio, la guerra costruisce e giustifica il nemico”.


Tragica legge della guerra: prima della guerra, russi e ucraini non si consideravano nemici; si sono scoperti nemici a febbraio dello scorso anno. Problemi di paletti, di confini, di proprietà, di identità.

La legge del conflitto
Questa legge del conflitto attraversa anche il cristiano: egli vive dentro questa tragica contraddizione: “confligere” cioè incontrarsi oppure scontrarsi. Non si vive senza gli altri, ma questo non significa che non si vive senza lottare con essi.
Questo “lottare con gli altri”, questo “scontrarsi” diviene talvolta irriducibile, non risolvibile: è la legge del conflitto! Una legge che anche il credente sperimenta quotidianamente: ciascuno è radicato nella società in cui vive, con la famiglia a carico, membro di un gruppo, impegnato in un mestiere: ogni uomo ha responsabilità che sono sue e non sono quelle degli altri, è legato a una sua propria situazione determinata; ha certi interessi da difendere e diritti da far valere.

Scrive il teologo De Certeau:
Se si sottraesse al suo compito particolare col pretesto che è in conflitto, o quanto meno in concorrenza con gli interessi che altri rappresentano, tradirebbe dei fratelli e dei figli, abbandonerebbe la propria funzione, particolare ma necessaria a tutti – e ciò in nome di un universalismo utopico.
Smettendo di coltivare la porzione di terra che gli è affidata, e credendo così di lavorare meglio per tutti, smetterebbe qualsiasi lavoro perché non c’è lavoro che non sia particolare.
Per evitare le tensioni che i suoi doveri verso alcuni comportano e per riconoscere così i diritti di tutti, porrebbe come principio di una universale carità (o giustizia) ideale la negazione della carità effettiva dovuta al suo prossimo immediato.
A volersi testimone dell’universale, si prenderebbe per un Dio responsabile di tutto, mentre è responsabile solamente della parte che la sua condizione d’uomo gli assegna. Gli uomini sono in conflitto proprio perché non sono “dèi”: da ognuno di loro non dipende tutto, ma solo 'quello'
 ”.

La fede cristiana non ci mette a parte con facili consolazioni, non ci sottrae alle contraddizioni della storia, non ci mette al riparo dai conflitti.
Dentro l'ineliminabile legge del conflitto il cristiano deve testimoniare la profezia di un'altra Legge: Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici (Lc 6,27)..
Persino dentro la ferocia della guerra può elevarsi una possibilità di salvezza per l’anima umana, una salvezza che viene dai gesti di abnegazione e di amore, di perdono, di un farsi prossimo, di un dare la vita perchè altri abbiano salva la loro vita; una testimonianza che è preziosa profezia per il cristiano ma che persino la tradizione letteraria non ignora:
“...tra i versi dell’Iliade s’intrecciano vicende sublimi di amore, nelle sue forme più pure e diverse: amore di ospitalità, amore filiale, amore fraterno, amore coniugale. Ma, afferma a chiare lettere Simone Weil, il trionfo più puro dell’amore, la grazia suprema delle guerre, è l’amicizia che sale al cuore dei nemici mortali. Proprio questo amore che riesce ad unire i nemici fa sparire la fame di vendetta per il figlio ucciso, per l’amico ucciso; cancella, miracolo ancora più grande, la distanza tra benefattore e supplice, tra vincitore e vinto. Dalla consapevolezza che nulla è al riparo dalla sorte fiorisce il lascito più vero di quel poema epico: non ammirare mai la forza, non odiare i nemici, non disprezzare gli sventurati.

Admira e Boško
Un semplice fatto di cronaca, un racconto sullo sfondo di un'altra assurda guerra combattuta in Europa:
Fuggire da Sarajevo e vivere, altrove, una vita normale. Era questo, nel maggio del 1993, il sogno di Admira Ismić e Boško Brkić, due ragazzi di venticinque anni che la guerra di Bosnia aveva reso nemici. Admira musulmana, Boško serbo-ortodosso: si erano conosciuti al liceo otto anni prima, quando Sarajevo, come Mostar, era una città simbolo di convivenza pacifica e la separatezza etnica e religiosa non era ancora diventata una bandiera da sventolare con odio irragionevole e cieco.
Con l’inizio della guerra, nella primavera del 1992, Sarajevo si era ritrovata sotto il tiro vigliacco dei cecchini, appostati negli ultimi piani dei grattacieli o sulle colline. Venticinque colpi raggiunsero Admira e Boško mentre cercavano di attraversare il ponte Vrbanja, che portava alla parte serba della città; da qui avrebbero poi tentato di organizzare la fuga verso l’estero. Venticinque colpi. Il primo raggiunse Boško, che morì subito; un secondo colpo ferì Admira, che riuscì a trascinarsi fino al cadavere di Boško, mentre i cecchini continuavano a sparare. Questa è la guerra.
Per otto giorni i corpi dei due fidanzati rimasero sul ponte, finché, negoziato un breve cessate il fuoco, i familiari poterono recuperarli e dare loro sepoltura.
Era il 19 maggio 1993, solo ieri, nel cuore d’Europa.
Resta qualche breve ripresa e la fotografia di due zaini neri riversi sul selciato, le scarpe da ginnastica, i jeans, le felpe.
Corpi giovani di ragazzi uccisi dalla Guerra, insensata, oscena e assassina come tutte le guerre”.

Su una lapide qualcuno ha scritto:
“Amate i vostri nemici”.
La Parola più scandalosa, esigente, rivoluzionaria, difficile, impraticata della nostra Storia.

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LA GUERRA E NOI
La guerra di solito mostra
ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo,
 la guerra è un momento
di domande scomode
e di risposte difficili.”

Proponiamo oggi un intervento dell'allora Card. Joseph Ratzinger pubblicato nel 2004. Il contesto è chiaramente differente rispetto a quello di oggi. Affronta, tuttavia, in modo quanto mai lucido e penetrante i temi della guerra, del terrorismo, della crisi dell'Occidente. In particolare, attraverso  un'ampia riflessione riesce a proporre in modo quanto mai concreto il contributo che, a partire dal cristianesimo, le religioni devono oggi assolutamente offrire al mondo in guerra per rispondere in modo davvero adeguato all'urgenza di trovare soluzioni concrete rispetto ai problemi che la guerra e tutte le annesse tensioni producono nel quotidiano. Questi mali allontanano tragicamente di fatto la vita di tutti dalla pace. Generano mali. Purtroppo, abituano ben presto le coscienze ad accettarli supinamente, quasi fossero un fattore imprescindibile per la vita in atto.
Oggi, particolarmente grave è l'affermarsi dentro lo scenario sociale di un dato tremendo, in se stesso realmente satanico: la confusione delle coscienze. Questo dato favorisce l'intorpidimento dell'agire umano e consolida, così, l'instaurarsi del crimine nella vita quotidiana senza che nessuno se ne accorga, lo rifiuti e lo combatta fino a estirparlo. La guerra, infatti, non scoppia mai improvvisa. Soprattutto, non è mai una necessità da accettare. Tanto meno, da favorire. La guerra è un male oggettivo che le coscienze dei giusti e degli innocenti devono sapere sempre denunciare in modo corretto, cioè non subdolamente ideologico e moralmente deviato. Devono cercare di contrastare. Devono, anzitutto, cercare di esercitare su questo male un sano discernimento grazie al quale essi sanno separare tutto ciò che va fatto da tutto quanto non può essere fatto e, quindi, deve essere subito bloccato. Questo significa scorgere secondi fini, oscuri e inaccettabili, che sovrappongono al doveroso e imprescindibile intervento di difesa il surrettizio e perverso aggiungersi di traffici loschi e criminali che nulla hanno a che vedere con l'intervento di difesa di chi è stato defraudato dalla giustizia. Magari, l'infiltrarsi di oscuri fini proposti dallo stesso satanico. Discernere è, allora, difendere senza esitazione e con la massima energia le persone inermi, sopraffatte iniquamente, senza però mai finire vittima delle mire fatte emergere da interessi indicibili di persone che sfruttano ogni occasione per avvantaggiarsi personalmente prima di tutto con guadagni economici. Discernere è, pertanto, difendere le vittime innocenti riuscendo, però, a tenersi alla larga da traffici economici perversi e annesse componenti politiche che li difendono. Discernere è liberare, il più in fretta possibile, dal sangue, dalla distruzione pianificata ad arte, da fatiche indicibili e persistenti che creano solo disperazione, da dolore e da privazioni indecenti che rendono la vita di fatto non più umana. Discernere è, detto in una parola, cominciare ad affermare che il bianco è solo bianco e il nero è soltanto nero. E' cominciare a espellere da ogni discorso il grigio. E compierlo con decisione totale. Discernere è , quindi, fare chiarezza. E' portare in primo piano la giustizia. E' spingere sulla ribalta, perché si vedano bene, gli imbrogli e i giochetti posti sempre sottobanco, perché non si vedano mai e non vengano finalmente messi fuori gioco una volta per tutte. E' riportare la diplomazia al suo onore e alla sua forza vincente. Alla sua capacità di portare la pace dove c'è solo guerra, sangue e morte. Al suo dovere di garantire che l'uomo, in ogni condizione di vita, sappia sempre comportarsi da uomo per vivere, prima di tutto, da uomo autentico.

L'Occidente, l'Islam e i fondamenti della pace

di Joseph Ratzinger, poi Papa Benedetto XVI - (1927-2022)

Quando, il 5 giugno 1944, iniziò lo sbarco delle truppe alleate nella Francia occupata dalla Wermacht, l'evento rappresentò per il mondo intero, compresa una gran parte dei tedeschi, un segnale di speranza: la speranza che in Europa presto sarebbero arrivate la pace e la libertà.

Che cos’era accaduto? Un criminale con i suoi accoliti era riuscito a impadronirsi del potere in Germania. Sotto il dominio del Partito, il diritto e l'ingiustizia si erano intricati tra loro in maniera pressoché indissolubile, tanto da travasarsi spesso l'uno nell'altra e viceversa. Questo perché un regime diretto da un criminale esercitava anche le funzioni classiche dello Stato e dei suoi ordinamenti, così che aveva facoltà, in un certo senso, di esigere di diritto l'obbedienza dei cittadini e il loro rispetto nei confronti dell'autorità dello Stato (Rm 12,1s.) ma nello stesso tempo utilizzava gli strumenti del diritto come mezzi per i suoi scopi criminali. Lo stesso Stato di diritto, che in parte continuava a funzionare nelle sue forme abituali all'interno della vita quotidiana, era diventato una potenza che distruggeva il diritto: la perversione degli ordinamenti, che dovevano servire la giustizia e contemporaneamente consolidavano e rendevano impenetrabile il dominio dell'iniquità, si traduceva in un dominio esteso e profondo della menzogna, tale da oscurare le coscienze. Al servizio di questo dominio della menzogna stava un regime di paura, nel quale nessuno poteva fidarsi dell'altro perché tutti in qualche modo dovevano proteggersi dietro la maschera della menzogna. Così fu di fatto necessario che il mondo intero intervenisse a spezzare il cerchio dell'azione criminale, perché fossero ristabiliti la libertà e il diritto. Oggi noi siamo grati al fatto che questo sia avvenuto, e a esser grati non sono soltanto Paesi occupati dalle truppe tedesche. Noi stessi, i tedeschi, siamo grati perché, con l'aiuto di quell'impegno, abbiamo recuperato la libertà e il diritto. Se mai si è verificato nella storia un bellum justum è qui che lo troviamo, nell'impegno degli Alleati, perché il loro intervento aveva come scopo il bene anche di coloro contro il cui Paese la guerra era condotta.

Questa constatazione mi pare importante perché mostra, sulla base di un evento storico, l'insostenibilità di un pacifismo assoluto. E ciò non ci esenta in alcun modo dal porci con molto rigore la domanda se oggi sia ancora possibile, e a quali condizioni, qualcosa di simile a una guerra giusta, vale a dire un intervento militare, posto al servizio della pace e guidato dai suoi criteri morali, contro i regimi ingiusti. Soprattutto, si spera che quel che abbiamo fin qui detto aiuti a comprendere meglio che la pace e il diritto, la pace e la giustizia sono inseparabilmente connessi. Quando il diritto è distrutto, quando l'ingiustizia prende il potere, la pace è sempre minacciata ed è già, almeno in parte, compromessa.

Ex Jugoslavia e Ruanda: l'arsenale dell'inimicizia

In Europa, a partire dalla fine delle ostilità, nel maggio 1945, ci è stato dato di vivere un periodo di pace lungo come non mai in tutto il corso della storia del continente. Questo, in gran parte per merito della prima generazione di politici che hanno operato nel dopoguerra - Churchill, Adenauer, Schumann, De Gasperi. A loro dobbiamo ancor oggi gratitudine, e dobbiamo essere grati che a guidare in maniera determinante la loro politica non fu un'idea di rivalsa, o di vendetta, o di umiliazione dei vinti ma il dovere di garantire a tutti un diritto; che in luogo della concorrenza fu introdotta la collaborazione, lo scambio di doni offerti e accettati, la mutua conoscenza e l'amicizia nel cuore di una diversità nella quale ciascuna nazione conserva la propria identità. La conserva nella comune responsabilità nei confronti del diritto, al posto della precedente perversione del diritto.

Il centro motore di quella politica di pace fu il legame fra l'agire politico e la morale. Il discrimine interno a qualsiasi politica è costituito dai valori morali che noi non inventiamo: essi esistono e sono gli stessi per tutti gli uomini. Diciamolo apertamente: quegli uomini politici hanno fondato la propria idea morale dello Stato, della pace e della responsabilità sulla fede cristiana, che aveva superato la prova dell'illuminismo e si era ampiamente purificata nel confronto con la distorsione del diritto e della morale operata dal Partito. Non volevano costruire uno Stato confessionale, bensì uno Stato che prendesse forma attraverso l'etica.

A ciò si aggiunge che l'Europa era divisa da una frontiera che non attraversava soltanto il nostro continente bensì il mondo intero. Una grande parte dell'Europa centrale e dell'Europa orientale si trovava sotto il dominio di un’ideologia che passava attraverso il Partito e sottometteva lo Stato al Partito, trasformandolo esso stesso in partito. Anche qui ne derivava un dominio della menzogna. Dopo il crollo di queste dittature, sono emersi con chiarezza i disastri economici, ideologici e spirituali da esse generati. Nei Balcani si è arrivati a conflitti armati nei quali senza alcun dubbio tutto il peso storico del passato produceva, per parte sua, ulteriori esplosioni di violenza. Ma sottolineare il carattere criminale di quei regimi ed essere felici che siano stati rovesciati non ci esime dal chiederci perché, alla maggior parte dei popoli africani e asiatici, a quei Paesi che erano detti "non allineati", il regime dell'Est appariva più morale e più realizzabile come modello rispetto all'ordinamento politico e giuridico dell'Occidente. È un sintomo, questo, di alcune deficienze nella nostra struttura, deficienze sulle quali dobbiamo riflettere.

Se è vero che l'Europa ha conosciuto dopo il l945 un periodo di pace, a parte l'eccezione costituita dai conflitti nei Balcani, tuttavia la situazione del mondo nel suo insieme è stata tutt'altro che pacifica. Dalla Corea al Vietnam, all'India, al Pakistan, dal Bangladesh all'Algeria, al Congo, al Biafra e alla Nigeria fino agli antagonismi del Sudan, del Ruandà e del Burundi, dell'Etiopia, della Somalia, del Mozambico, dell'Angola, della Liberia, fino all'Afghanistan e alla Cecenia, sotto i nostri occhi si dispiega un arco ampio e sanguinoso.

Non c'è modo qui di precisare più in profondità la natura di ciascuna di queste guerre le cui ferite continuano a sanguinare. Ma vorrei chiarire un po' meglio due fenomeni in qualche modo nuovi, nei quali è evidente la minaccia specifica del nostro tempo, e dunque anche i compiti specifici di una ricerca della pace. Il primo fenomeno consiste nel fatto che l'ordine giuridico sembra esplodere, e con esso la capacità di coabitazione tra comunità differenti. Un esempio tipico di tracollo della forza del diritto e di conseguente trionfo del caos e dell'anarchia mi sembra essere evidente in Somalia, ma anche la Liberia mostra che una società si disgrega dall'interno quando l'autorità dello Stato non è in grado di presentarsi come istanza credibile di pace e di libertà e ciascuno è indotto a difendere il suo diritto da sé e con la forza. Abbiamo assistito a qualcosa di simile anche in Europa, in seguito alla deflagrazione dello Stato jugoslavo unitario. Popolazioni che, nonostante le forti tensioni interne, per generazioni hanno vissuto insieme pacificamente, si sono improvvisamente levate le une contro le altre con una crudeltà inaudita. Si è trattato di un crollo spirituale: le barriere protettive preesistenti non hanno retto a una nuova situazione e l'arsenale di inimicizia e di violenza annidato nel profondo delle anime, trattenuto fino a quel momento dalla forza del diritto e dalla storia comune, è esploso senza freni. Come è stato possibile? E come è stato possibile che, improvvisamente, in Ruanda, la coabitazione tra hutu e tutsi precipitasse in un’ostilità sanguinosa da ambo le parti?

Le cause di questo crollo del diritto e della capacità di riconciliazione sono certamente molteplici. Possiamo evocarne diverse: il cinismo dell'ideologia aveva oscurato le coscienze, le promesse di quell'ideologia giustificavano ogni mezzo apparentemente idoneo a realizzarle e così avevano abolito la nozione stessa del diritto, quando non la distinzione tra bene e male. Accanto al cinismo delle ideologie, e spesso in stretta connessione, opera poi il cinismo degli interessi e dei grandi mercati, lo sfruttamento senza limiti delle risorse della terra. Anche così, in nome del profitto, il bene viene messo da parte e il potere sostituisce il diritto. Anche così la forza dell'ethos si dissolve dall'interno, con la conseguenza finale che lo stesso profitto ne risulta distrutto.
È a questo punto che un grande compito si impone ai cristiani della nostra epoca: noi dobbiamo per primi imparare a volerei riconciliare gli uni con gli altri e a fare di tutto perché sia la coscienza a dominare, invece di lasciarsi schiacciare dall'ideologia e dall'interesse. Nei Balcani soprattutto (ma lo stesso vale per l'Irlanda) il compito dell'autentico ecumenismo dovrebbe consistere nel ricercare insieme la pace di Cristo, nell'offrirla gli uni agli altri e anche nel considerare: la capacità di fare la pace come un autentico criterio di verità.

La nuova guerra mondiale: il terrorismo

L'altro fenomeno che oggi sommamente ci opprime è il terrorismo. È diventato col tempo una sorta di nuova guerra mondiale: una guerra senza un fronte fisso, che può colpire ovunque e non conosce distinzione tra combattenti e popolazione civile, tra colpevoli e innocenti. Dato che il terrorismo, ma anche la criminalità organizzata ordinaria - la cui rete si rafforza e si estende ogni giorno di più - possono trovare l'accesso alle armi nucleari e a quelle biologiche, il pericolo che ci minaccia è smisurato: finché questo potenziale distruttivo era sotto il controllo esclusivo delle grandi potenze si poteva sempre sperare che la ragione e la consapevolezza della minaccia che il loro uso rappresentava per la popolazione e per lo Stato ne escludessero l'uso. In effetti, nonostante tutte le tensioni che hanno caratterizzato i rapporti tra l'Est e l'Ovest, una guerra su larga scala grazie a Dio ci è stata risparmiata. Ma le organizzazioni terroriste e quelle criminali non hanno niente a che vedere con quel tipo di ragione, dato che uno dei pilastri del terrore poggia sulla disponibilità all'autodistruzione, un'autodistruzione trasfigurata in martirio.

Che cosa possiamo e dobbiamo fare in questa situazione? Prima di tutto è bene soffermarsi su alcune verità fondamentali. Non è possibile venire a capo del terrore, cioè della forza opposta al diritto e separata dalla morale, con il solo mezzo della forza. Certamente la difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l'uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all'iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza. Ma per evitare che la forza del diritto si trasformi essa stessa in iniquità, è necessario sottometterla a criteri rigorosi e riconoscibili come tali da parte di tutti. Essa deve interrogarsi sulle cause del terrore, il quale spesso trova la sua scaturigine in una situazione di ingiustizia alla quale non vengono opposte misure efficaci. Soprattutto è importante in queste situazioni rinnovare costantemente un'offerta di perdono, al fine di spezzare la spirale della violenza. Là dove, infatti, viene applicata senza quartiere la regola dell'"occhio per occhio", non c'è via d'uscita dalla violenza. Sono necessari gesti d'umanità che, rompendo con la violenza, cerchino nell'altro l'uomo e lo richiamino alla sua umanità, anche dove ciò appaia a prima vista come una perdita di tempo. È urgente l'avvento di un vero ius gentium libero da egemonie preponderanti e capace di interventi adeguati: solo così apparirà chiaro che in gioco è la protezione del diritto comune, del diritto di tutti, anche di coloro che stanno, come si suoi dire, dall'altra parte della barricata. Nella Seconda guerra mondiale è stato il verificarsi di questa condizione a risultare convincente e a portare a una vera pace tra le forze antagoniste. Non si operò, infatti, per il rafforzamento di un diritto particolare ma per il ristabilimento della libertà e del vero diritto, per tutti, anche se indubbiamente non si riuscì a impedire la nascita di nuove strutture egemoniche.

Ma nell'attuale scontro tra le grandi democrazie e il terrore di matrice islamica entrano in gioco questioni le cui radici sono ancor più profonde. Sembra di assistere oggi allo scontro tra due grandi sistemi culturali i quali sono caratterizzati in verità da forme molto diverse di potenza e di orientamento morale: l'Occidente e l'islam. E tuttavia, che cos'è l'Occidente? E che cos'è l'islam? Entrambi sono mondi polimorfi, e sono mondi anche interagenti. In questo senso è dunque un errore opporre globalmente Occidente e islam. C'è chi, tuttavia, tende ad approfondire ulteriormente questa opposizione, interpretandola come scontro tra la ragione illuminata e una forma di religione fondamentalista e fanatica. Si tratterebbe dunque di abbattere prima di tutto il fondamentalismo in tutte le sue forme e di promuovere la vittoria della ragione per lasciare campo libero a forme illuminate di religione.

Il fanatismo non è solo quello religioso

È vero che, in questo caso, il rapporto tra la ragione e la religione è di un'importanza decisiva, che la ricerca di un giusto rapporto è il fulcro dei nostri sforzi in materia di pace. Parafrasando un'affermazione di Hans Kung, direi che nessuna pace può esserci nel mondo senza l'autentica pace tra ragione e fede, perché senza la pace tra la ragione e la religione le sorgenti della morale e del diritto si esauriscono. Per chiarire il senso di quest'affermazione vorrei formulare il medesimo pensiero in chiave negativa: esistono le patologie della religione - sono sotto i nostri occhi - ed esistono le patologie della ragione - anch'esse ben visibili. Entrambe le patologie costituiscono pericoli mortali per la pace e, oserei dire, per l'umanità intera. Guardiamo le cose più da vicino: Dio, o la divinità, possono essere trasformati nell'assolutizzazione di una determinata potenza, di un determinato interesse. Se l'immagine di Dio diventa talmente faziosa da identificare l'assolutezza di Dio con una comunità particolare o con certe sue aree di interesse, ciò distrugge il diritto e la morale: il bene, in questo quadro, è ciò che sta al servizio della mia potenza, e la differenza tra bene e male svanisce. La morale e il diritto diventano di parte. E tutto questo peggiora ulteriormente quando la volontà di impegnarsi per fini particolaristici si carica di tutto il peso del fanatismo religioso, e diventa così totalmente cieca e brutale. Assistiamo a qualcosa del genere nel caso dei terroristi e della loro ideologia del martirio, un'ideologia che per la verità in certi casi particolari può essere semplicemente un'espressione di disperazione di fronte all'ingiustizia del mondo. Del resto anche fra noi, nelle sette presenti nel mondo occidentale, troviamo esempi di un irrazionalismo e di una deviazione della dimensione religiosa che mostrano come possa diventare pericolosa una religione quando perde il suo centro d'orientamento.

Ma esiste anche la patologia della ragione interamente separata da Dio. L'abbiamo vista nelle ideologie totalitarie che avevano negato ogni legame con Dio e intendevano così costruire l'uomo nuovo, il mondo nuovo. Hitler merita indubbiamente la qualifica di irrazionalista. I grandi profeti e i realizzatori del marxismo non sono meno segnati dalla pretesa di costruire il mondo unicamente a partire dalla ragione. Forse l'espressione più drammatica di questa patologia della ragione si incarna in Pol Pot: è in lui che si è manifestata con un'evidenza totale la crudeltà di una simile "ricostruzione" del mondo. Ma è lo stesso sviluppo spirituale dell'Occidente a tendere sempre di più verso patologie distruttive della ragione. In fondo la bomba atomica - con la quale la ragione, invece di essere forza costruttiva, intendeva rafforzarsi attraverso la capacità di distruzione - non era già un superamento dei limiti? E quando, attraverso la ricerca del codice genetico, la ragione si impossessa delle radici della vita, essa tende sempre più a non vedere nell'uomo un dono del Creatore (o della natura e a trasformarlo in un prodotto. L’uomo viene fatto, e ciò che si può fare si può anche disfare. La dignità umana scompare. E dove mai troveranno più un fondamento i diritti dell'uomo? Come potrà ancora sussistere il rispetto per l'uomo anche quando è vinto, debole, sofferente, handicappato? In questo quadro la nozione di ragione si appiattisce sempre di più. È ovvio che, se la realtà è unicamente il prodotto di processi meccanici, come tale non comporta nessuna morale. li bene in sé, che stava tanto a cuore ancora a Kant, non esiste più. Ed è proprio su queste basi che hanno agito di fatto le dittature ideologiche: in una determinata situazione può darsi che sia bene uccidere degli innocenti, se questo serve alla costruzione del futuro mondo della ragione. Ma così la loro dignità assoluta non esiste più.

Sull'etica un invito ai non credenti

La ragione malata e la religione manipolata finiscono con l'incontrarsi nel medesimo esito. Ogni riconoscimento di valori ultimativi, ogni asserzione di verità da parte della ragione finisce con l'apparire alla ragione malata come fondamentalismo. E non resta altro che la dissoluzione, la decostruzione, come da tempo ci insegna Jacques Derrida, che ha "decostruito" l'ospitalità, la democrazia, lo Stato e infine anche la nozione di terrorismo, per ritrovarsi poi atterrito dagli avvenimenti dell'11 settembre. Una ragione che sappia riconoscere solo se stessa e ciò che è empiricamente certo si paralizza e si autodistrugge.
Se l'illuminismo era alla ricerca di fondamenti della morale validi «etsi Deus non daretur», oggi noi dobbiamo invitare i nostri amici agnostici ad aprirsi a una morale «si Deus daretur». Il filosofo polacco Leszek Kolakowski, partendo dall'esperienza di una società agnostica atea, ha mostrato in maniera convincente che, in assenza di un punto di riferimento assoluto, l'agire dell'uomo si perde nell'indeterminatezza ed è ineluttabilmente in balia delle forze del male. Come cristiani siamo oggi chiamati non certo a porre limiti alla ragione o a opporci a essa, ma a rifiutarci di ridurla a una ragione del fare e a lottare a sostegno della sua capacità di cogliere il bene e il buono, il sacro e il santo. Solo una ragione che si mantenga aperta a Dio - una ragione che non esilia la morale nella sfera soggettiva e non la riduce a puro calcolo - può evitare la manipolazione della nozione di Dio e le malattie della religione, e può offrire qualche terapia.

È qui che si evidenzia la grande sfida che i cristiani d'oggi dovrebbero accettare. Il loro compito, il nostro compito consiste nel condurre la ragione a funzionare integralmente, non solo nel campo della tecnica e dello sviluppo materiale del mondo ma anche e prima di tutto in quanto facoltà di verità, promovendone la capacità di riconoscere il bene, il quale è condizione del diritto e con ciò anche presupposto della pace nel mondo. È specifico compito nostro, di cristiani del tempo presente, quello di inserire la nozione di Dio nella lotta per la difesa dell'uomo.

Un elemento della tradizione cristiana vorrei ancora ricordare, di fondamentale importanza nelle avversità del nostro tempo. La fede cristiana ha soppresso, seguendo il cammino di Cristo, l'idea della teocrazia politica. Per dirla in termini moderni, essa ha fondato la secolarità dello Stato nel quale i cristiani coabitano, nella libertà, con gli esponenti di altre convinzioni. Una coabitazione fondata peraltro sulla comune responsabilità morale, insita nella natura dell'uomo e nella natura della giustizia. La fede cristiana fa distinzione tra questa forma secolare e il Regno di Dio, che come realtà politica non esiste e non può esistere in quanto tale su questa terra, ma vive nella fede, nella speranza e nella carità e deve trasformare il mondo dall'interno. Le tentazioni di Gesù hanno come tema di fondo proprio questa distinzione, il rifiuto della teocrazia politica, la relatività dello Stato e il diritto della ragione, e anche la libertà di scelta, garantita a tutti gli uomini. In questo senso, lo Stato laico è un esito della decisione cristiana fondamentale, anche se è stata necessaria una lunga lotta per comprenderne tutte le conseguenze. Questo carattere secolare, "laico" dello Stato include nella sua essenza quell'equilibrio tra ragione e religione che ho cercato di illustrare in precedenza. Ed è per questa sua natura che si oppone anche a quel laicismo ideologico che vorrebbe stabilire qualcosa come uno "Stato della pura ragione", uno Stato separato dalle sue radici storiche e perciò incapace di riconoscere i fondamenti morali che alla ragione si impongono. Altro non resta allo Stato, su queste basi, che il positivismo del principio di maggioranza e la decadenza del diritto, con la conseguenza che quest'ultimo risulta essere retto in fin dei conti da criteri statistici. Se gli Stati d'Occidente si caratterizzassero integralmente in questo senso, alla lunga non potrebbero resistere alla pressione delle ideologie e delle teocrazie politiche. Uno Stato, anche se laico, ha il diritto e persino l'obbligo di trovare sostegno nelle radici morali che lo hanno segnato nel suo sorgere; esso può e deve riconoscere quei valori fondamentali in assenza dei quali non sarebbe diventato quello che è e non potrebbe sopravvivere. Uno Stato della ragione astratta, antistorica, non potrebbe sussistere.

Sul piano pratico tutto ciò significa che noi cristiani dobbiamo sforzarci, insieme ai nostri concittadini tutti, di dare al diritto e alla giustizia un fondamento morale che si ispiri alle idee cristiane fondamentali, qualunque sia il modo in cui ciascuno ne interpreta le origini e le armonizza con l'insieme della sua vita. Ma per far sì che simili convinzioni razionali comuni siano possibili, è necessario che noi stessi viviamo con energia e purezza la nostra eredità, in modo che diventi visibile ed efficace ed eserciti la sua forza interiore di persuasione nell'insieme della società. Vorrei concludere con le parole del filosofo di Kiel, Kurt Hubner, che illustrano limpidamente questo intento: «Potremo evitare il conflitto con le culture che oggi ci sono ostili solo se riusciremo a smentire il veemente rimprovero di aver dimenticato Dio, tornando ad essere pienamente coscienti del radicamento profondo della nostra cultura nel cristianesimo. Certamente questo non basterà a cancellare il risentimento prodotto dalla superiorità occidentale che in molti campi connota la vita del nostro tempo, ma potrà contribuire in misura significativa a spegnere il fuoco religioso che, a ben vedere, si alimenta naturalmente...». È un fatto: se non siamo fedeli alla memoria del Dio della Bibbia, del Dio che si è fatto prossimo in Gesù Cristo, non troveremo la strada della pace.